La morsa dell’Occidente si sta stringendo sull’Iran

 

L’Iran è di nuovo nel mirino di Israele, degli Stati Uniti, delle destre e delle sinistre europee. Dall’insurrezione popolare del febbraio 1979 non ha mai cessato di esserlo. Soltanto che in questo quarto di secolo vi è stato un alternarsi di periodi di acuta tensione e di relativa bonaccia, a seconda che le cancellerie occidentali ritenessero necessario far ricorso ai mezzi violenti e intimidatori (quali la guerra per procura o i raid missilistici) oppure preferissero affidarsi alla pressione economica e diplomatica per ottenere un cambiamento di politica in senso pro-imperialista a Teheran. Negli ultimi tempi la lancetta si è spostata bruscamente verso la burrasca. Stiamo andando verso nuovi attacchi bellici all’Iran, alle masse sfruttate dell’Iran, che chiamano in causa qui da noi il proletariato e il “movimento no war”.

 

Cosa c’è alla base dell’attuale campagna anti-iraniana? la frase propagandistica di Ahmadinejad sull’auspicabile scomparsa dello stato di Israele? la ripresa del programma nucleare da parte di Teheran? Vi sono, crediamo, dei fattori non contingenti che conferiscono un peso particolare a questi due fatti recenti: l’enorme importanza strategica dell’Iran per l’imperialismo occidentale e la situazione potenzialmente esplosiva di tutto il Medio Oriente.

L’importanza strategica dell’Iran è legata ovviamente alle sue tuttora immense riserve di petrolio e di gas, che agli attuali livelli estrattivi dovrebbero durare per più di 50 anni (quelle statunitensi sono ridotte a 10 anni…), oggetto bramato dagli appetiti occidentali di ieri e di oggi. Ma è legata anche, il che è assai meno ovvio, alla vicenda socio-politica che ha segnato questo paese e gli ha conferito, specie nell’ultimo quarto di secolo, un peso tutto particolare nella politica internazionale.

Prima del suo crollo, il regime dello Scià Reza Palhevi era stato per 35 anni un ottimo alleato degli Stati Uniti e di Israele (implicati insieme, sia detto en passant, nell’attività della SAVAK, definita da Amnesty International la polizia segreta più spietata al mondo), il perno fondamentale prima del Patto di Baghdad, poi della CENTO, chiamati a fungere da muro di protezione della dominazione imperialista in Medio Oriente nei confronti della rivoluzione nazionale araba.[1] Una volta crollato questo muro sotto le onde d’urto della sollevazione irachena del 1958 e dell’insurrezione iraniana del 1979, per Washington&C. l’Iran “islamico” è divenuto, come se non più dell’Iraq baathista, un “pericoloso focolaio di infezione” rivoluzionaria (da tenere sotto vigile monitoraggio). Non per l’ideologia e la politica del khomeinismo difficilmente equivocabili per tali, ma per la scesa in campo di milioni di sfruttati, che un autentico cambiamento rivoluzionario ha, in qualche modo, preconizzato, e per la risonanza che essa ebbe nell’intero mondo islamico.

 

“Il fascino maledetto della rivoluzione”

 

Le rivoluzioni sono le locomotive della storia (Lenin), e hanno perciò effetti permanenti difficili da rimuovere. L’insurrezione iraniana non fu una rivoluzione sociale poiché non avviò l’abolizione dei rapporti sociali capitalistici che in Iran sono perfettamente vigenti anche dopo i 25 anni di governo borghese “islamico”. E nondimeno quegli eventi hanno scosso la società iraniana fino a profondità prima sconosciute causando la crescita esponenziale delle aspettative e dell’attività delle masse sfruttate dell’intero mondo islamico, che ad onta della guerra fratricida tra Iran e Iraq, delle guerre dell’imperialismo, della repressione brutale e delle delusioni provocate dal regime degli ayatollah, non è stata ancora totalmente riassorbita.

Se ne è avuta una prova anche nelle elezioni presidenziali di giugno vinte da Ahmadinejad. Come spiegarsi, ci si è chiesti basìti, la vittoria di una simile “nullità” e la sconfitta del potente, e per “noi” occidentali preferibile, Rafsanjani? cosa diavolo succede in Iran?

