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Verso la fase due del governo Prodi. Cosa ci aspetta?
Buona parte dei lavoratori ha guardato con una certa fiducia alle prime mosse del governo Prodi. Il decreto Bersani e la rimodulazione dell’Irpef sono stati accolti come i segnali di un inizio di cambiamento. Certo, non sono piaciute le misure previste dalla manovra finanziaria in campo sanitario e i tagli alla spesa degli enti locali. Nel complesso, però, i primi passi del governo Prodi hanno dato l’impressione di un intervento in discontinuità con quello del governo Berlusconi: ci vengono chiesti nuovi sacrifici, si è detto in tante assemblee, e non solo da parte dei funzionari sindacali, ma questa volta essi sono distribuiti tra tutte le classi sociali e, soprattutto, sembrano finalizzati ad un reale rilancio dell’economia nazionale. L’evoluzione successiva della situazione politica ha cominciato ad insinuare in alcuni settori del mondo del lavoro un giustificatissimo sentimento di preoccupazione, e anche di malcontento, nitidamente espressi negli interventi operai alle recenti assemblee a Mirafiori. Alcune modifiche alla finanziaria fatte per venire incontro alla protesta di piazza dei ceti medi, le pressanti richieste di “tagli e riforme strutturali” presentate dagli organismi finanziari internazionali e dalla Confindustria, le ripetute dichiarazioni di Fassino e Rutelli a favore di nuovi interventi sulle pensioni e sulle regole contrattuali hanno indotto i lavoratori che si riconoscono nel centro-sinistra ad un giudizio più dubitativo sulla finanziaria e hanno creato allarme per ciò che potrebbe riservare loro la cosiddetta “fase due”. Affinché questa sacrosanta preoccupazione e queste prime reazioni operaie possano tradursi in un’efficace auto-difesa di classe, è necessario cominciare a fare un bilancio non solo delle singole misure e iniziative intraprese dal governo o che il governo sta per intraprendere, quanto soprattutto del senso generale della sua azione e dell’evoluzione della “crisi italiana”. Le righe che seguono intendono appunto contribuire a chiarire ed evidenziare quale è la bussola che orienta l’azione dell’esecutivo guidato da Prodi nel suo complesso. Una bussola tarata su programmi, priorità e interessi ben diversi da quelli che devono essere propri dei lavoratori, come dimostra anche l’operato governativo sui terreni della politica “estera” e dell’immigrazione.
Discontinuità e continuità con Berlusconi
Partiamo dal 2001. Allora l’intero padronato puntò sul cavaliere. Con un mandato molto chiaro: attaccare a fondo il mondo del lavoro e procedere, su questa base, alla riorganizzazione del “sistema paese” necessaria per fronteggiare adeguatamente gli incombenti pericoli di declino e declassamento del capitalismo italiano. È proprio su questo fondamentale punto che il centrodestra ha parzialmente fallito. Da un lato, l’opposizione messa in campo dai lavoratori, per quanto piena di incoerenze, ha in parte frenato l’azione berlusconiana, impedendole di raggiungere integralmente i suoi fini. Dall’altro lato, nel blocco della “Casa della Libertà”, anche in conseguenza della resistenza dei lavoratori, ha preso il sopravvento il particolarismo degli appetiti borghesi raccolti attorno a Bossi, Fini e Berlusconi. La massa (differenziata) dei commercianti, dei professionisti, degli imprenditori, degli artigiani, degli speculatori sostenitori del centro-destra ha interpretato gli anni berlusconiani come una grande occasione di arricchimento “ognuno per sé” (e tutti ai danni dei lavoratori) senza preoccuparsi dell’esigenza di funzionalizzare la cura delle loro singole intraprese al rafforzamento complessivo del “sistema Italia” nel mercato capitalistico mondiale. Questo comportamento centrifugo della base “di massa” borghese e piccolo-borghese della Casa della Libertà si è rivelato un handicap non da poco per il rilancio dell’economia nazionale richiesto dal grande capitale e promesso da Berlusconi. Perché un capitalismo come quello italiano in cui la dimensione media delle imprese è nettamente inferiore alla media europea, il risparmio dei ceti medi è scarsamente canalizzato verso centri finanziari con un raggio d’azione planetario, e i costi improduttivi gravanti sul ciclo riproduttivo capitalistico sono più alti che in qualsiasi altro paese occidentale, ha un urgente bisogno di misure capaci di disciplinare anche i ceti medi per aumentare il flusso di denaro liquido da mettere a disposizione delle duecento imprese che costituiscono l’ossatura dell’economia italiana. Ora, è vero che nell’era berlusconiana, grazie al raddoppio del reddito degli imprenditori e dei professionisti e al taglio del 10% dei redditi degli operai e degli impiegati, la parte della società che campa di profitti e di rendite ha beneficiato di un trasferimento di ricchezza ai danni del lavoro salariato mai visto nel secondo dopoguerra. Questo spostamento di ricchezza, però, non è diventato un