Dal manifesto 29 marzo 2006
Usa, Chicago in
piazza contro la guerra e la precarietà.
Lo storico Joe Berry: «La paura è
il sentimento dominante»
SERGIO FINARDI
CHICAGO
Nelle ultime due
settimane, due forti manifestazioni hanno attraversato il centro di
Chicago, occupando per un po' il cuore di una città storicamente nota per
la sua lunga tradizione di sindacalismo militante.
Il Primo Maggio è nato qui, centinaia dei più noti e
capaci dirigenti del movimento operaio statunitense sono nati e hanno
lottato qui. Venerdì 10 marzo, più di 150.000 persone (stime della polizia)
hanno marciato contro la proposta di legge anti-immigranti (una specie di
copia del tipo di legislazione che ha reso possibile Guantanamo)
introdotta al Congresso dal presidente del comitato della Camera per gli
affari giuridici, James Sensenbrenner. Sabato 18, in occasione del terzo
anniversario dell'invasione e occupazione dell'Iraq, almeno 15.000 persone
(seconde le nostre stime più prudenti, 7.000 secondo la polizia) hanno
ancora una volta fortemente «animato» la città, in quella che è stata
probabilmente la più grande tra le manifestazioni tenute per il 18 marzo
negli Stati Uniti.
Alla manifestazione, abbiamo incontrato Joe Berry,
uno storico del movimento operaio che insegna alla sede chicagoana
dell'Istituto sulle relazioni sindacali e industriali dell'Università
dell'Illinois (Urbana-Champaign). Berry non è soltanto un apprezzato
storico, ma da 35 anni un noto militante sindacale.
Joe, Chicago sta ancora una volta dando una scossa
al paese? Qual è la tua valutazione della situazione che ha portato a
queste due manifestazioni?
Probabilmente la manifestazione contro la legge anti-immigranti
è stata una delle più grandi nella storia di Chicago e ricorda quelle del
1886 per le otto ore guidate da Lucy e Albert Parsons, da cui nacque il
Primo Maggio. Anche quelle manifestazioni erano formate da lavoratori
recentemente immigrati, venuti a Chicago a cercare un lavoro migliore e
certo non per il buon governo di questa città o per il suo clima. Bè, è un
po' presto, credo, per dire che stiamo assistendo a qualcosa che potrebbe
portare a un movimento sulla scala di quelli di quegli anni 80 del XIX
secolo. Non credo sia impossibile, tuttavia, dato che alcune delle ragioni
che mossero quei lavoratori sono di nuovo di attualità, inclusi
l'insicurezza e il forte sfruttamento cui i lavoratori immigrati sono
sottoposti, la diffusa convinzione che stiano sparendo le condizioni e i
salari medi a favore di una separazione sempre più grande tra poveri e
ricchi. Questi fattori sono comuni ai due periodi. Quello che ora è
differente è che gli Stati uniti sono divenuti una potenza imperiale e che
l'esercizio di questa potenza imperiale, in particolare per la guerra in
Iraq, non è stato attivamente contrastato che da una minoranza, quella che
abbiamo visto alla manifestazione del 18, mentre la maggioranza, anche a
Chicago, è rimasta passiva. Un'altra differenza tra l'oggi e l'era di
Haymarket Square è che ora più della metà della classe operaia di Chicago
è, nei termini che si usano negli Stati Uniti, «non-bianca». Gli operai di
Chicago sono per buona parte sia african americans e latinos (d'origine
africana o centro/sud americana), sia asiatici o figli di immigrati
asiatici. La parte «bianca» è poi formata anche da immigrati recenti
dall'Europa. In questo senso, le manifestazioni hanno un carattere
internazionale - direi meglio «globale» - che non si può ritrovare a tale
livello anche nella pur presente solidarietà operaia di quell'altro secolo.
Entrambe le manifestazioni rivelano che anche nel cuore interno degli
Stati uniti noi siamo connessi con ciò che succede oltre i nostri confini
e la questione per molti di noi ora non è «come possiamo fermare o
invertire questo processo», ma piuttosto «chi controllerà questi legami e
cosa farà il movimento per influenzarli e per determinarne il carattere»?
Tu hai recentemente pubblicato "Reclaiming the
Ivory Tower ", un libro in cui, tra molte altre cose, descrivi i mille
modi con cui i manager delle università cercano di contrastare i tentativi
di organizzazione sindacale, impedire un reale esercizio della liberta di
parola e di insegnamento e, ancora più che in passato, trasformare le
istituzioni accademiche in aziende in cui i lavoratori precari
costituiscano il grosso degli addetti al loro "business". Ritieni che
questo trend abbia influenzato il modo in cui la gente ha risposto alle
politiche criminali di questa amministrazione o abbia frenato la crescita
nelle universtià statunitensi di un movimento contro la guerra più forte?
La precarizzazione del lavoro, sia nelle università
che in generale nell'economia, aggiunta a una situazione che sugli
standard europei era già di insicurezza dell'impiego, è uno dei maggiori
fattori nel trend che sta ridisegnado la vita della maggioranza della
classe operaia negli Stati uniti. L'esempio dei docenti dei college è
meramente uno dei più estremi e crescenti casi legati a questo trend che è
andato formandosi negli ultimi trent'anni, trasformando i docenti delle
università in lavoratori intellettuali precari. L'effetto specifico di
questa precarizzazione sull'atteggiamento della gente nei confronti di
questa amministrazione è ancora poco chiaro. Da una parte la paura -
economica, politica, sociale - è oggi sicuramente il sentimento dominante
tra molti statunitensi. L'amministrazione gioca su questo per promuovere
le sue politiche e scoraggiare la gente dall'organizzarsi
indipendentemente. Dall'altra parte, la discesa verso bassi salari e il
peggioramento della qualità della vita ha il potenziale di aprire a
prospettive più critiche e anche a idee radicali, ad un livello ormai non
più presente sin dagli anni 60 o forse dagli anni 30. Per la maggior parte,
questa forza potenziale non è ancora arrivata a esprimersi in una critica
generalizzata e con una base di massa. Questo sia per il fatto che la
leadership del movimento sindacale - indebolito ma pur sempre una grande
forza - non ha connesso i vari pezzi di questa forza e assunto una visione
militante, sia per l'assenza di una leadership di sinistra con la forza e
la capacità di influenzare gli eventi su scala di massa e nazionale.
Comunque, proprio come accadde durante la Grande crisi del 1929, la
situazione può cambiare rapidamente. La crescita del movimento sindacale
nei campus delle università, tra i lavoratori laureati, i docenti precari,
e altri lavoratori universitari, mostra che c'è un potenziale per la
vittoria della speranza e del coraggio sulla paura e sul fatalismo.