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Come impostare un’efficace battaglia sindacale per lo sviluppo di un movimento di lotta di massa contro la finanziaria e la politica del governo Prodi?
Non c’è alcun dubbio che, se si considerano nel loro insieme i provvidementi varati o progettati dal governo, essi possano portare ad un’ulteriore erosione dei salari. Le critiche della Confindustria, le manifestazioni dei “professionisti”, le minacce dei partiti di destra, la speranza (vana) di evitare guai peggiori non devono assolutamente far chiudere gli occhi davanti a questa nuova tornata di sacrifici, non devono far accettare la decisione dei vertici di Cgil-Cisl-Uil di non disturbare il manovratore. È quanto mai necessario, invece, che i lavoratori più combattivi, siano essi nei Cobas, nella Cgil o privi di un riferimento sindacale, discutano cosa fare per favorire lo sviluppo di un movimento di lotta contro la finanziaria e la politica del governo Prodi. Un movimento di lotta che, se vorrà essere efficace, dovrà arrivare a coinvolgere la massa dei lavoratori. Sotto questo punto di vista, occorre dirsi chiaramente che si prende in mano una lancia spuntata se ci si limita a denunciare davanti ai lavoratori solo e soltanto l’entità del nuovo arretramento salariale che si dovrà sostenere. È una lancia spuntata sia perché il governo sta accompagnando la richiesta di tali sacrifici con un “ragionamento” prettamente politico e sia perché questo “ragionamento” sta, purtroppo, trovando consenso tra la stragrande maggioranza dei lavoratori.
Qual è questo “ragionamento”?
Prodi e i dirigenti del centro-sinistra non negano che ai lavoratori sono richiesti nuovi sacrifici. Fanno, però, notare che, a differenza di quanto aveva fatto il governo Berlusconi, questa volta i sacrifici saranno equamente (?!) distribuiti tra tutti gli strati sociali, che saranno chiamati a pagare chi non ha mai pagato e che, inoltre, questa volta, i sacrifici collettivi saranno ben utilizzati per rilanciare la competitività delle aziende italiane nell’interesse di tutte le classi e soprattutto delle nuove generazioni proletarie, che in questo modo potranno essere sottratte al ricatto della precarietà o della disoccupazione. È suicida nascondersi che in questo momento politico, anche a causa delle condizioni di ricatto indotte da una concorrenza internazionale spasmodica e dell’allineamento delle organizzazioni della sinistra parlamentare –più o meno “radicali”– agli interessi superiori dell’Azienda Italia e dei mercati, la grande maggioranza dei lavoratori è disposta, nel timore di evitare guai peggiori, ad accettare la polpetta avvelenata proposta dal governo. Lo possiamo verificare ogni giorno discutendo con i nostri compagni di lavoro: è diffusa l’illusione, micidiale, che il rilancio economico e internazionale dell’Italia (nell’ambito del rilancio dell’Europa anche in concorrenza con gli Stati Uniti) possa realisticamente permettere alla classe operaia di non essere travolta dal maremoto che agita la concorrenza mondializzata. Da ciò cosa ne consegue? Che contro la politica del governo Prodi non c’è nulla da fare? Che, al più, si può tentare di mettere in campo un’opposizione minoritaria con l’obiettivo nobile ma impotente di salvare l’anima dei lavoratori indisponibili a chinare la testa agli interessi del padronato e ai piani di austerità imposti dai centri finanziari nazionali e internazionali?
Assolutamente no!
Richiamiamo l’attenzione dei compagni e dei lavoratori presenti all’assemblea di oggi sui sentimenti reali nutriti della gran parte dei lavoratori (sentimenti connessi a loro volta con le condizioni interne e internazionali dello scontro politico) solo perché ciò è essenziale per stabilire un’efficace impostazione dell’intervento sindacale e politico verso i lavoratori al fine di favorirne il distacco dalla logica compatibilista al momento egemone. Il punto centrale da denunciare è la totale infondatezza della tesi secondo cui il rilancio della competitività delle aziende e dell’Italia possa essere realizzato nell’interesse di tutte le classi sociali, anche dei proletari. Questa tesi è completamente falsa. Lo dimostra quello che è accaduto negli ultimi trent’anni. Lo dimostra quello che sta succedendo in questi mesi. Lo dimostrerà la tragedia a cui andremo incontro, come classe proletaria, se non sapremo respingere dalle nostre fila l’illusione di poter difendere le condizioni d’esistenza della classe lavoratrice insieme e in subordine alla salute delle aziende.
La rincorsa della competitività con le aziende degli altri paesiimmette i lavoratori in una spirale al ribasso senza fine.