serio ricostituente del capitalismo italiano nel suo insieme. Nel quinquennio 2001-2006 esso ha invece continuato a perdere quota nel panorama internazionale. La crisi produttiva dal tessile si è estesa al comparto meccanico e a quello elettronico. La quota italiana degli investimenti esteri si è ridotta dal 3 al 2,4% (la Spagna è al 3,4%, la Francia al 7,9%, la Germania all’8,6%, la Gran Bretagna al 14%). La quota degli investimenti esteri sul prodotto interno lordo italiano si è ridotta al 17% (in Spagna è al 33%, in Germania al 30%, in Francia al 38%). Pur se il commercio mondiale è cresciuto del 10%, la quota italiana è scesa dell’1,5%, arrivando ad un livello pari alla metà di quella della Germania e inferiore anche a quella della Spagna. In questa situazione, le brame d’arricchimento individuali dei nuovi capitalisti rampanti perseguite indipendentemente dall’interesse nazionale stavano portando, com’è accaduto con la speculazione di Ricucci sul Corriere della Sera e sul “salotto buono” della finanza italiana, alla scalata di alcuni dei maggiori poli capitalistici italiani da parte di grandi gruppi europei. Di fronte a tutto ciò, la parte della grande imprenditoria e dell’alta finanza più direttamente esposta sul versante della concorrenza internazionale ha tentato una specie di arrocco in campo economico con la realizzazione di alcune significative fusioni, tra cui quella che ha portato l’Unicredit ad espandersi nei paesi dell’Europa centrale e quella che ha coinvolto Banca Intesa e San Paolo. Nello stesso tempo, consapevole dell’impossibilità per le imprese di razionalizzare la macchina capitalistica per affrontare la competizione internazionale senza la piena copertura del potere politico e dell’apparato statale, il grande capitale italiano si è preoccupato di delineare un quadro politico più adeguato per sé di quello berlusconiano. Dopo aver comunque incassato i tanti risultati positivi per sé prodotti dall’era-Berlusconi, non ultima l’ulteriore penetrazione in tutta la società –larghe fette del mondo del lavoro incluse– dei “superiori valori” dell’impresa e del mercato, il grande capitale italiano ha voltato le spalle al Cavaliere e puntato (provvisoriamente e con molte condizioni) sul professore e sulla “sua” prospettiva. Non ha con ciò rinunciato al suo obiettivo di fondo, perché anche la prospettiva di Prodi è quella del rilancio del capitalismo italiano. Sembrerebbe, però, che abbia rinunciato alla precedente tentazione di farlo con un attacco secco alla classe operaia. Il centro-sinistra, infatti, sostiene che è possibile rilanciare il capitalismo italiano (lo stesso obiettivo di Berlusconi, piena continuità in questo) in un modo diverso da quello berlusconiano: non attraverso la contrapposizione tra le classi, ma attraverso l’alleanza tra il grande capitale “produttivo” e i lavoratori dell’industria; non contro gli interessi del lavoro salariato, ma al contrario con reciproco vantaggio di tutte le classi sociali “produttive”. Emblematici al riguardo il decreto Bersani e la manovra finanziaria.
L’attacco politico ai lavoratori insito nel decreto Bersani e nella finanziaria
Con la cosiddetta “liberalizzazione delle professioni”, il governo di centro-sinistra ha provato a dare una lieve limatura agli enormi e odiosi privilegi corporativi di notai, avvocati, farmacisti e liberi professionisti vari (discorso a parte meriterebbe il “capitolo taxi”). La misura ha riscosso da un lato il plauso della Confindustria, che ha definito il decreto “un’importante rivoluzione a costo zero”, e dall’altro quello dei lavoratori, che ne hanno potuto riscontrare di persona alcuni piccoli ritorni positivi, ad esempio sul costo dei medicinali da banco. Ma al di là delle sue immediate ricadute economiche, questo provvedimento ha avuto importanti risvolti politici, in quanto è apparso come una prima dimostrazione della possibilità di far incontrare gli interessi confindustriali con quelli operai in una comune azione di “risanamento e crescita” dell’economia nazionale basata sulla potatura delle più evidenti sacche di parassitismo sociale. Quasi una prova generale di come, senza gravare sulle imprese “produttive” e sul lavoro salariato, si possa trasferire denaro dalla “rendita parassitaria” al “circuito capitalistico produttivo” a vantaggio reciproco sia degli industriali che dei lavoratori. La manovra finanziaria è stata presentata in un’ottica analoga. Andiamo in stampa mentre la finanziaria sta completando il suo iter parlamentare. Al di là di possibili ulteriori “aggiustamenti”, proviamo a ragionare sugli assi portanti di una manovra che ambisce a far scendere il deficit sotto il 3% e si configura come la più pesante dopo quella del 1992 targata Giuliano Amato. Prodi e Padoa-Schioppa l’hanno definita “equa e imperniata sul supporto allo sviluppo”. I vertici sindacali (inclusa una sezione del sindacalismo extra-confederale, il SinCobas) hanno concordato con il nocciolo di questa valutazione, pur moderando con il passare del tempo le lodi. Il loro giudizio globalmente positivo è sembrato essere avvalorato dai mal di pancia affiorati nella Confindustria e dalle grida del centro-destra che parla addirittura di “vendetta sociale” contro i ceti medi. Vediamo un po’. Nelle assemblee con i lavoratori i vertici sindacali hanno ammesso che la manovra contiene alcune misure che andranno ad incidere negativamente sul salario, diretto o indiretto: i ticket sulle richieste di visite specialistiche, la corposa riduzione dei trasferimenti agli enti locali finalizzati in parte a tenere in piedi i servizi sociali (mentre, per inciso, crescono le spese militari), l’aumento dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti, etc. Di fronte a questa nuova tornata di sacrifici, le direzioni sindacali si sono presentate ai lavoratori con due proposte. Da un lato, hanno avanzato al governo e al parlamento la richiesta che venissero introdotte alcune modifiche nella manovra, il che in parte è accaduto nell’iter parlamentare. Dall’altro lato, hanno invitato i lavoratori a riflettere sul senso complessivo della manovra. Le direzioni sindacali hanno sottolineato che la rimodulazione complessiva dell’Irpef (che di fatto sembra inglobare la quota di “cuneo” tagliato a favore dei lavoratori) ha effettivamente operato una piccola ma reale redistribuzione del carico fiscale a vantaggio della grande maggioranza dei redditi operai e da lavoro dipendente. Hanno ammesso che il provvedimento, il quale singolarmente preso va in senso opposto alle politiche fiscali berlusconiane, potrebbe non essere sufficiente per bilanciare in positivo per le tasche dei lavoratori gli effetti dei maggiori esborsi dovuti alle altre misure contenute nella finanziaria. Hanno ammesso, dunque, sia pure a mezza bocca, che sono possibili nuovi sacrifici. Ma hanno enfatizzato il fatto che i lavoratori non escono con le ossa rotta da una manovra molto pesante, e che questa manovra si incarica di favorire, anche nell’interesse dei lavoratori, lo sviluppo economico dell’Italia, soprattutto con il taglio del cuneo fiscale a favore delle imprese “produttive” (sono state escluse dai benefici le banche e le aziende che non agiscono in “regime di concorrenza” ma in concessione). Da parte sua il presidente di Confindustria, Montezemolo, pur criticando aspramente la finanziaria per la sua “timidezza” sui tagli alla pubblica amministrazione e alle spese sociali e per la questione del tfr, ha rilevato come la riduzione di tre punti percentuali sul costo del lavoro così ottenuta sarà di notevole aiuto per la crescita e il rafforzamento delle aziende italiane. Ed in effetti, come dargli torto?, la finanziaria è piena di misure a favore della media-grande impresa. Come per il provvedimento Bersani, sembrerebbe quindi che siamo di nuovo di fronte alla possibilità di una redistribuzione del reddito nazionale in grado di rilanciare la competitività del “sistema Italia” e non penalizzante per i lavoratori. Tutto bene, dunque? Neanche per idea! È vero che sul piano “salariale” immediato questa finanziaria non rompe le ossa al mondo del lavoro, il che –però, sia ben chiaro!- va attribuito solo e soltanto alla resistenza messa in campo dai lavoratori negli anni scorsi contro il governo Berlusconi e il padronato. Non è meno vero, però, che la finanziaria e le altre misure prese dal governo Prodi, anche con questa loro apparenza di “equità”, è questo il punto essenziale da comprendere, preparano il terreno a nuovi e profondi attacchi ai lavoratori, che non risparmieranno neppure il piano del salario immediato. Perché? Perché la loro accettazione, più o meno convinta, più o meno rassegnata, da parte dei lavoratori favorisce l’ulteriore introiezione in essi della “filosofia” su cui sono incardinate. Sta qui l’attacco più insidioso che il governo Prodi sta sferrando contro i lavoratori e che li porterà, se non percepito e fermato, ad affrontare da posizioni di grande debolezza la fase due alle porte, a cui i lavoratori più coscienti guardano a ragione con crescente preoccupazione. Sta qui il principale motivo di convenienza che la Confindustria ha nell’appoggiare provvisoriamente il governo di centro-sinistra, prima di tornare a colpire in profondità attraverso altri governi, di cui intanto si preparano le condizioni con il pressing dall’alto delle istituzioni di Casini e con quello “dal basso” della piazza di Berlusconi. La “filosofia” del governo Prodi può essere riassunta in questi termini: finora il capitalismo italiano non ha saputo affrontare la sfida posta dalla mondializzazione capitalistica agendo con uno “spirito di squadra”, e sta, di conseguenza, declinando. Per arrestarne il declino, occorre rilanciare la competività del Sistema-Italia, oltre quella delle singole imprese. Tale rilancio richiede il contributo e i sacrifici di tutte le classi sociali, ma andrà a beneficio di tutte le classi sociali, anche dei lavoratori. Davvero?
Competitività, condizioni di lavoro, vita extra-lavorativa
Certo, per alcuni settori operai il carro della competitività aziendale e nazionale può anche portare, a volte, ad una transitoria tenuta o ad un miglioramento salariale. Ma la valutazione dell’impatto generale di una politica non può essere basata su aspetti contingenti e sulla sola dimensione salariale. All’oggi non c’è forse miglior test di cosa voglia significare il recupero di competitività delle aziende e del sistema-Italia, della Fiat: impresa con profitti in forte rilancio (almeno al momento), lavoratori spremuti come limoni, con quattro euro in tasca e una serie di incognite per il proprio futuro. Uno dei principali motivi di rimostranza degli operai di Mirafiori nelle assemblee con i segretari generali di Cgil-Cisl-Uil è stato proprio quello delle condizioni di lavoro. I ritmi e l’organizzazione del lavoro sono diventati estenuanti. A Mirafiori e nella gran parte delle fabbriche italiane. Lo avevano già denunciato due anni fa, nel silenzio generale, gli operai di Melfi con uno sciopero ad oltranza di tre settimane contro l’asfissiante organizzazione dei turni. Ora, è la stessa esperienza degli operai di Mirafiori a spiegare da dove deriva questo aggravio snervante del lavoro operaio: dall’esigenza di sfornare automobili competitive rispetto a quelle prodotte dalle altre case o dagli stabilimenti esteri della stessa Fiat. Ecco dove sta il segreto dei successi di Marchionne, ecco cosa vuol dire in concreto: più competitività! Vuol dire saturazione ai limiti dell’umano dei tempi di lavoro, richiami ed umiliazione dei capi verso chi non regge il passo, variazione continua dei turni e, sempre più spesso, allungamento degli stessi orari di lavoro, magari sotto la forma dell’estensione del lavoro straordinario. Da una recente inchiesta dell’Ires-Cgil emerge che il 60% dei proletari lavora per più di 40 ore, nel settore privato la percentuale sale al 72%, mentre il 22% dei lavoratori sorpassa le 45%! E poi ci si sorprende per i muratori di Brescia che “tirano la coca” per sostenere il lavoro da bestie che svolgono nei cantieri! Certo, il caso dei giovani proletari di Brescia può anche essere estremo. Ma meno di quel che sembra, se si considera quant’è diffuso tra gli operai, anche i più giovani, il consumo di anfetamine, hashish, anti-depressivi, anti-dolorifici proprio per sopportare la fatica e l’alienazione di un lavoro “a prova di stupido” (come ha teorizzato il toyotismo) da portare avanti per tutta la vita. Poi ci si sorprende che nel solo 2005 ben 1280 lavoratori siano stati assassinati dal e sul lavoro! Con un ritmo di lavoro a tal punto spasmodico che, come accaduto in estate nel cantiere di Catania, non si fa neanche riposare il cemento armato il tempo minimo richiesto dal consolidamento del materiale, è inevitabile che si moltiplichino gli incidenti e le stragi sul lavoro. Tanto più che, come ha denunciato il dirigente della Camera del Lavoro di Brescia, D. Greco, il lavoro in nero e precario arriva a costituire quasi la metà dei posti di lavoro (La Repubblica, 22 novembre). Per i dirigenti del centro-sinistra queste condizioni di lavoro dipendono dal fatto che le imprese italiane sono collocate su settori merceologici non avanzati dal punto di vista tecnologico. E’ una delle tante bufale che mettono in circolazione. Basta dare un’occhiata a ciò che accade nel paese europeo leader nei settori avanzati, la Germania, per rendersi conto che anche lì l’antifona non è diversa. Negli ultimi anni, ne abbiamo parlato nei numeri precedenti del giornale e sul nostro sito, proprio per sostenere la competitività delle imprese tedesche nel mondo o per salvaguardare i posti di lavoro negli stabilimenti in Germania, vi è stata una serie di accordi che hanno portato all’allungamento degli orari di lavoro (fino anche a 6-7 ore a settimana in più, senza aumenti di salario) e al peggioramento della condizione lavorativa. Il fatto è che l’elemento fondamentale che permette alle aziende di rimanere competitive nella giungla dell’attuale mercato capitalistico mondiale è l’intensificazione e l’allungamento della prestazione lavorativa. Anche l’introduzione di nuovi procedimenti tecnologici serve per questo e non per alleviare la fatica. L’ennesima riprova viene dalla discussione in sede Ue di una nuova legislazione che prevede lo sfondamento del tetto dell’orario di lavoro massimo vigente in Europa (48 ore a settimana) e le riforme in corso in tutti i paesi europei per l’allungamento della vita lavorativa. Recentemente è stata ancora l’avanzata Germania, impegnata nella “via alta allo sviluppo” cara ai vertici dei sindacati confederali, ad alzare l’età di pensionamento a 67 anni! A questo va aggiunto che una simile condizione lavorativa e una società invasata dalla rincorsa della competitività porta all’abbrutimento della vita dei lavoratori anche al di fuori del posto di lavoro. La stanchezza, gli orari e le turnazioni rendono sempre più difficile coltivare sani rapporti affettivi e sociali. L’insicurezza che la concorrenza fa spasmodicamente gravare su molti posti di lavoro, quelli a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato, regala ansia a dosi massicce e spinge ad accettare di correre, sgomitare, arrampicarsi, per paura di essere buttati fuori. E poi ci si sorprende per l’imbarbarimento dei costumi sociali rivelato dai fatti di cronaca! Ogni giorno su un qualsiasi quotidiano leggiamo da un lato gli inni alla competitività e dall’altro la condanna moralistica per la sequenza sempre più fitta e varia degli orrori della vita quotidiana, più legati di quanto non si creda, oltre che alla generale mercificazione dei rapporti sociali, ad una dinamica sociale nella quale, visto l’imperare della competitività, non si può in nessun modo accettare anche nella vita personale di “soccombere”. Il programma prodiano di rilancio della competitività esaspererà ulteriormente queste tendenze patogene, dentro e fuori i luoghi di lavoro (forse è anche in vista di ciò che si è un po’ liberalizzato il consumo di hashish e marijuana… un “aiutino” a sopportare meglio…) Ce ne sarà un assaggio, se non gli sbarreremo la strada per tempo, già con il patto sulla produttività cui la Confindustria e il governo vogliono arrivare! Ne ha anticipato la linea direttiva proprio l’amministratore delegato della Fiat, Marchionne. Egli ha detto che le imprese dovrebbero e potrebbero anche esser disposte ad alcune concessioni salariali in cambio, però, di una maggiore disponibilità dei lavoratori e del sindacato a farsi carico ancor più di oggi delle esigenze aziendali in termini di flessibilità dell’organizzazione del lavoro. I dirigenti di Confindustria, sia coloro che sostengono il centro-sinistra sia quelli rimasti fedeli a Berlusconi, hanno dichiarato che non esigono il taglio dei salari (a questo hanno già provveduto, almeno per ora, il governo Berlusconi e il passaggio all’euro) ma “solo” agganciare una quota crescente del salario e degli aumenti salariali ai risultati dell’azienda, cioè alla disponibilità dei lavoratori ad accettare l’appesantimento del lavoro richiesto dalla concorrenza. Un esponente del governo di primo piano come D’Alema ha già risposto: “In primavera, bisogna rilanciare una forte, coraggiosa azione riformatrice. Su due fronti. Primo, un patto sociale per la produttività e la competitività che chieda maggiore flessibilità in cambio di una riduzione della precarietà, come avvenuto in Spagna, e una revisione del sistema previdenziale. Dobbiamo avere il coraggio di individuare quali sono i lavori usuranti, da tener fuori, per pensare ad un aumento dell’età pensionabile per gli altri” (Il Corriere della Sera, 14 ottobre). La “fase due” del governo Prodi, che giustamente preoccupa non pochi lavoratori, è la coerente applicazione della linea d’azione da cui sono derivati i provvedimenti “equi e imperniati sullo sviluppo” della “fase uno”. Ecco perché non può certo essere il governo Prodi lo scudo attraverso il quale ce ne possiamo difendere!
Competitività: una corsa verso l’abisso da fermare subito!
Ma il carro della competitività non si limita a travolgere “solo” le condizioni di lavoro e la vita “privata” dei proletari. Agendo come una centrifuga contro ogni fattore di coesione e di unità tra operai, tende a disintegrarne completamente la capacità di resistenza e la forza politica. Spinge il lavoratore a essere solidale con la “sua” azienda, con la “sua” regione, con la “sua” nazione contro il lavoratore dell’“altra” impresa, dell’“altra” regione, dell’“altro” paese. Una spirale che, vista la debolezza del capitalismo italiano, potrebbe portare in Italia ad una contrapposizione territoriale simile nella sostanza, pur se non nelle forme, a quella che hanno subìto (ed è stata una vera e propria catastrofe) i lavoratori della “ex”-Jugoslavia. Il tentativo, reale, del grande capitale italiano e del governo Prodi di contenere e invertire il declino del capitalismo italiano è estremamente fragile. Certo, in pochi mesi sono stati compiuti passi in avanti su alcuni terreni decisivi, tra cui un certo accentramento del capitale finanziario, la riduzione del costo del lavoro con l’intervento sul cuneo fiscale, il rilancio del ruolo internazionale dell’Italia e degli investimenti italiani nelle aree a più alto tasso di sviluppo (la Cina in primo luogo), la firma di alcuni accordi strategici sull’approvvigionamento energetico con la Russia e l’Algeria. Ma questi passi avanti vanno messi in relazione con quello che accade contemporaneamente nelle altre potenze capitalistiche: fusioni gigantesche tra multinazionali (come è accaduto nel campo delle telecomunicazioni e dell’elettronica), intervento pianificato della leva statale per lo sviluppo dei settori strategici (come ad esempio i trasporti aerei) e per la protezione degli investimenti esteri. Il ritardo dell’Italia è saltato agli occhi proprio in occasione di una delle iniziative con cui la Confindustria e il governo hanno mirato a rilanciare la presenza delle imprese italiane all’estero: la missione dei mesi scorsi in Cina. L’incapacità del sistema-Italia e dello stato italiano di farsi carico di questo ritardo potrebbe rilanciare la tentazione a “far da sé” da parte delle imprese delle regioni più ricche e, in appoggio ad esse, se si accetterà la “filosofia” del governo Prodi, anche da parte dei loro lavoratori. Ne abbiamo avuto un assaggio con la contrapposizione tra Malpensa e Fiumicino nella vertenza Alitalia e nel documento bipartisan votato in regione Lombardia sul federalismo. Senza contare che la concorrenza mondializzata a cui i padroni e il governo italiano stanno chiamando i lavoratori ha come sbocco obbligato la crescente implicazione dell’Italia sul piano militare nella “guerra infinita” ai “popoli ribelli”. Basterebbe leggere in proposito la lettera che il ministro degli esteri D’Alema ha inviato il 27 ottobre al quotidiano La Repubblica: “Nel mondo interdipendente di oggi, l’Europa riuscirà a rispondere alle preoccupazioni di fondo dei suoi cittadini –occupazione e sicurezza– solo diventando un attore globale. Nel mezzo secolo scorso, l’Europa è stata costruita sull’integrazione interna, dal mercato unico alla moneta; nel prossimo mezzo secolo, l’Europa esisterà solo se saprà proiettarsi all’esterno. Da questo punto di vista, la missione in Libano ha costituito un segno di risveglio positivo.” Non aspettiamo di trovarci sull’orlo del baratro per realizzare che l’aggancio della difesa delle condizioni proletarie al rilancio della competitività delle imprese, dell’Italia e dell’Europa richiederà sempre più la partecipazione diretta a vere e proprie operazioni militari, a vere e proprie guerre guerreggiate (come del resto è già stato, al di là delle ipocrisie berlusconiane, in Iraq e in Afghanistan, e di quelle dalemiane, in Jugoslavia). Non solo, quindi, la preoccupazione dei lavoratori per la cosiddetta “fase due” è perfettamente fondata, ma l’orizzonte delle fasi tre, quattro, etc. è ancor più minaccioso di quello che sembra se si considera l’esistenza dei lavoratori nel suo insieme e non solo sul piano dei salari e delle pensioni. Come si affronta questa situazione?
Bisogna reagire!
Innanzitutto non facendosi immobilizzare dalla paura di far male a questo governo per timore di ritrovarsi nuovamente un Berlusconi a palazzo Chigi. Berlusconi e il suo “popolo” si sono rimessi in marcia nelle piazze in modo ancor più aggressivo di dieci anni addietro e del 2001. Nella pletora di ceti medi che si stanno stringendo intorno al Polo c’è un misto di rabbia, per essere chiamati a pagare qualcosa dopo anni di impunità, la rabbia degli iper-privilegiati non disposti a cedere neanche un millimetro delle proprie rendite di posizione, e di paura, poiché non piccole quote delle fasce intermedie della società, sia accumulatrici che salariate o stipendiate, presentono, non a torto, che il futuro non promette molto di buono neppure a loro, con i processi di centralizzazione del capitale, con la maggiore apertura delle frontiere merci e imprese estere, con l’esasperazione della competitività che falcerà posti di lavoro (gli Usa insegnano) anche tra gli impiegati privati, con le imposizioni che la “gente comune”, di cui si ritengono parte, subirà ad opera delle istituzioni statali. E a tale misto di rabbia e di paura, di grassatori professionali e di strati sociali che già stanno scendendo o temono di dover cominciare presto a scendere nelle loro disponibilità materiali e nelle loro aspettative sociali, Berlusconi indica il bersaglio facile del “governo tassassino”, guidato dalla “perversa ideologia comunista”, ostaggio delle organizzazioni sindacali. Non è assolutamente il caso di prendere sottogamba questa mobilitazione, non tanto o non solo per l’abilità di chi la dirige, quanto per la dinamica di radicalizzazione sociale e politica che si è messa in moto in questi strati, e che – se non troverà un potente antidoto nella opposta mobilitazione operaia e proletaria – potrebbe davvero trovare ascolto nella stessa massa dei lavoratori salariati. Nessuna sottovalutazione, da parte nostra, del rischio-Berlusconi e del rischio-destra. Ma una certezza, corroborata dalla storia: la passività della classe operaia, il restare fermi per timore di danneggiare il governo (presuntamente) “amico” in sella sarebbe il massimo dei regali possibili a Berlusconi e alla destra in marcia. Bisogna, al contrario, che i lavoratori facciano sentire il proprio peso e la propria voce. Altrimenti le piazze lasciate vuote dai lavoratori verranno, già vengono, riempite in modo sempre più arrogante dalle classi e dagli strati sociali a noi nemici. Il “silenzio” della classe operaia e dei lavoratori non ha mai moderato gli appetiti borghesi. Li ha sempre stimolati e ingigantiti. Uno dei motivi che ha portato Confindustria a sostenere, per il momento, Prodi è stato proprio questo: riuscire, con l’aiuto di un governo guardato dai lavoratori con benevolenza, a passivizzare la classe operaia, a farle dismettere l’accenno di mobilitazione e le aspettative cresciuti durante gli anni di Berlusconi e, così, a preparare il terreno –cominciamo già ad avvicinarvici– ai successivi affondi contro di essa. Per portare i quali può servire, e come!, la mobilitazione reazionaria dei ceti medi. Ognuna a modo proprio, le due destre in cui si è scomposto il Polo, la destra di Casini e quella di Berlusconi, si stanno candidando a rappresentare sul piano istituzionale questo obiettivo prossimo della Confindustria. Casini con la richiesta di un governissimo pronto a “misure impopolari”. Berlusconi con le prime prove di organizzazione di piazza in senso anti-proletario della rabbia e della paura dei ceti medi. Nell’uno e nell’altro caso il bersaglio immediato è il condizionamento che i lavoratori hanno finora esercitato sul governo Prodi attraverso il sindacato, il bersaglio ultimo è la classe lavoratrice in quanto tale. La Confindustria ha finora trovato conveniente la convergenza con Cgil-Cisl-Uil per riuscire laddove Berlusconi aveva parzialmente fallito: mettere in riga i ceti medi e far introiettare ancor più profondamente tra i lavoratori, attraverso l’operato delle loro stesse organizzazioni sindacali e del “loro” governo, l’idea che per essi nella “crisi italiana” non c’è salvezza al di fuori della salvezza dell’Azienda Italia e delle aziende in cui lavorano. Adesso bisogna passare oltre. La crisi del capitalismo italiano è così grave che tra gli interessi delle diverse classi sociali non si può trovare un accordo. Dovrebbe far pensare la critica che Cofferati ha rivolto al governo: “Sono state alimentate delle aspettative [tra i lavoratori, i “deboli”] alle quali non poteva corrispondere la realtà” (Il Corriere della Sera, 11 dicembre). Anche delle caute promesse (e più caute di quelle di Prodi è difficile immaginarle) sono diventate insostenibili se si vuole proseguire, e lo si vuole, nel programma di rilancio della competitività del paese. I poteri forti capitalistici accetteranno che il governo Prodi rimanga in piedi così com’è, solo se i lavoratori accetteranno di mettere da parte le loro rivendicazioni e i loro bisogni, solo se rimarranno passivi e torneranno a chiudere la bocca dopo averla aperta nelle assemblee delle scorse settimane, solo se accetteranno che siano messi da parte persino gli slavati richiami ai loro bisogni contenuti (pur all’interno di una “filosofia” che, nell’applicazione, li nega) nel programma dell’Ulivo. Del resto, non sono forse già incominciati i conciliaboli tra l’Ulivo e Casini per “allargare” l’attuale maggioranza verso il centro confindustriale e magari espellerne la “sinistra estrema”? Ecco perché non è certo a Prodi che si può affidare la difesa degli interessi dei lavoratori, e tanto meno nella fase di intensificazione dello scontro che si sta aprendo: è solo alla mobilitazione e alla organizzazione proletaria. E qui si pone ai lavoratori più combattivi un altro nodo da sciogliere: il rapporto con le direzioni dei tre sindacati maggiori e con la loro politica. A Mirafiori diversi interventi operai l’hanno messa nel modo seguente: voi dovete ascoltarci, dovete ascoltare di più i nostri bisogni, le nostre necessità, avere presenti le nostre condizioni di lavoro, le nostre preoccupazioni, e rappresentarci e difenderci anche nei confronti del “governo amico”, da cui il sindacato deve essere autonomo. Ma il punto è che i vertici dei tre sindacati condividono nella sostanza gli indirizzi di azione del governo Prodi, anche se intendono condizionarli e forzarli “da sinistra” (per lo meno la Cgil). Non sono soltanto il professore e i suoi ministri, anche gli Epifani, Bonanni e Angeletti hanno in “testa” priorità come lo sviluppo della competitività dell’Italia e la tenuta del governo a cui gli interessi e le rivendicazioni degli operai e dei salariati dovrebbero in un modo o nell’altro subordinarsi. E’ questo che li rende “distratti” e “sordi” a quanto sentono e vogliono i lavoratori. E’ questo ordine di priorità che li porta a scodellare ai lavoratori la minestra già cucinata della finanziaria senza prima averli “consultati”, quasi fossero dei “sudditi” chiamati solo e soltanto a dire di sì. E, se non si volta pagina, accadrà la medesima cosa anche con il “piano di produttività”. Il difetto di metodo deriva da un difetto, se così possiamo dire, di contenuto. E’ come una catena che va dal mercato, quale forza sociale impersonale con le sue ferree leggi di funzionamento anti-operaie, a Confindustria, ai vertici dell’Unione, ai vertici dei sindacati. Una catena con anelli distinti ma tra loro collegati. I lavoratori non possono restare legati a questa catena perché li porta nell’abisso. Se ne debbono svincolare. Ecco perché se si vuole per davvero un sindacato che faccia coerentemente gli interessi dei lavoratori, non è a questi vertici sindacali che lo si può chiedere. E’ necessario che gli operai, i lavoratori stessi si facciano sindacato, siano il sindacato, il proprio sindacato, la propria organizzazione di difesa e di lotta. Una prassi assai risalente nel tempo ha educato i lavoratori a delegare, a puntare, anche se con l’ausilio della lotta di pressione, su “altri” soggetti, altri da sé, cui spetterebbe il compito di risolvere i loro problemi: lo stato, il parlamento, i governi “amici”, la magistratura, etc. Questa prassi (di cui i vertici sindacali sono tra i maggiori socializzatori) depotenzia e frena la forza dei lavoratori. Induce il proletariato a sottovalutare sé stesso e le proprie capacità di azione e di comprensione dei rapporti sociali. Costringe la classe lavoratrice, perno e centro della produzione sociale, a un ruolo politico affatto marginale. E la condanna di conseguenza a doversi accontentare sempre e comunque del “meno peggio”, fino a diventare –come è già successo con il nazifascismo- l’agnello sacrificale delle forme più estreme e violente della dittatura del capitale. Questo meccanismo perverso, il perverso meccanismo della politica borghese, che sta ora paralizzando l’iniziativa operaia, va spezzato. Bisogna rompere l’attuale stasi, decidersi finalmente ad agire “in prima persona”, senza più deleghe. Bisogna abbandonare il timore di aprire una fase di critica e di lotta contro il governo, a misura che esso si fa promotore di politiche che colpiscono la classe lavoratrice. Un primo passo da fare è promuovere assemblee nei luoghi di lavoro in cui discutere a fondo i provvedimenti governativi già varati e quelli in cantiere, criticandoli nel merito e soprattutto per la prospettiva generale che li lega tra loro. Bisogna prepararsi rapidamente a rispondere ad una riforma pensionistica già in cantiere che non promette assolutamente nulla di buono e respingere in tronco il cosiddetto “patto di competitività” che a breve si tenterà di propinare nei luoghi di lavoro. Le condizioni di lavoro sono già troppo pesanti e il problema per i lavoratori è quello di conquistare non più ma meno flessibilità, non di aumentare ma di ridurre le differenziazioni salariali e normative esistenti tra i lavoratori di imprese, settori e regioni diversi. I lavoratori debbono prendere per davvero nelle proprie mani la battaglia contro la precarietà e il lavoro nero, iniziando a dire con chiarezza che si tratta di diretti prodotti delle politiche di competitività, che quindi non possono essere aggrediti per davvero da un governo che fa del rilancio di competitività dell’azienda-Italia il suo punto cardinale di riferimento. Bisogna gettare le basi per ricomporre e riunificare nella lotta i vari settori del mondo del lavoro superando in avanti le divisioni generazionali, aziendali, territoriali e di sesso, le divisioni tra italiani ed immigrati, tra “fissi” e precari. Ci si deve muovere fin da subito in questa direzione, e per questo è necessario che, sia pur in piccolissimi nuclei, si inizi a ragionare sulla necessità di darsi un programma e un’organizzazione generale di classe.
Non si tratta di un “di più”, di un optional. Non è una canzonetta da nostalgici. Si tratta, invece, di una questione decisiva per il futuro della stessa nostra lotta di resistenza. La lotta sulle singole questioni (a cominciare da quelle appena nominate, ma ci sono, per fare un solo esempio, anche lotte anti-smobilitazione assai importanti in corso, come al petrolchimico di Marghera) è un fattore prezioso, indispensabile, irrinunciabile. Per dirla con Marx: “se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande”. Ma il fatto è che, essendo il lavoro e la vita dei salariati di oggi inseriti in un contesto economico e politico interamente mondializzato che li determina, ed essendo da gran tempo impossibile separare l’elemento economico da quello politico, ogni singola lotta parziale e immediata ci richiama dal suo stesso interno ad una prospettiva di azione, politica ed organizzativa, unitaria, generale. Il grande capitale, forza economica egemone oggi, fa politica. I ceti medi, benché spesso poco interessati ad essa, iniziano a scendere attivamente in politica. Anche la classe operaia deve farlo, come e meglio di “una volta”, se non vuol essere travolta. In qualche modo lo percepiscono anche non pochi lavoratori quando chiedono al sindacato di non schierarsi con nessuno dei due poli politici e quando fanno blocco attorno al sindacato perché vi vedono un’organizzazione meno integralmente permeabile, in quanto organizzazione dei lavoratori, alle “ragioni” della politica ufficiale. In questi atteggiamenti c’è l’oscura percezione che i problemi sul tappeto non sono legati semplicemente a scelte politiche di centro-destra o di centro-sinistra, che la “confusione” sociale che regna in queste settimane in Italia, in cui ognuno manifesta e grida per sé, abbia una ragione profonda, che essa non è superabile con un accordo che accontenti tutte le classi sociali. E che pertanto è opportuno che l’organizzazione sindacale dei lavoratori stia “a sé”, cioè: abbia una propria politica, una propria indipendenza politica. È così. Gli imperativi ossessivi della competitività e della produttività risultano così cogenti per tutte le imprese, per tutti i capitalismi “nazionali”, per tutti i governi perché il capitalismo mondiale preso nel suo insieme è da trent’anni dentro il labirinto di una crisi irrisolta. Nonostante lo sfondamento ad Est del dopo-1989; nonostante l’ossigeno finora ricevuto dallo sviluppo impetuoso dei giovani capitalismi asiatici, la Cina in testa; nonostante gli arretramenti a cui il proletariato dei paesi ricchi è stato costretto; il sistema del capitale fatica sempre più a produrre la massa di profitti di cui ha bisogno per rilanciare alla grande il suo processo di accumulazione globale. La proclamazione della “guerra infinita” a Washington e da Washington non è stata altro, in fondo, che la presa d’atto che per sbloccare la situazione di impasse a livello mondiale non sono più sufficienti i metodi “pacifici”, il WTO e le misure neo-liberiste. Per forzare i limiti sempre più irrigiditi dello sviluppo capitalistico servono vecchi-nuovi metodi di emergenza, serve una guerra aperta, senza limiti del capitale globale contro il lavoro mondiale. Sulle case dei lavoratori italiani non piovono ancora bombe all’uranio impoverito, d’accordo. Ma piovono da anni e anni, e non sono confetti nuziali, colpi ai fianchi, al volto, allo stomaco di cui si comincia ad accusare la pesantezza. La campana non suona solo per i “popoli paria”, suona anche per noi. La stessa consistenza della manovra finanziaria varata dal governo Prodi dimostra quanto sia acuta la crisi non semplicemente del capitalismo italiano, ma del sistema capitalistico nel suo insieme. Per parare efficacemente la gragnola di colpi in arrivo, per evitare di finire preda di disparate e disastrose prospettive (territorialiste, aziendaliste, nazionaliste…), per non precipitare nell’inferno che ci spalanca il capitalismo in crisi, dobbiamo dotarci di una globale linea di difesa di classe, di una globale alternativa di sistema. I rattoppi non funzionano. In questa situazione, abbiamo davvero bisogno di un sindacato indipendente da due “poli politici” che sostengono entrambi l’intangibilità del capitalismo e il vincolo, terribile per i lavoratori, di far dipendere la tutela della condizione proletaria dal buon andamento delle aziende. Ma per dotarci di un simile sindacato, bisogna che la crescita della partecipazione di massa alle lotte sindacali sia accompagnata e vivificata da una prospettiva generale capace di fondare su basi solide una simile indipendenza. Serve dunque un’organizzazione politica che organizzi il diretto protagonismo dei proletari, si fondi su di esso, e che alla concorrenza e alla competizione tra lavoratori contrapponga un programma e una strategia di cooperazione e di loro affratellamento internazionale. E davanti al progressivo e clamoroso fallimento di tutte le ricette borghesi per risolvere la crisi, di fronte al crescente caos che attanaglierà tutte le società, sappia alzarsi in piedi e dire: “noi abbiamo la soluzione giusta, la sola soluzione possibile al vostro disastro: una nuova organizzazione sociale in cui la produzione non sia più regolata e dettata dalle anti-sociali necessità del mercato e del profitto, ma da quelle dell’intera e liberamente associata, comunità umana lavoratrice”. Sogni? Se un Berlusconi può proclamare in piazza la necessità di un proprio, vero partito capace di realizzare i propri rancidi sogni reazionari di “libertà” (libertà di sfruttare chi lavora, s’intende), perché i lavoratori più combattivi e coscienti, che di un proprio organo sono purtroppo privi, non dovrebbero mettere all’ordine del giorno i primi passi necessari per arrivare ad un proprio partito? 11 dicembre 2006 |
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Organizzazione Comunista Internazionalista |
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