Fiat Mirafiori: la classe operaia ha battuto un colpo.

Ma per farsi “ascoltare” davvero, è necessario che…

 

Lavoratori,

le assemblee che si sono tenute a Mirafiori con i segretari di Cgil-Cisl-Uil rivestono una grande importanza per tutta la classe operaia, per tutti i lavoratori.

Innanzitutto perché gli operai della più grande fabbrica d’Italia hanno rotto il silenzio in cui erano stati a poco a poco rinchiusi a partire dalla cassa integrazione di massa del 1980. E poi perché nel frastuono delle manifestazioni di commercianti, professionisti, piccoli imprenditori, poliziotti e quant’altri, hanno rimesso al centro dell’attenzione generale le “ragioni” degli operai e dei proletari: ritmi e turni di lavoro massacranti, salari insufficienti, pensioni a rischio, perdurante paura dei licenziamenti, crescente difficoltà a far convivere lavoro in fabbrica e cure domestiche, e nel fondo l’incertezza crescente che i proletari sperimentano nella società attuale. Si aggiunge a tutto ciò una certa disillusione verso la finanziaria del governo Prodi (il “governo amico”…), da cui ci si aspettava di certo qualcosa, o molto “di più”, e poi, a “coronamento” del tutto, lo scontento per non essere “ascoltati” mai da nessuno, neppure dai “propri” dirigenti sindacali.

In questo modo gli operai di Mirafiori hanno lanciato a se stessi e agli altri lavoratori il messaggio di cui c’era bisogno: “qui le classi e gli strati sociali che vivono del nostro lavoro si stanno dando da fare per far valere i loro interessi. Tutto sembra congiurare per metterci ancor più all’angolo. E noi, che mandiamo avanti la produzione e la società, cosa facciamo? continuiamo a restare in silenzio? Non è il caso”. Giustissimo! Finalmente la classe operaia ha battuto un colpo.

Aver gridato le proprie ragioni, esser tornati a usare le assemblee sindacali per un confronto schietto sulla propria condizione, è stato un primo passo. Ma non ci si può illudere che sia sufficiente. Non è da credere che basterà per “convincere” la Confindustria a moderare le sue pretese sulle pensioni e sul patto di produttività. Né è da credere che basti aver tirato le orecchie a Epifani, Angeletti e Bonanni per evitare che le direzioni di Cgil-Cisl-Uil firmino nuovi accordi a perdere. C’è bisogno di battere altri colpi! C’è bisogno di una ripresa della mobilitazione, anzitutto. Una mobilitazione che rimetta al centro della vita sociale e politica le necessità e le rivendicazioni dei lavoratori, perché sono “le piazze”, i rapporti di forza tra le classi, a decidere la direzione in cui marcia un paese. E prima ancora e in preparazione di essa, c’è bisogno di una grande discussione di massa nei luoghi di lavoro sul “declino dell’Italia” e sugli effetti disastrosi per la classe lavoratrice delle ricette con cui il centro-destra e il centro-sinistra intendono bloccare e invertire questo declino.

Noi non confondiamo Prodi con Berlusconi, e viceversa. Lo sappiamo: la finanziaria di Prodi ha qualche punto di discontinuità con quella di Berlusconi, poiché non ha accollato tutto il suo peso sulla sola classe operaia (questo, grazie alla resistenza che abbiamo opposto a Berlusconi). C’è però un elemento-cardine del tutto comune alle politiche del centro-sinistra e del centro-destra: l’obiettivo di accrescere la competitività dell’azienda-Italia “per uscire dalla crisi dell’economia nazionale”. Secondo il governo in carica, il modo migliore per farlo è stringere un accordo tra imprenditori e operai, che a suo dire sarebbe vantaggioso per tutti: se le aziende andranno meglio, andrà meglio anche per gli operai.  

Quanto sia falsa questa tesi, lo dimostra proprio il caso della Fiat. L’azienda, è in grande ripresa di produzione e soprattutto di profitti. Per gli operai, invece, le cose sono peggiorate rispetto a qualche anno fa. La Fiat si è ripresa riducendo drasticamente il personale, estendendo a tutti gli stabilimenti le tempistiche inumane di Melfi, imponendo nuovi turni di notte, ricattando i lavoratori con la minaccia di altre delocalizzazioni, usando il pugno di ferro nei reparti. Dove sta il comune vantaggio di imprese e lavoratori? Come ha detto un’operaia di Mirafiori: “il risanamento della Fiat l’abbiamo pagato noi operai”.