Con così tanti esperti di società islamiche rimasti regolarmente spiazzati, è bastata la mini-inchiesta di V. Vannuccini (“la Repubblica”, 25 giugno) per appurare che l’elezione di Ahmadinejad è dovuta al suo essersi presentato come l’uomo che farà arrivare i proventi del petrolio “nelle tasche di tutti”, mantenendo così le promesse della “rivoluzione”. La giornalista ha avuto modo di toccare con mano, poi, un diffuso risentimento per la polarizzazione sociale in atto tra classi proprietarie e benestanti arricchite e popolazione lavoratrice salariata, artigiani, piccoli commercianti, etc. rimasti poveri o impoveriti. Un intimorito borghese le ha addirittura confessato di “aver visto crescere in questi giorni tra gli operai [ohibò, laggiù esistono anche operai, non solo ayatollah e donne velate] un odio di classe [hai detto: classe?] che fino a poco tempo fa non c’era o non veniva espresso”.

E in effetti la campagna elettorale del nuovo presidente dell’Iran è stata centrata sulla critica delle crescenti disuguaglianze sociali, sulla lotta alla corruzione e alle mafie, la “mafia petrolifera” per prima (non a caso il movimento politico di Ahmadinejad ha nome Abadgaran, ossia i bonificatori), sulla messa sotto controllo, se non sulla chiusura, di banche private e Borsa. Egli si è presentato altresì come l’alfiere di uno stato iraniano “progressista e potente”, in contrapposizione a quanti sono inclini in Iran (e ce n’è) a svendere gli interessi del paese. Si è detto: “nella sua vittoria c’è più Chavez che Khomeini. Al di là dell’obbligato riferimento, più che al khomeinismo in quanto tale, alle promesse sociali iniziali fatte da Khomeini, e poi tradite[2], è un commento adeguato, tanto più perché, a fronteggiarlo, Ahmadinejad ha trovato Rafsanjani, il capo indiscusso, cioè, della “mafia petrolifera” nonché padrino della “perestrojka islamica” fatta di successive, benché caute, aperture alle politiche neo-liberiste, che secondo le sue stesse parole ha deciso di ri-candidarsi per “svolgere un ruolo storico: fermare l’estremismo”.

La elezione di Ahmadinejad ha generato forti mal di testa nelle capitali occidentali, in Israele e nelle monarchie petrolifere dell’area. Non si teme che costui possa trasformarsi in un campione coerente degli sfruttati; si teme che il suo populismo possa, al di là delle sue intenzioni, infiammare gli animi delle masse oppresse dell’Iran con effetti esplosivi al di là dell’Iran. Sebbene la situazione iraniana sia, al momento, meno tesa che nel 1978-1979, il contesto regionale è invece più incandescente di allora, con la fiera resistenza degli iracheni all’occupazione, con un’Arabia saudita molto più instabile, con le braci che covano sotto le ceneri in Libano e Palestina, con un’Israele in cui comincia a entrare in crisi la coesione sociale. Giuliano Ferrara dixit, e bene: “Il pericolo annidato nelle parole di Mahmoud Ahmadinejad non è legato soltanto ai motivi più ovvii, e tra questi un odio antisionista che ha per sé il programma di arricchimento dell’uranio [e del resto, come si potrebbe temerlo realmente da parte di uno stato che dispone di centinaia di atomiche e ha dietro di sé Usa ed Europa?]. Il pericolo viene dal fatto che quell’odio penetra la cosiddetta piazza islamica, cammina sulle gambe di masse irreggimentate dai pasdaran e dagli hezbollah, ha una particolare forza diffusiva”, “emoziona e mobilita le masse” (Il Foglio, 2 novembre). Attaccando Israele in quanto “linea del fronte su cui si combatte una secolare guerra per sottrarre l’islam a un destino di umiliazione” a cui l’Occidente vorrebbe relegarlo, si rilancia la prospettiva di un “risveglio islamico mondiale” in grado di marciare contro l’Occidente sulle gambe dei giovani shahid. Ferrara si spinge a dire che tale prospettiva “è peggio di al Qaeda”, non perché abbia degli obiettivi finali differenti, bensì perché, invece di esaurirsi nell’attività di “una rete” in qualche modo elitaria, si poggia sulle masse in movimento”. Il vero problema, ed il vero bersaglio, al di là di Ahmadinejad e della sua repubblica islamica, sono queste ultime. Altro che chador, donne da emancipare, diritti universali, libertà civili eguali, e balle spaziali del genere! Non si tratta neppure del programma nucleare in sé. Il vero problema con cui vanno fatti i conti, la vera radice da recidere per quanti stanno preparando un’aggressione bellica all’Iran è, citiamo ancora, “il fascino maledetto della rivoluzione” (tra gli sfruttati).