Se questa spirale non comporta –per il momento– un drastico taglio al salario diretto e indiretto, essa sta producendo sin da oggi un aumento forsennato dei ritmi e dei carichi di lavoro, il ricorso continuo allo straordinario, l’aumento degli incidenti e dei morti sul lavoro, l’imbarbarimento progressivo della vita dei lavoratori al di fuori dei posti di lavoro. Colonizzati dallo sfruttamento in fabbrica e in molti uffici, i lavoratori hanno sempre meno tempo ed energie per coltivare sani rapporti affettivi e sociali: bisogna correre, correre e sgomitare per fronteggiare la solitudine, l’insicurezza, le mille difficoltà e l’ansia che regala una società fondata sulla competitività. Si può chiamare un’esistenza simile una vita da esseri umani? Per non parlare di cosa comporti la legge della crescente competitività per i lavoratori immigrati: le condizioni dei lavoratori immigrati nelle aziende agricole della Puglia denunciate dal giornalista Gatti e la scomparsa di 119 lavoratori polacchi (senza che il movimento sindacale vivesse alcun sussulto!) non sono il frutto dell’arretratezza del mezzogiorno italiano ma della struttura internazionale dell’agro-business, della concorrenza che esiste tra i vari paesi in questo campo, del dominio delle banche e delle multinazionali sugli anelli sottostanti della catena dello sfruttamento, fatti da padroni, padroncini e caporali. È quello che, lo scorso anno, emerse anche grazie alla lotta dei lavoratori dell’Ortomercato, all’altro capo della catena agro-industriale. Ma questo differenziato trattamento è ancora “niente” rispetto a quello che comporterà l’accettazione della subordinazione della difesa delle condizioni proletarie al buon andamento dell’economia capitalistica. La Confindustria non sta, forse, affermando che la competitività delle aziende italiane ha bisogno di ulteriore flessibilità nella gestione degli orari e dell’aggancio di una quota crescente del salario all’andamento dei conti aziendali? I sacrifici richiesti dal governo richiamano, quindi, come le ciliegie, queste richieste padronale… E questa corsa sarà senza fine perché da parte loro le imprese tedesche, statunitensi, francesi non stanno rimanendo con le mani in mano. La stessa musica viene, ad esempio, suonata alle orecchie dei lavoratori tedeschi, davanti ai quali anche le grandi imprese “socialmente attente” come la Siemens e la Volkswagen stanno imponendo il ricatto secco: o l’allungamento dell’orario di lavoro a parità di salario oppure la delocalizzazione verso l’Est europeo o il lontano Oriente…
È questa concorrenza al ribasso tra lavoratori di regioni, paesi e continenti diversi che va interrotta e invertita con un movimento di lotta che cerchi di parificare al rialzo le condizioni di esistenza dei lavoratori!
Spinte in tal senso vengono proprio dalle aree in cui sono avvenute le delocalizzazioni: la Slovacchia, la Russia, la Cina. Altro che schiavi contenti di essere schiavi! Proprio dai lavoratori di questi paesi, negli ultimi anni, sono partite alcune lotte per conquistare aumenti salari e il diritto di organizzazione sindacale in fabbrica. Con tali iniziative essi hanno “dichiarato” alle multinazionali e ai lavoratori occidentali che non sono disposti a prestarsi al gioco al massacro come è avvenuto negli anni precedenti. Queste iniziative di mobilitazione indicano la strada su cui incamminarsi anche per i lavoratori d’Italia e d’Occidente. Va nello stesso senso anche la resistenza delle masse lavoratrici in Iraq, in Afghanistan, in Palestina e in Libano contro l’ordine oppressivo dell’euro-dollaro che le potenze capitalistiche d’Occidente cercano di imporre con l’ “unilateralismo” Usa o con il “multilateralismo” europeista caro a D’Alema. Uno degli obiettivi di queste politiche è proprio quello di mettere a disposizione del capitale italiano, europeo e occidentale, una riserva di manodopera ultra-ricattata da usare nei paesi d’origine o in Europa contro gli stessi lavoratori europei. Respingere la polpetta avvelenata lanciata dal governo Prodi con la finanziaria richiede, quindi, che ci si faccia anche carico della denuncia e della lotta della condizione di supersfruttamento a cui sono condannati i lavoratori immigrati e dell’aggressione portata avanti dalle potenze occidentali ai popoli e agli sfruttati del Medioriente. Richiede che si sostenga la resistenza delle masse lavoratrici del mondo arabo-islamico e i tentativi di auto-organizzazione dei lavoratori immigrati in Italia. È evidente che il cammino su questa strada di ricomposizione internazionale e internazionalista della classe lavoratrice è irto di difficoltà. Ma non ci sono alternative alla rete del darwinismo sociale nella quale i capitalisti e il loro governo stanno cercando di avviluppare i lavoratori, una spirale che potrebbe portare in Italia, vista la fragilità del capitalismo nazionale e la possibilità di una disintegrazione del paese, ad una contrapposizione territoriale simile a quella che hanno subìto i lavoratori della “ex”-Jugoslavia. Senza contare che lo sbocco finale della concorrenza mondializzata a cui i padroni e il governo italiano stanno chiamando i lavoratori ha come sbocco obbligato un nuovo mondializzato macello al servizio degli interessi imperialisti. Basterebbe leggere in proposito la lettera che il ministro degli esteri D’Alema, massacratori dei popoli e dei lavoratori jugoslavi, ha inviato ieri (venerdì 27 ottobre) al quotidiano La Repubblica. Essa fa capire quanto l’aggancio della difesa delle condizioni proletarie al rilancio della competitività delle imprese, dell’Italia e dell’Europa richiederà, ad un certo punto, la partecipazione a dirette operazioni militari. L’invio della missione in Libano è solo l’antipasto di questo corso di più aggressiva partecipazione dell’Italia e dell’Europa alle politiche per lo schiacciamento della forza lavoro nel Sud e nell’Est del mondo e, di rimando, in Italia e in Europa. Quali primi passi è possibile compiere su questa strada?