E non si tratta solo della Fiat. Alla Fincantieri, all’Alitalia, all’Atesia, alla Barilla, al petrolchimico di Marghera, a Trenitalia, il quadro non cambia. Anche dove i bilanci aziendali sono stabilmente in attivo, per i lavoratori la vita è dura, durissima, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Se poi i bilanci sono in rosso, non c’è scampo ai tagli e alla secca intensificazione del lavoro. Può darsi che nelle imprese più competitive vi sia qualche euro in più in busta paga, ma i costi della competitività delle imprese e dell’azienda-Italia sono tutti interamente e sistematicamente accollati alla classe operaia, sia autoctona che – ancor più - immigrata.

Né si tratta solo di costi materiali, o dell’azzeramento-devastazione della vita privata dei lavoratori. La via della competitività frantuma la capacità di resistenza della classe lavoratrice. Ogni lavoratore è spinto a essere solidale con la “sua” azienda, la “sua” regione, la “sua” nazione contro il lavoratore dell’“altra” impresa, dell’“altra” regione, dell’“altra” nazione. E lo sbocco obbligato di questa corsa mondiale alla competitività e all’occupazione dei mercati non può che essere una corsa verso i conflitti bellici, una corsa verso e dentro la “guerra infinita” proclamata da Bush e fatta propria tanto dal precedente che – nella sostanza – anche dall’attuale governo.

Il nodo della possibile alleanza tra padroni e operai “per la produttività e la competitività” è dunque un nodo centrale per la classe lavoratrice, che va affrontato e sciolto. Il patto che stanno per proporci la Confindustria e Prodi su pensioni e produttività porterà a nuovi peggioramenti sulla durata e sull’intensità della nostra vita lavorativa, e va perciò respinto con decisione, aprendo una fase di critica e di lotta anche contro il presunto “governo amico”, a misura che esso è promotore di politiche che colpiscono la classe lavoratrice.

Non facciamoci paralizzare dalla paura di lasciar spazio nuovamente a Berlusconi. L’esperienza del movimento operaio insegna che restare fermi per timore di danneggiare Prodi, sarebbe il miglior regalo possibile a Berlusconi e alla destra, che nel frattempo hanno ripreso a marciare nelle piazze lasciate vuote dai lavoratori. È già successo in occasione dei governi di centro-sinistra degli anni ‘90: si stette fermi con “il governo amico” Ciampi e poi arrivò Berlusconi; si stette fermi con i governi dell’Ulivo, e poi tornò di nuovo il cavaliere. Il “silenzio” della classe operaia non ha mai moderato gli appetiti dei capitalisti. Li ha sempre stimolati e ingigantiti.

Nella fase di acutizzazione dello scontro sociale che si apre in Italia, determinata da tendenze del sistema capitalistico che sono in tutto e per tutto mondiali, non abbiamo altra scelta che accettare lo scontro e far pesare i nostri bisogni vitali nell’unico modo possibile: contando sull’organizzazione e sulla mobilitazione proletaria, sulla forza che ci deriva dall’essere la classe che manda avanti tutta la società capitalistica. Entrando anche noi in “politica”.

Non aspettiamoci che siano le direzioni sindacali a prendere la testa di una simile risposta. Anche per esse la tutela degli interessi dei lavoratori va subordinata allo sviluppo della competitività dell’Italia e alla tenuta del governo attuale. Spetta a noi, in prima persona, prendere l’iniziativa. Spetta a noi, in prima persona, la responsabilità di far vivere il sindacato di cui c’è bisogno per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari. È necessario che siano gli operai, i lavoratori a farsi sindacato, ad essere, a diventare il proprio sindacato di classe.

Certo, non è un compito che si può portare a termine in un giorno o in un mese. Ma è un compito va preso in carico da subito con la ripresa della mobilitazione aperta innanzitutto contro il padronato ma anche contro un governo che non si sta rivelando esattamente “amico” dei lavoratori. E per assolvere al meglio questo compito, è necessario un indirizzo generale di azione e una organizzazione completamente autonomi dalla logica del mercato, capaci di vedere che le radici della “crisi italiana” stanno nella crisi del sistema capitalistico mondiale; e che pertanto la soluzione dei problemi non può essere costituita da semplici rattoppi, può essere data soltanto da una generale riorganizzazione della produzione e della vita sociale, fondata su una generale cooperazione dei veri produttori e su di un vero rispetto della natura. Altro che competitività! Altro che patto con chi sfrutta il lavoro operaio! Altro che sistema-Italia contro tutti! Altro che fiducia e delega ai “governi amici”!

 


Organizzazione Comunista Internazionalista