 

Le contorsioni di Teheran

 

Non c’è nulla da aggiungere alle parole di Ferrara. Salvo che né la ripresa della rivoluzione “anti-imperialista”, né, tanto meno, la sua trascrescenza nella rivoluzione sociale internazionale, per la quale noi comunisti lavoriamo e tifiamo con ogni nostra energia, potranno mai avvenire per mano delle élites dirigenti “islamiche” o, più in generale, per mano di élites nazionaliste borghesi. I nostri nemici lo sanno a sufficienza. E allora perché hanno scatenato tutta questa bagarre contro i nuovi governanti di Teheran?

L’ha spiegato l’ex-ambasciatore Salleo (“la Repubblica”, 4 luglio): il “populismo retrogrado [e fin qui potrebbe stargli molto bene], nazionalista e assertivo [è questo che non va]” di Ahmadinejad, essendo incapace di attuare all’interno dell’Iran riforme sociali in grado di soddisfare le attese di benessere delle masse - il che è verissimo, anche il presunto protettore dei mostazafin Khomeini si guardò bene dal colpire la classe borghese -, è condannato “a riversare lo scontento e via via la delusione sul nemico esterno, sullo sfruttamento attribuito alla globalizzazione”, sull’imperialismo occidentale. E poiché la “comunità internazionale” (dei paesi sfruttatori) reagirà confinando Teheran “nell’inevitabile isolamento dei paria”, l’Iran, come il Venezuela, finirà per cercare alleati “negli attori non statuali che sono oggi la principale turbativa sulla scena mondiale, che agitano cause diverse e tutte revisioniste [che postulano, cioè, una “revisione” degli attuali rapporti di forza tra imperialismo e paesi dominati dall’imperialismo], i vari movimenti fondamentalisti e terroristi, etc.”, e cioè, ci risiamo, le “masse in movimento” di cui sopra.

Il grande timore degli Stati Uniti e dell’Europa, in questo strettamente uniti, è che il “populismo nazionalista e assertivo” dell’Iran possa costituire l’innesco di un incontrollabile processo a catena capace di destabilizzare l’attuale ordine internazionale. Anche a causa dei mezzi a disposizione di Teheran. L’Iran di oggi, infatti, non è più un paese alla bancarotta, è un paese in ripresa, che ha alle sue spalle diversi anni di crescita economica, un forte sviluppo dell’industria manifatturiera e dell’edilizia (il loro fatturato è raddoppiato in 4 anni), della istruzione superiore e della ricerca (è stato appena lanciato nello spazio il primo satellite iraniano), e che è stato in grado di attrarre investimenti esteri (soprattutto tedeschi e francesi). E, oltre a ciò, è forte di un insieme di relazioni commerciali e strategiche con la Russia (che sostiene il suo programma nucleare) e con la Cina (cui necessitano ingenti forniture petrolifere e sponde per il confronto con gli Stati Uniti). L’esistenza di pesanti contraddizioni sociali interne, alti tassi di disoccupazione e inflazione, insufficienza dei salari, etc., potrebbe, appunto, spingere i governanti iraniani a rischio di contestazione da parte dei lavoratori e dei diseredati, una contestazione che si è ciclicamente riaccesa negli ultimi dieci anni, a giocare la carta di un redivivo “anti-imperialismo” militante.

Succederà davvero?

La sortita di Ahmadinejad sulla “cancellazione” dello stato di Israele dalle future carte geografiche parrebbe accreditare una simile ipotesi. Ma ciò che è successo in Iran dopo di essa con le successive nette prese di distanze di Khatami, Rafsanjani e dello stesso Khamenei, con la solenne dichiarazione di quest’ultimo “L’Iran non aggredisce altre nazioni”, con il boicottaggio del parlamento nei confronti della formazione del nuovo governo “estremista”, dà la misura della grande prudenza[3] con cui i vertici della repubblica islamica intendono maneggiare una simile arma, anche per loro molto pericolosa. Del resto, il discorso di Ahmadinejad che tanto scalpore ha suscitato, si guardava bene dal fornire alla sua presa di posizione anti-sionista la minima concretizzazione di essa in termini di cammino di lotta da percorrere. E quando, sempre per bocca di Khamenei, è arrivata la interpretazione autentica della faccenda, non si è andati al di là della via “costituzionale” di un referendum “attraverso cui tutti i popoli originari della Palestina, musulmani, cristiani ed ebrei” dovrebbero decidere quale governo darsi; una proposta destinata, tra l’altro, a restare platonica in quanto non verrà sostenuta attivamente in nessuna sede internazionale.