In un momento in cui il governo e il padronato cercano di immobilizzare i lavoratori nella passività, in un momento in cui Cgil-Cisl-Uil vanno incontro a questo piano, è importante che si promuovano nei luoghi di lavoro assemblee in cui discutere a fondo i vari provvedimenti governativi, criticandoli nel merito ma soprattutto nella prospettiva politica di fondo che li sottende. Va denunciata la pericolosità dell’alleanza con il grande capitale che il governo propone ai lavoratori ai danni dei ceti medi: questa alleanza, come già accaduto in parte negli anni novanta e come accaduto nei “lontani” anni venti del XX secolo, rischia di mettere a disposizione del grande padronato una massa di ceti medi inviperiti da scagliare, in futuro, contro il proletariato per imporgli le catene, materiali e politiche, che la spirale della concorrenza internazionale richiederà. Lo sviluppo di un movimento di lotta dei proletari contro il governo Prodi e i diktat del grande capitale (italiano e internazionale), il dispiegamento di un movimento di lotta incardinato nella difesa intransigente degli interessi proletari è l’unica via per neutralizzare la “tentazione” dei ceti medi di rifarsi sulla classe proletaria della stretta operata dai grandi poteri capitalistici anche su di loro e per far schierare a fianco del proletariato i settori produttivi non sfruttatori degli stessi ceti medi. L’iniziativa indetta per il 4 novembre a Roma contro la precarietà, la manifestazione per i diritti degli immigrati di cui discute per il 16 dicembre e le altre iniziative di lotta previste per il mese di novembre offrono dei primi momenti di mobilitazione in vista dei quali e nei quali far valere queste esigenze verso un’area più larga di lavoratori, in vista dei quali e nei quali denunciare che il governo Prodi non è un governo amico e neanche insufficientemente amico dei lavoratori ma un organico nemico dei lavoratori portavoce degli interessi del grande capitale italiano e internazionale. Nello stesso tempo è necessario che, sia pur in piccolissimi nuclei di lavoratori, si inizi a ragionare sulla necessità di darsi un programma ed un’organizzazione politica autonoma della classe proletaria. Non si tratta di un “di più”, di un optional. La lotta sulle singole questioni è indispensabile ed irrinunciabile, ma vista la radice dei problemi e delle difficoltà che si oppongono allo sviluppo di un movimento di lotta dei lavoratori è necessario che queste singole lotte e mobilitazioni si raccordino e facciano leva su una prospettiva politica anti-capitalistica. Il non aver preso di petto questa questione, ad esempio, è stato uno dei fattori che ha favorito il veloce disfacimento del movimento contro l’aggressione imperialista all’Iraq e al mondo islamico… proprio mentre le guerre e le mssioni neo-coloniali sono sempre più all’ordine del giorno. Una nostra fissazione? No. È l’esplosività delle contraddizioni generate dal capitalismo mondiale a imporre la questione. Per affrontare e risolvere i giganteschi problemi dell’oggi o il mondo del lavoro saprà iniziare a darsi un proprio programma di classe alternativo ed antagonista al sistema capitalistico, o finirà preda di altre, disparate, ma tutte per lui disastrose prospettive (territorialiste, aziendaliste, nazionaliste…). Per questo serve un’organizzazione politica che faccia leva e promuova il diretto protagonismo dei proletari, un partito che alla concorrenza e competizione tra lavoratori contrapponga un programma di affratellamento internazionale in una unitaria lotta per affermare, contro il capitalismo, le esigenze di difesa dei lavoratori e, in prospettiva, una società in cui la produzione non sia regolata e dettata dalle necessità del mercato e del profitto, ma da quelle dell’intera e liberamente associata comunità umana lavoratrice. 27 ottobre 2006
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Organizzazione Comunista Internazionalista |
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