Da un lato il conflitto con l’imperialismo ha un fondamento oggettivo ineliminabile, che anzi andrà, con gli anni, ad acuirsi (la guerra per accaparrarsi petrolio e gas residui è appena agli inizi della sua fase più acuta). Dall’altro i vertici del regime islamico sono incapaci e indisponibili a svolgere una coerente azione di lotta all’imperialismo, foss’anche solo nell’area medio-orientale (ammesso, e non concesso, che possa darsi un autentico anti-imperialismo confinato ad una sola zona del globo). Basti vedere il loro atteggiamento verso l’occupazione statunitense dell’Iraq. Dichiaratisi all’inizio neutrali (neutrali dinanzi ad una palese guerra imperialista!), nei fatti non lo sono stati: i loro più stretti sodali iracheni, lo Sciri e la Badr Brigade, hanno pienamente collaborato con l’ex-“grande Satana” statunitense in un’azione, per dirla tutta, criminale volta a spaccare e contrapporre per linee settarie le masse “islamiche” dell’Iraq e dell’area. E che dire poi della collaborazione data agli stessi Stati Uniti dopo l’11 settembre contro al Qaeda e i talebani? o delle reiterate aperture, anche sulla questione del nucleare, all’Onu (proprio quell’Onu che ha contribuito a strangolare e schiacciare gli iracheni e i palestinesi, e non poco ha fatto contro il medesimo Iran)? e del credito accordato ai rappresentanti dell’Unione europea, concorrenti degli Stati Uniti e perciò da considerare alla stregua di potenziali amici, salvo esserne costantemente ricattati e, alla buona occasione, pugnalati?

 

Comunque, sarà guerra.

 

Ecco perché a noi appare finanche eccessivo il parallelo tra il nuovo presidente iraniano e Chavez. Nondimeno, anche un “anti-imperialismo” così claudicante e ambiguo quale è stato ed è quello di Teheran risulta, per ciò che si è visto, intollerabile per le cancellerie e le multinazionali occidentali, e per il progetto sionista –che non è del solo Sharon- di espandere l’area di influenza diretta dello stato di Israele fino all’Asia centrale entrando in prima persona nella lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche e idriche di una vastissima area.

Da almeno un paio d’anni (quando ancora era presidente Khatami) ci si domanda pubblicamente in Occidente quale soluzione dare al caso-Iran, come combinare al meglio le opzioni (le aggressioni) economiche, diplomatiche e militari. Negli ultimi tempi le posizioni di Washington e delle capitali europee si sono avvicinate tra loro e avvicinate alle tesi di Israele, che ritengono indispensabile, quanto meno, un intervento militare del tipo Osirek (bombardamenti “chirurgici” sui siti nucleari). Nel frattempo, però, già si è provveduto a muovere le pedine su una molteplicità di versanti. Investimenti esteri diretti, fondamentali per la ristrutturazione dell’industria iraniana, rallentati o bloccati, con effetti immediati sulla Borsa, che ha perso in quattro mesi più del 20%. Infiltrazioni britanniche ed israeliane in territorio iraniano, a Nord e a Sud per organizzarvi attentati e soffiare sul fuoco delle aspirazioni autonomiste in Kurdistan, Azerbaigian e Khuzistan (la disgregazione-balcanizzazione dell’Iran è un antico progetto…). Affondo contro il regime siriano, il più stabile alleato di Teheran nell’area. Pressione sulla Russia perché insista nell’avocare a sé la lavorazione dell’uranio iraniano, proposta peraltro respinta dall’Iran. Rilancio delle campagne per il rispetto dei “diritti umani” in Iran. Sollecitazioni di ogni genere, ad iniziare da quelle di tipo economico (Iran Democracy Act, etc.), a tutte le opposizioni al regime islamico. L’obiettivo non celato è quello di provocare un vero e proprio cambio di regime puntando sulla leva interna di un certo studentame che sogna uno stile di vita occidentale, delle classi medie professionali, degli elementi interessati alle privatizzazioni, delle associazioni “non governative”, vere e proprie quinte colonne –per regola- nel mondo arabo-islamico degli interessi occidentali, delle “donne” delle classi medie, e puntando sulla disillusione creatasi tra le masse oppresse che si sono per lungo tempo riconosciute nella repubblica islamica. L’accostamento tra Ahmadinejad e Mossadeq fatto da Limes (n. 5 del 2005) va inteso non nel senso che sia alle viste un nuovo intervento diretto sul tipo di quello della CIA come nel 1953, poiché non ve ne sono le condizioni, ma nel senso che un Occidente che ha ritrovato la compattezza in chiave anti-iraniana con l’apporto determinante delle sue sinistre, farà di tutto per rovesciare chi si propone come il portatore di un “orgoglioso nazionalismo”[4] iraniano e “islamico”, e sostituirlo con un governo amico o ricondotto alla “ragione”.

Nonostante l’evidente logoramento di credibilità interna della repubblica islamica, non sarà facile conseguire un simile obiettivo soprattutto –torniamo al punto chiave- per l’odio e il discredito di cui le grandi potenze occidentali e Israele godono in Iran e in Medio Oriente a livello di massa e per le tensioni di classe che vi si stanno riaccendendo. Ecco perché, a meno di un’improbabile resa di  Teheran sul nucleare e su tutto il resto, Israele si prepara a utilizzare qualche “buon” pretesto per colpire i siti iraniani, con la totale copertura statunitense ed europea. Difficile immaginare che non vi sia una replica iraniana, e che questa replica non porti con sé una spirale di azioni militari dagli esiti “imprevedibili” (in realtà, l’uso di atomiche da parte di Israele viene ormai apertamente messo in conto). Insomma, andiamo verso un nuovo capitolo della “guerra dei trenta anni” promessa da Bush.

Nei drammatici avvenimenti alle porte siamo sicuri che il proletariato e le masse oppresse dell’Iran faranno ancora una volta sentire la loro voce, sia in lingua “islamica” che non islamica. E la voce dei proletari occidentali? e il movimento no war

 

22 novemreb 2005


[1] Il Patto di Baghdad fu una “alleanza anti-nasseriana e anti-sovietica” promossa nel 1955 dagli Stati Uniti, a cui aderirono la Gran Bretagna, l’Iran dello Scià, l’Iraq di Nuri Said e di re Feisal, infeudato a Londra, la Turchia (già entrata nella NATO nel 1952) e il Pakistan. Esso si pose anche come contraltare al “movimento dei non allineati”, nato a Bandung nel medesimo anno. Il Patto di Baghdad fu sostituito nel 1959 dalla CENTO, dopo che l’anno precedente l’Iraq se ne era ritirato a seguito del rovesciamento della sua monarchia compradora. A sua volta, la CENTO cessò di esistere nel marzo 1979, subito dopo la caduta dello Scià. 

[2] E’ noto che nei mesi immediatamente precedenti il crollo del regime dello Scià, quando già si era in presenza di un ampio movimento di massa composto sempre più di lavoratori poveri e di diseredati (mostazafin), Khomeini incorporò abilmente nel proprio vocabolario, anche attraverso la “mediazione” del pensiero di Ali Shariati, “temi populisti e anti-imperialisti”,  lasciandosi andare ad affermazioni del tipo “i disederati erediteranno la terra”, “il paese ha bisogno di una rivoluzione culturale”, “le masse getteranno gli sfruttatori nella spazzatura della storia”, e simili: lo riferisce, tra gli altri, E. Abrahamian, Iran Between Two Revolutions, Princeton University Press, 1983.     

[3] I media occidentali hanno sottolineato come anche Khamenei, presentato a torto da loro stessi come l’ispiratore della elezione di Ahmadinejad, abbia invece subito provveduto a limitarne i poteri e a rafforzare anche sul piano istituzionale l’influenza di Rafsanjani.

[4] Cfr. il testo di R. Howard, Iran in Crisis? Nuclear Ambitions and the American Response, Zed Books, 2004.

 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista