Primo articolo: "America" (da Prometeo, n.7 anno 1947)

Secondo articolo: "Ancora America" (Da Prometeo, n. 8 anno 1947)

Terzo articolo: "Aggressione all'Europa" (da Prometeo, n. 13 anno 1949)

Quarto articolo: "Pacifismo e comunismo" (da Battaglia comunista, n.13 anno 1949)

Quinto articolo: "United States of Europa" (da Prometeo, n. 14 anno 1950)

Sesto articolo: "Tartufo o del pacifismo" (da Battaglia Comunista, n. 6 anno 1951)

Settimo articolo: "Politica europea degli Usa" (da Programma Comunista, n. 10 anno 1962)

Ottavo articolo: "Il mito dell'Europa unita" (da Programma Comunista, n. 11 anno 1962)

 

AMERICA

Il lettore quotidiano della stampa di oggi vede passare sotto i suoi occhi stanchi cifre allucinanti. Non negli scritti che volgarizzano astronomia o fisica corpuscolare, ma proprio in quelli che lo cibano di politica, sempre più, a fine politico, gli parlano di economia, e gli propinano numeri.

Miliardi di dollari. Un miliardo è mille milioni, e si scrive con uno seguito da nove zeri. Tra poco un dollaro corrisponderà a mille delle nostre lire, e giù per su finiranno col fermare la lira lì (ciò vuol dire che la lira comprerà duecento volte meno che all'inizio del secolo). Dunque il miliardo di dollari varrebbe mille miliardi di lire, un trilione (miliardo e bilione è lo stesso) e ciò si scrive con uno e dodici zeri.

Vediamo la cosa più palpabilmente. Mettiamo che il lavoratore medio guadagni 1600 lire al giorno. In trecento giorni lavorativi saranno 480 mila lire annue, su per giù 500 dollari. Forte ottimismo, come vedete.

Con un miliardollaro, bazzecola per gli odierni vincitori, si compra il lavoro di due milioni di persone produttive (le nostre cifre sono arbitrarie per arrotondare, ma gli arbitrii finiscono per compensarsi); il miliardollaro acquista il lavoro per un anno di una popolazione di dieci milioni di anime (S.O.S. - salvate le nostre anime).

Ora non si sente discutere che della ricostruzione della distrutta Europa e del danaro che l'America deve prestarle a tal uopo. I miliardollari roteano nella polemica. Truman fa votare, per soccorrere Grecia e Turchia, per ora appena tre decimi di miliardollaro, ma già si sono accorti che il soccorso è insufficiente a distruggere i guerriglieri. Comunque a qualche timida obiezione parlamentare Truman ha risposto con tutta chiarezza che la guerra è costata agli Stati Uniti 341 miliardollari, e per la garanzia di questo "investimento", o, come dicono i Francesi, "placement", sarebbe da veri pitocchi esitare a spendere quei pochi soldi in Grecia e Turchia, l'uno per mille appena del capitale messo a rischio per salvare la Libertà.

La Francia ha per ora avuto un quarto appena di miliardollaro, ma è bastato a mettere fuori dal governo Thorez e i suoi. Per l'Italia si fa balenare un miliardollaro intiero, di cui uno o due decimi sarebbero già liquidi. Ma di ciò tra un momento.

Questi sono prestiti che naturalmente saranno restituiti con gli interessi, ma vi è poi la beneficenza pura, la erogazione a fondo perduto, l'ultima e sopraffina forma di piazzamento del capitale. Anche qui le direttive dell'UNRRA secondo la dottrina Truman sono chiare: paese per paese gli stanziamenti dipendono dal colore del governo locale o dalla sua soggezione alla politica d'oltreatlantico; nei casi dubbi si manda lo stanziamento a zero. Non è guerra, ma è sempre far leva sulla morte.

Ma vi è di più. La dottrina Truman, piuttosto grossolana, consiste nel maneggiare il dollaro per distruggere zona per zona l'influenza russa ed è applicata con una delicatezza da bisonte. Per fortuna nella libera America vi è il democratico urto delle opposte opinioni, e contro la dottrina Truman vi è quella di Wallace, un amicone questo della Russia, che invece adotta una raffinatissima diplomazia, e spinge il disinteresse fino ai limiti dell'inverosimile. Donare prestare anticipare dollari, ecco il sacro dovere dell'America, e soprattutto alla Russia bisogna subito offrirli. Le cifre qui naturalmente salgono. Occorre porre a disposizione dell'Europa 50 di quelle nostre unità, cinquanta miliardollari, e di questi alla Russia bisogna, secondo il signor Wallace, non esitare a darne da un quinto ad un terzo, da 10 a 17 miliardollari.

Le devastazioni della guerra, secondo un calcolo, raggiungono 150 miliardollari ed egli suppone che nei capitali locali si possa ancora trovarne 50 da investire, mentre gli altri cento miliardollari sarà l'America a prestarli al resto del mondo.

Tornando ai cinquanta che toccano a noi Europei essi valgono secondo il nostro calcoletto a comprare la forza-lavoro di 500 milioni di abitanti per un anno, ossia appunto della popolazione europea.

La ricostruzione non si può fare certo in un anno, poiché tutti i prodotti dei lavoratori Europei, divenuti di proprietà americana almeno per i due terzi giusta la teoria di Wallace, non possono andare a rifare impianti e opere distrutte, in quanto i lavoratori stessi devono mangiare e consumare.

A consumo ridotto, come è nella quasi totalità dell'Europa, supponiamo che essi assorbano metà del loro prodotto. In tal caso, se tutti i 50 miliardi di dollari potessero, il che è certo impossibile, essere di un colpo anticipati ed investiti, in due anni l'Europa avrebbe rinnovata la sua attrezzatura, ma tutto l'utile del capitale che questa produrrebbe "per sempre" sarebbe di diritto americano per i due terzi.

Le cifre sono molto discutibili, ma è chiaro che il signor Wallace, vero pacifista, progetta un investimento di primissimo ordine.

Naturalmente egli ha bisogno di garanzie per il ritiro dei formidabili utili, pur essendo sempre in credito della somma anticipata. Quali garanzie? Truman, un poco volgaruccio, le vede nel disarmo altrui e nell'armamento formidabile del creditore, atto per massa e per qualità a tenere in soggezione il mondo, e ad evitare le eventuali bizze di chi non volesse pagare le rate.

Wallace invece ci spiega e spiega a quelli del Kremlino - che potranno subire, ma sarà un poco difficile che credano - come quella generosa anticipazione sarà il fondamento della pace. Le garanzie saranno puramente legali. In via di costruire il Superstato che abbia a scala mondiale le stesse funzioni che ha lo Stato, sovrano nel suo territorio, per cittadini ed enti privati, si farà funzionare in campo internazionale il sistema delle ipoteche. Strutture ed impianti nei paesi debitori garantiranno col loro valore e con la loro attività i versamenti a saldo del credito.

In questa seconda civile versione della supremazia americana vediamo avanzare sulla scena un nuovo personaggio, l'ufficiale giudiziario internazionale. Sappiamo bene come agisce nel campo nazionale. Egli è molto più potente del gendarme, se pure non rechi altre armi che una vecchia borsa di cuoio piena di carte e sia fisicamente misero ed umilmente vestito: infatti i suoi stipendi sono assai più bassi di quelli dei militari, reclutati tra giovani aitanti e rivestiti di lucenti divise. Ma la sua potenza legale e civile è tanto tremenda che molte volte la vittima, quando ha tutto esaurito negli espedienti della tragica guerra cartacea, al vederlo giungere tremolante ed inerme sbigottisce al punto che, lungi dal tentare di offenderlo e ributtarlo, si fa da sé stessa saltare le cervella. Egli guadagna la battaglia senza sporcarsi di sangue le mani, e senza imbrattarsi il certificato penale o compromettere l'assoluzione da parte del confessore.

In tal modo il dollaro, con la sua organizzazione mondiale di anticipazione ai poveri, muove alla conquista d'Europa fino ed oltre gli Urali, e ne pianifica il successo senza ricorrere alle traiettorie di siluri atomici e di aerei di invasione per la via polare.

Per quanto riguarda l'Italia le cose sono già avviate a chiarirsi magnificamente, in quanto il processo più difficile si avrà in quei paesi che per ragioni geografiche sono a diretto contatto con la forza russa e sono presidiate dall'esercito sovietico. Nei paesi intermedi assistiamo a sviluppi originali. Per l'Ungheria pare che sia la stessa Russia ad offrire duecento milioni di dollari (non già di rubli) per evitare la concorrenza. Il male è che alla fine quei dollari si prenderebbero dai miliardi di Wallace, e su essi il banchiere farà un affare duplicato.

Ma per noi tra poco tutto sarà a posto. L'inflazione si potrà frenare quando sia stabilito il prestito del miliardollaro (in verità siamo la decima parte della popolazione di Europa e siamo tra i più disastrati, ma sui 50 miliardollari di Wallace ce ne viene per ora la cinquantesima parte soltanto; è la sorte di chi non fa più paura). Tra poco i grandi affari in Italia si cifreranno in dollari e non in lire, anzi lo si fa già. La lira sarà ancorata al dollaro (ma che bel termine... non resistiamo alla tentazione di dire che vi sarà ancorata più saldamente di quanto le catene di Vulcano ancorassero Prometeo alla sua roccia...). La formula della vita italiana potrà essere semplice: nulla è perduto; solo l'onore.

Naturalmente non versiamo lacrime sull'onore della patria borghesia. Il concetto di onore vige nelle società divise in caste o in classi, ha un senso fin quando gli uomini sono divisi tra gentiluomini e meccanici, non interessa il proletariato rivoluzionario che non ha onori da perdere, ma solo le... ancore che lo legano alla onorata società del capitale.

L'operazione del prestito all'estero fino ad ora non viene contestata neppure dagli oppositori di oggi, ieri alleati del governo. Essi - in replica al programma De Gasperi - scrivono disinvoltamente: "Occorrono i dollari, che bella scoperta!". Sono d'accordo per i dollari e per l'UNRRA, altrimenti, dopo anni ed anni di propaganda idiota che presentava la struttura sociale del capitalismo d'America come la più altamente civile, sarebbe la bancarotta elettorale.

Questi sicofanti sostengono che si potrebbero prendere i dollari ed evitare le influenze sulla nostra "politica interna". Ma da quando sono saltati i confini tra le economie dei vari paesi e le loro aree commerciali e monetarie, è finita la differenza tra politica estera ed interna.

I socialcomunisti dicono che bisogna dare per i dollari garanzia sulle industrie, non sullo Stato, garanzie economiche e non politiche. Secondo tali marxisti si può dare una garanzia economica senza che questa si rifletta in influenza politica... Ma poi quelle industrie, nel programma di quei signori, e in ispecie le grandi industrie monopolistiche (brrr... e leggi le sole che hanno tra noi la potenzialità atta a garantire un po' di dollari e si stanno già per loro conto coprendo di ipoteche oltremarine), non dovevano essere nazionalizzate, coi soldi dello Stato (presi dal prestito), e non avremmo quindi la vendita e l'affitto dello Stato?

Siano nello stesso Ministero o meno, sono d'accordo tutti nella politica economica dei prestiti. Erano tutti d'accordo nel prestito interno, ed abbiamo assistito al nauseante spettacolo della pubblicità al prestito su quelli che pretendono di essere i giornali "delle classi lavoratrici". Il prestito allo Stato, la costituzione del sempre più elefantesco debito pubblico, è uno dei cardini della accumulazione capitalistica. Marx nel Primo Libro del Capitale, cap. XXVI 8, sulla genesi del capitalista industriale, dice testualmente: "Il debito pubblico o, in altri termini, l'alienazione dello Stato - sia questo dispotico, costituzionale o repubblicano - segna della sua impronta l'era capitalistica. La sola parte della cosiddetta ricchezza nazionale, che entra realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni, è il loro debito pubblico. Perciò è assai conseguente la teoria contemporanea secondo la quale un popolo diventa tanto più ricco quanto più fa debiti. Il debito pubblico diventa il credo del capitale. Ed è così che la mancanza di fede nel debito pubblico, non appena questo si è formato, viene a prendere il posto del peccato contro lo Spirito Santo pel quale non v'è perdono".

Una delle tesi essenziali del marxismo è che quanta più ricchezza si concentra nelle mani della borghesia nazionale, tanta più miseria vi è nella massa lavoratrice. Lo Stato-sbirro, semplice difensore del privilegio della prima, si trasforma oggi sempre più in Stato-cassa. L'attivo di questa cassa va ad incrementare l'accumulata ricchezza dei borghesi, il suo passivo pesa sulla generalità, ossia sui lavoratori. Coi prestiti nazionali si ribadisce la servitù economica del proletariato. Secondo poi l'insensata pretesa che questo addirittura sottoscriva qualche cartella dell'accredito ai suoi sfruttatori, la sua servitù viene ribadita una terza volta.

In Italia non è certo De Gasperi che rischia di peccare contro lo Spirito Santo!

Ma i suoi avversari attuali in Parlamento, soci fino a ieri nella politica dei prestiti, soci oggi ancora nella politica della servitù dei sindacati operai, restano suoi soci nella politica del prestito dall'America con cui lo Stato italiano si aliena al capitale straniero.

Abbiamo già detto che per il proletariato essere venduto al capitale straniero o a quello indigeno è una pari sventura.

Nel caso della attuale classe politica dirigente italiana va però detto che essa, attraverso le indegne metamorfosi del suo schieramento, nella vendita dell'onore del suo Stato saprà scendere ancora qualche altro scalino.

L'alienazione del proprio onore non è il peggiore affare che si possa concludere. Anche qui, e siamo sempre nella piena meccanica nel mondo borghese, che avversiamo ed odiamo, vi è una questione di prezzo. Si può vendere l'onore sottocosto. Ed è a questo che arriveranno gli odierni gerarchi della politica italiana, negoziando con lo straniero vincitore le condizioni del suo intervento finanziario, preoccupati solo di contendersi tra loro, filoamericani o filorussi che siano, le percentuali di commissione sull'affare.

Da "Prometeo" n. 7 del 1947

 

ANCORA AMERICA

L'atmosfera dell'Europa, greve e torbida ancora dei fumi della guerra, è piena della polemica sull'America, sugli aiuti dell'America, sulle intenzioni dell'America.

Le stragi belliche non hanno disaffollato gli stomaci nella parte del pianeta di popolazione più addensata e più antica; la vecchia Europa ha fame, non ha abbastanza da mangiare, non produce più viveri a sufficienza, non ha più la forza di una volta per andarne a predare nelle altre quattro parti del mondo.

Ed ecco che la ricca America anticipa, e pianifica l'ulteriore anticipazione. Si tratta di oro, di valuta, di titoli di reddito, di tutte le altre stregonerie geniali ed idiote del mercantilismo? Si tratta in sostanza di sussistenze, nel senso più lato, non essendo sussistenza solo ciò che entra per la bocca.

Queste sovvenzioni in viveri rappresenterebbero l'apice di generosità di cui é capace il capitalismo. Si partì dal regime del cash and carry, paga e porta via, o, se vuoi mangiare, paga il conto prima di essere servito. Poi si passò alla legge di affitto e prestito, ossia, con un senso di larga fiducia, si consegnarono le merci facendo credito al compratore.

L'oste di oltre Atlantico ci faceva un abbonamento ai pasti. In fine é venuta I'UNRRA, ossia si regala senza nemmeno annotare il debito, il ricco trattore fa pranzare l'affamato per amor di Dio.

Chi conosce appena gli elementi della visione marxista dell'economia sa da tempo che la graduazione di merito va fatta alla rovescia. I tre metodi presentano successivamente un grado maggiore di sopraffazione e di sfruttamento che il ricco esercita sul povero.

L'Europa nella devastazione dei suoi impianti produttivi conserva crescente una sola delle forze della produzione, la massa lavoratrice.

L'America non ha subito distruzioni, le industrie ed ogni altro impianto sono intatti, tutto il suo capitale costante é integro.

Il capitale costante rappresenta l'eredità che le generazioni passate col cumulo secolare dei loro sforzi di lavoro tramandano alle successive. Sulla strada di questa successione si accampa il privilegio di classe, poiché i miliardi di giornate-lavoro lasciate dai morti non appartengono a tutti i vivi ma ad una piccola minoranza.

Tale rapporto giuridico servirebbe poco ai satrapi del capitale ove essi disponessero del solo capitale costante: ben potrebbero contemplare le foreste di macchine immote e di spente ciminiere, non sfuggirebbero essi stessi alla morte per fame.

Il capitale costante deve integrarsi, perché si generi il profitto e si continui l'accumulazione della ricchezza, di capitale variabile, ossia di lavoro umano, in quanto l'ingranaggio economico consente ai monopolizzatori degli impianti di anticipare le sussistenze dei lavoratori rimanendo beneficiari di tutto il prodotto dalla combinazione tra impianti e lavoro.

Fin quando nel classico capitalismo delle libere aziende tutto questo si svolge in tante isole economiche, il padrone del capitale costante non solo non ha bisogno di anticipare le sussistenze, ma sono gli operai che gli anticipano una settimana o una quindicina di lavoro. Se essi potessero senza crepare anticiparne un anno o quanto occorre per intero ciclo di trasformazione delle materie prime, nei casi in cui é periodico, la legge e la morale borghese avrebbero sancito volentieri questo rapporto.

L'evolversi del capitalismo ha condotto le aziende a divenire sempre più interdipendenti, ed il problema della fecondazione del capitale fisso da parte del capitale salari viene pianificato dalla borghesia su scala mondiale.

La guerra attuale ha in certo modo allontanati tra loro i due generatori del profitto capitalistico e per riavvicinarli, sola condizione che permetterà di riportare al massimo di giri le ruote della macchina dello sfruttamento, occorrono imprecisabili intervalli di attesa.

Per superarli senza che la massa delle braccia produttrici si assottigli e si disperda il capitalismo costruisce un apparato che anticipa sussistenze alle popolazioni affamate.

Tale anticipo presentato come un dono, appunto perché la parte che veramente produce profitto é il capitale sussistenze, verrà ritirato a condizioni dieci volte più strozzinesche di quelle che corrispondevano al caso di pagamento per contanti, e a quello successivo dell'accensione di un regolare conto a debito del vacillante capitale europeo.

La letteratura del nascente tempo borghese inorridiva di Shylok che convertiva il suo effetto di credito contro il nullatenente nel diritto di tagliargli dalla persona un pezzo di carne, ma oggi l'intelligente capitalismo lo tiene invece in piedi con una scatoletta di meat and vegetable. Cosi l'afflato della cristiana e illuminata civiltà mercantile che, scorrendo i mari, mosse dai nostri lidi alla conquista del mondo, ci ritorna ingentilito dal Far West.

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Dopo l'altra guerra perduta dalla Germania chi percorreva quel paese militarmente prostrato nelle battaglie combattute sui territori altrui restava stupito dalla integrità dei possenti impianti moderni che una acceleratissima industrializzazione aveva attuato in pochi decenni. La foresta di ferro e di cemento armato piantata nel suolo rappresenta il capitale costante in cui si cristallizza il lavoro delle generazioni, è una riserva come il carbone fossile delle foreste vegetali sepolte nei millenni geologici.

Se lo Spartaco proletario, anziché cadere sgozzato ad opera di quelli che si erano dati a fare della Germania una perfetta democrazia, a simiglianza dei marxisti rinnegati di oggi, avesse potuto afferrarla nelle tenaglie della rossa dittatura, sorella a quella di Russia, forse l'imperialismo non avrebbe potuto trascinare il mondo in un altro bagno di sangue.

I conquistatori della Germania, che erano in realtà i conquistatori dell'Europa, si sono ben guardati dal proclamare il V day, il giorno della vittoria, prima di avere percorso tutto il territorio del vinto, già straziato dai bombardamenti, tanto per controllarne la residua consistenza di impianti produttivi che per impedire le convulsioni rivoluzionarie nelle masse sacrificate.

Ma non è solo capitale costante tedesco quello che é stato spiantato. Il rapporto di forze economiche e quindi di dominazione politica sorge nello stesso modo per i paesi che hanno bruciata la loro attrezzatura tecnica nel combattere contro la Germania, come l'Inghilterra e la Russia. Le masse di questi paesi dovranno lavorare follemente per ricolmare il vuoto prodotto in ciò che i borghesi chiamano ricchezza nazionale. In questo investimento grandioso di capitale variabile si genereranno per il capitale ricostruttore profitti giganteschi. Ma il ciclo non si può avviare senza anticipi e per ora non abbiamo uno spettacolo di intenso lavoro, ma di disoccupazione e di fame. Chi con la forza del proprio attrezzamento intatto può anticipare i dollari e le scatolette diventa il padrone e lo sfruttatore delle masse europee schiavizzate.

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La campagna contro l'America, ossia contro il mostro statale plutocratico che tiene anche i nostri compagni proletari di America, vittime non ultime della tremenda crisi, sotto il suo classico tallone di ferro, non potrebbe essere condotta con speranza di successo contro la mobilitazione proteiforme di mezzi di ogni genere, che riempirà spettacolosamente di sé gli anni che stiamo per vivere, se non da un movimento e da un partito rivoluzionario coerente. Da un partito internazionale che non avesse spezzato la cordata della teoria della organizzazione e della tattica che doveva direttamente ascendere verso la rivoluzione totalitaria.

Male potranno i liquidatori di Internazionali riaccendere da comitati di provincia la fiamma della lotta operaia contro l'imperialismo, la cui centrale mondiale agisce oramai fuori di Europa.

Per poter contrapporre a questo strapotere mondiale una resistenza paragonabile con le sue spietate risorse, bisognava non aver pascolato per tutti gli anni di guerra col gregge della imbecillità borghese d'Europa invocante dalla forza industriale e militare di America la salvezza suprema.

Bisognava non aver avuto della lotta proletaria una concezione che ammettesse in un primo periodo l'alleanza con il nazismo al fine di fare alcuni passi nell'Europa orientale, e in un secondo la guerra contro quello e la non meno disonorante alleanza con le democrazie capitalistiche nella illusione di fare altri passi fino a Berlino.

Se si trattasse non di una conquista di marescialli ma dell'incendio della rivoluzione si saprebbe che questo deve attaccare nello stesso tempo tutte le strutture, in ogni paese, del potere della borghesia.

Quindi la campagna internazionale antiamerica che si inscena con accorti passi - inguaribilmente progressivi - dagli ex comunisti di Mosca parte battuta.

Essa nel suo cauto avviarsi lascia largo adito alla eventualità, non esclusa in principio, che si rifiuti il piano Marshall non perché esso é la suprema espressione della sopraffazione di classe, rispetto a cui le fanfaronate degli Hitler e dei Mussolini erano giochi da ragazzi, ma solo perché nei suoi capitoli di credito quello relativo alla Russia e paesi soggetti si cifra troppo basso.

E infatti vediamo in Italia dichiararsi, quando i delegati americani fanno presente che sarebbe la fine se si spezzasse il rosario di navicelle che cariche di grano si stendono tra i due lidi dell'Atlantico, che non si tratta di rifiutare i soccorsi.

Non vi sarebbe invece altra parola di battaglia proletaria, contro la ricostruzione di Europa secondo Marshall, che il rifiuto.

Quando nella contesa per la remunerazione del lavoro l'operaio fa ricorso allo sciopero, metodo che per qualche anno ancora i rinnegatori di tutto non hanno tuttavia liquidalo, esso risponde alla elargizione di una scarsa quota di sussistenze proprio col rifiuto di quelle che gli restano.

Ma la consegna di Belgrado é di fare sabotaggio alla influenza di America anche con l'azione «governativa», ossia dal di dentro dello Stato. Non hanno abbastanza provato i cicloni storici di questa ultima guerra che lo Stato é una potenza unitaria e non divisibile in fette! E per fare azione governativa occorre successo elettorale.

Di qui le posizioni anfibie e le tattiche di graduale conversione, le quali non potranno evitare che le adesioni al cosiddetto comunismo, venute da tutta la melma delle classi medie per la convinzione che quello fosse l'erede delle funzioni camorristiche e di protezione esercitate prima dal fascismo, svaniscano al solo odore di pochi cents di dollaro, quando saremo giunti al punto decisivo.

Da «Prometeo», n. 8 del 1947

 

 

AGGRESSIONE ALL'EUROPA

Guerre di difesa e di aggressione, grossa polemica allo scoppio del conflitto europeo nel 1914 su questa distinzione, nei riguardi dell'atteggiamento dei socialisti.

Per i benpensanti è un quesito semplice, al solito. Governo, Stato, Patria, Nazione, Razza, senza andare troppo per il sottile, sono assimilati ad un unico soggetto con ragione torto diritto e dovere, come tutto si riduce alla Persona Umana, e alla dottrinetta sul suo comportamento, pigliala vuoi dalla morale cristiana, vuoi dal diritto naturale, vuoi dall'innato senso della giustizia e dell'equità, e quando si parla più difficile dalla eticità dell'imperativo categorico. E allora come l'uomo giusto e alieno dal male, se assalito, si difende dall'aggressore - lasciando per un momento da parte l'affare dell'altra guancia - così il Popolo assalito ha diritto di difendersi, la guerra è cosa barbara ma la difesa della patria è sacra, ogni cittadino deve democraticamente pronunziarsi per la pace e contro le guerre, ma dall'attimo in cui il suo Paese è aggredito deve correre alla difesa contro l'invasore! Questo vale per il singolo, vale per tutta la Nazione fatta Persona, vale dunque anche per i partiti a loro volta mossi e trattati come soggetti personificati nei loro obblighi, vale per le classi.

Ne venne fuori il tradimento generale del socialismo, il guerrafondaismo su tutti i fronti, il trionfo in tutte le lingue del militarismo. E non meno ovviamente non ci fu guerra che lo Stato e il Governo che la conducevano non qualificassero di difesa.

La polemica marxista naturalmente fu impostata sgombrando il campo di tutte quelle fantomatiche persone ad una testa, a più teste, o senza testa, o senza testa e colla testa altrui sul collo, riponendo al loro posto il carattere e la funzione di quegli organismi che sono le classi, i partiti, gli Stati, aventi una propria dinamica storica per indagare la quale a nulla servono i buoni principii morali.

Si rispose ai borghesi che i proletari non hanno patria e che il partito proletario persegue i suoi fini colla rottura dei fronti interni, cui le guerre possono offrire ottime occasioni; che non vede lo sviluppo storico nella grandezza o nella salvezza delle nazioni; che nei congressi internazionali era già impegnato a spezzare tutti i fronti di guerra cominciando ove meglio si poteva.

Si dispersero in una lunga lotta non solo verbale i falsificatori del marxismo, i quali in vari modi e in varie lingue si provarono a smantellare la teoria che il proletariato può costituirsi in classe nazionale, in primo tempo, solo con l'attuare contro la schiacciata borghesia la sua dittatura, come Marx insegnò, e vi sostituirono l'altra, spudorata, che esso e il suo partito assumono carattere nazionale sol che la democrazia politica e il liberalismo siano stati attuati.

Si chiarì lungamente come siano diversi i problemi delle conseguenze che le guerre, il loro procedere e il loro scioglimento hanno sulle vicende interne e mondiali della lotta di classe socialista e, del comportamento del partito socialista nei paesi in guerra, essendo condizione di ogni sfruttamento di condizioni nuove o di nuove fragilità di regimi, la continuità, la autonomia, la fiera opposizione classista, la disposizione teorica e materiale alla guerra sociale interna, del partito rivoluzionario.

Negata ogni adesione alla guerra degli Stati o dei governi, cadeva ogni discriminazione sulla guerra di difesa o di offesa, ogni scusante che da tali oblique distinzioni potesse sorgere per giustificare il passaggio dei socialisti nei fronti di unione nazionale.

D'altra parte la vacuità dei confronti colla zuffa di due persone sta nella diversa portata dei concetti di aggressione e di invasione. Anche i due mocciosi in rissa badano a berciare che il primo è stato lui, ma quando si invoca la integrità del territorio il caso è molto diverso. Nelle guerre di una volta, e in larga misura nella Prima Guerra Mondiale, la guerra pesava sull'incolumità dell'individuo in quanto soldato spedito a combattere, ma il rischio di morte per il civile lontano dal fronte era praticamente nullo. Se invece un territorio veniva invaso dall'esercito avversario, ecco sorgere il solito quadro della distruzione dei beni delle case dei focolari della famiglia, la violenza sulle donne e sugli indifesi e così via, tutto materiale di propaganda cui si fece largo ricorso per trarre i partiti socialisti nell'agguato. Anche il lavoratore nullatenente, si disse, maturo a lottare per i fini di classe, ha qualcosa da perdere e vede minacciati vitali suoi interessi in senso materiale ed immediato, se un esercito nemico invade la città o la campagna in cui vive e lavora. Deve dunque correre a ributtare l'invasore. Tesi letterariamente robusta. Siamo alla difesa organizzata nel castello dell'Innominato contro i Lanzichenecchi predoni, siamo al ritmo della Marsigliese: ils viennent jusque dans nos bras égorger nos fils et nos compagnes...

In risposta a tante piacevolezze i marxisti stabilirono cento volte che senza affatto rinunziare alla valutazione, critica e storica, dei caratteri distintivi tra guerra e guerra nella loro ripercussione sugli sviluppi delle lotte sociali e sulle crisi rivoluzionarie, tutti questi motivi di giustificazione della guerra, usati al fine di trovare carne da cannone e disperdere i movimenti e i partiti che traversano la strada al militarismo, sono inconsistenti e si distruggono tra di loro. Il motivo abusatissimo dell'aggressione e quello non meno sfruttato dell'invasione possono stare in contrasto. Uno Stato può prendere l'iniziativa della guerra ma, se ha dei rovesci militari, la sconfitta può esporre in breve i suoi territori all'invasore, come dalla già ricordata togliattiana teoria dell'inseguimento dell'aggressore.

Non meno contraddittori sono gli altri famosi motivi tratti dalle rivendicazioni nazionali e irredentiste, e quelli che molti marxisti di bocca buona allinearono per giustificare l'appoggio a guerre coloniali, che valevano a diffondere in paesi "barbari" i caratteri della moderna economia capitalistica. La guerra anglo-boera del 1899-900 fu una palese aggressione, i coloni boeri di razza olandese difesero la patria la libertà nazionale e il territorio violato, ma i laburisti riuscirono a giustificare come progressiva la impresa britannica. Nel maggio 1915 quella dell'Italia all'Austria ex-alleata fu palese aggressione, ma la giustificarono - i vari socialtraditori - col motivo della liberazione di Trento e Trieste e con l'altro della "guerra per la democrazia", senza imbarazzarsi del fatto che dall'altro lato l'Austria-Ungheria era alle prese con gli eserciti dello Zar.

Un caso classico è riportato nel libro interessantissimo di Bertram D. Wolfe Three made a revolution, vera miniera di dati storici, con ogni riserva sulla linea propria dell'autore. Il 6 febbraio 1904 i giapponesi, alla Pearl Harbour, attaccano e liquidano la flotta russa davanti a Port Arthur senza dichiarazione di guerra. Palese aggressione. Dopo il lungo assedio da terra e da mare la cittadella cade nel gennaio del 1905. Lutto nero per il patriottismo russo. Nel Vperiòd del 4 gennaio 1905 Lenin scrive frasi come le seguenti: "Il proletariato ha ogni motivo di rallegrarsi... Non il popolo russo ma l'assolutismo ha subito una disfatta vergognosa: la capitolazione di Port Arthur è il prologo della capitolazione dello zarismo. La guerra è lontana dalla fine ma la sua continuazione solleva ad ogni passo l'inarrestabile fermento ed indignazione delle masse russe, ci porta più vicini al momento di una nuova grande guerra, la guerra del popolo contro l'assolutismo". Tutta la questione merita maggiori analisi se si vuol chiarire l'insieme dei problemi sui rapporti storici tra assolutismo borghesia e proletariato, sciogliendo mediante la dialettica marxista la pretesa contraddizione che il citato autore vede tra i tempi storici della dottrina e dell'opera leninista - ci basti ora notare che lo scritto dell'esule isolato vive dello stesso contenuto della gigantesca battaglia rivoluzionaria russa del 1905, sorta dalla disfatta nazionale pochi mesi oltre.

Passano quarant'anni e il 2 settembre del 1945 il Giappone battuto dagli Americani colle atomiche di Hiroshima e Nagasaki capitola senza condizioni. Benché la Russia non abbia dichiarata la guerra ai nipponici che nelle ultime ore, il Maresciallo Stalin dirama un Indirizzo di Vittoria, che testualmente dice: "La disfatta delle truppe russe nel periodo della guerra russo-giapponese lasciò un ricordo doloroso nelle menti dei nostri popoli. Fu una oscura macchia sul nostro paese. Il nostro popolo ebbe fede ed attese il giorno in cui il Giappone sarebbe stato disfatto e la macchia cancellata. Noi della vecchia generazione abbiamo atteso questo giorno per quarant'anni. Ed ora questo giorno è venuto!".

La suggestiva storia delle adesioni alle guerre fornisce dunque argomenti decisivi in sostegno del disfattismo rivoluzionario di Lenin, della norma tattica che i partiti proletari non possono in questo campo entrare nella via della minima concessione, senza porre la classe operaia alla mercé delle mosse degli Stati militari. Basterà che questi creino con un breve telegramma la mossa irreparabile, perché il pericolo per la nazione il suo suolo e il suo onore sia determinato, ed ogni sensibilità a tali argomenti sarà la rovina del movimento di classe nazionale e internazionale. Quando l'aggressione italiana del 1915 condusse col rovescio di Caporetto alla invasione, si fece vacillare la meritoria opposizione dei socialisti italiani, nel grido di Turati: "La patria è sul Grappa!" malgrado che il suo fratello intellettuale Treves avesse osato ammonire: "Un altro inverno non più in trincea!".

Più ancora, gli Stati borghesi e i partiti di governo coniarono la teoria degli spazi vitali, della invasione preventiva, della guerra preventiva, motivandola con argomenti di salute nazionale. Motivi tutti non privi di reale consistenza storica, ma che non devono smuovere i rivoluzionari, come non devono smuoverli i motivi di difesa e di libertà del più candido e innocentino - se ci fosse - dei governi capitalisti. La stessa guerra del 1914, strombazzata aggressione teutonica, fu una guerra preventiva inglese. Ogni governo vede dove vuole i suoi interessi e i suoi spazi vitali; è un gioco di secoli quello inglese di avere le proprie frontiere sul Reno e sul Po, e questo gioco avrebbe salvato tante volte la Libertà, mentre la avrebbe offesa a morte la pretesa di Hitler di avere le frontiere vitali oltre i Sudeti e a Danzica... pochi chilometri fuori o anche pochi chilometri dentro casa, nell'ineffabile democratico capolavoro versagliese del corridoio polacco.

Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati Maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.

Nel numero precedente di questa rivista abbiamo del resto chiarito che questo proclamato disfattismo non è grande scandalo, avendolo tutti i nostri avversari, sia sedicenti rivoluzionari che borghesi autentici, in vari casi e luoghi decantato e applicato. Solo che in tutti questi casi il contenuto dialettico del disfattismo non è la conquista rivoluzionaria di un nuovo regime di classe, ma un semplice mutamento di stati maggiori politici nel quadro dell'ordine borghese vigente, e i disfattisti di tal tipo rischiano molte parole e poca pelle per il solo incentivo che un dato regime cadrà solo se sconfitto in guerra, e solo se cadrà si aprirà per essi uno spiraglio al successo personale ed a cariche di potere. Basta loro tanto poco - e sono poi gli stessi gentiluomini dei motivi patriottici nazionali liberi e democratici - per approvare che il paese e la sua popolazione nel senso materiale, e giusta la tecnica moderna di guerra, siano schiacciati da bombardamenti distruttivi e dilaniati da tutte le manifestazioni irreparabili dell'azione bellica e dell'occupazione militare.

Ciò ribadito una ennesima volta, vediamo che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell'America per cui si votano crediti militari immensi, si fanno riunioni di Stati Maggiori e si danno ordini di preparazione e dettami strategici a paesi stranieri e lontani. Potrebbe risultare la più nobile delle guerre sotto il profilo dei lodati argomenti letterari, potrebbe riuscire ad avere di contro figure più nere dei Cecco Beppe, dei Guglielmone, dei Beniti, degli Adolfi, dei Tojo, di un rinato con essi Nicola dalle mani goccianti sangue, essa non indurrebbe i marxisti rivoluzionari a dare parole di attenuazione della lotta antiborghese e antistatale, ovunque.

Ciò non toglie diritto ad analizzare questa guerra e a definirla come la più clamorosa impresa di aggressione di invasione di oppressione e di schiavizzamento di tutta la storia. Non si tratta solo di una guerra eventuale ed ipotetica poiché essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell'attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione dell'optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione dei lavoratori in qualunque paese.

Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della massima organazione capitalistica nel mondo - forse domani lo Stato unico Anglo-Americano di cui già si parla - con un compromesso attraverso il quale la organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni; e Stalin avrebbe già precisata la cifra in due miliardi di dollari.

Sta di fatto che le prepotenze di quei citati aggressori storici europei che si dannavano per una provincia o una città a tiro di cannone, fanno ridere di fronte alla improntitudine con cui si discute in pubblico - ed è facile arguire di che tipo saranno i piani segreti - se la incolumità di Nuova York e di San Francisco si difenderà sul Reno o sull'Elba, sulle Alpi o sui Pirenei. Lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della terra; è il punto di arrivo di un metodo cominciato con Esopo quando il lupo disse all'agnello che gli intorbidiva l'acqua pur bevendo a valle. Bianco nero e giallo, nessuno di noi può ingollare un sorso d'acqua senza intorbidire i cocktails serviti ai re della camorra plutocratica nei night-clubs degli Stati.

Quando i reggimenti americani sbarcarono la prima volta in Francia i tecnici militari risero e gli Stati Maggiori anglo-francesi pregarono di ridar loro subito i pochi tratti di fronte occidentale consegnati, se non si voleva vedere subito Guglielmo a Parigi. I boys, ubriachi allora ed oggi, avrebbero però ben potuto rispondere che c'era poco da sfottere, e vediamo oggi i sorci verdi di un militarismo che surclassa quelli della nostra storia plurimillenaria. Sono i soldi i capitali gli impianti produttivi che contano per fare la guerra; l'abilità militare e il coraggio sono merci in vendita sul mercato mondiale, ricchissimo di superfurbi e di superfessi.

Si vantarono fin da allora di una prima vittoria, arricciarono il naso per aver dovuto uscire, sulla scia degli inglesi, dal loro isolazionismo, si ritrassero dopo aver disegnata una Europa più assurda di quella che, se ce l'avessero fatta, avrebbero disegnata Tamerlano o Omar Pascià. Venti anni di pace erano quello che ci voleva per la preparazione, e la consacrazione alla Libertà super-statuata, di una superflotta una superaviazione e un superesercito. Al servizio della superaggressione.

Nell'intervallo i coloni del Far West si sono anche ripuliti in fatto di alfabeto e hanno perfino studiata la storia, senza rinunziare alla ineffabile comodità di essere senza storia. Al secondo sbarco in Normandia non si sa se Clark o un altro graduato, giunto alla tomba del generale francese che lottò per l'indipendenza americana, ha trovato la frase sensazionale: "Nous voici, Lafayette!". Ossia siamo venuti per ricambiare la finezza e liberare la Francia.

Ed infatti come a Mosca insegnano nei manuali di storia che Vladimiro Ulianoff detto Lenin chiese ed ottenne dallo Zar Nicola di poter formare un corpo di volontari per correre alla difesa della Manciuria contro i giapponesi, così insegneranno a Washington come il francese Lafayette, nella alleanza di tutte le forze democratiche mondiali capitanata dalla libera Inghilterra, combatté per liberare l'America del Nord, fino ad allora colonia oppressa dei tedeschi, che da allora in tutte le guerre mirano ad attaccarla e riconquistarla. Ed in una prossima edizione può darsi che i manuali yankee parlino addirittura di una lotta di emancipazione coloniale contro il conquistatore moscovita, le cui esose intenzioni di rivincita sono evidenti da quando cominciò col vendersi l'Alaska per poche libbre di oro.

Neanche nella seconda impresa le gesta militari sono state di prim'ordine, ma anche in fatto di bravura di guerra la quantità si trasforma in qualità. A proposito di Clark dicono che proprio in America gli negano la gloria della battaglia di Cassino. Avranno forse scoperto che non vi è mai stata una battaglia a Cassino, e non vi è mai stata una linea Gustavo, come possono attestare poche diecine di soldati tedeschi rimasti incolumi e varie centinaia di migliaia di italiani civili bombardati sanguinosamente per cinque mesi, fino a che non si trovarono da fare avanzare alcuni reparti di polacchi, di italiani e, nella direttrice Sessa-Ausonia, di marocchini che si occuparono di violare tutte le donne dai dieci ai settanta anni e qualche altro ancora, agganciando meno deutsche grenadiere di quanti banditi di Giuliano aggancino le forze romane di polizia.

Tra le grandi decisioni del sinedrio americano militare per i fatti di Europa c'è dunque il riarmo italiano. Strana la parte dell'Italia in tutto questo muoversi di colossi, dopo che negli ultimi decenni la potenza demografica non è più il primo fattore di forza militare.

Dopo essere stata nella Prima Guerra sulle soglie di almeno un grande tentativo di disfattismo rivoluzionario, nella Seconda il nostro paese ne ha vissuto in pieno uno di disfattismo borghese.

In sostanza nessuno ha scalzato alle spalle la guerra dei fascisti nel periodo delle fortunate imprese di guerra tedesche. Molti hanno disfattisticamente sperato, ma per fatto personale. Mussolini era tra loro e la voluttà del potere. Qui tutto. Non potevano scalzare alle spalle l'esercito di Benito e di Hitler, standosene alle spalle degli eserciti avversari.

Nell'autunno del 1942 si diffuse la notizia che le forze di sbarco americane, dopo le lunghe discussioni, e reciproche insidie, cogli alleati russi che giorno per giorno si svenavano senza misura sul secondo fronte, erano sulle coste del Marocco, con un chiaro itinerario: il Mediterraneo, la penisola italiana.

Erano tappe di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a Berlino? No, insensati allora plaudenti, diretta anche a Mosca. Per grandi specialisti della sensibilità al mutarsi della storia, siete in ritardo oggi nel gridare alla minaccia imperiale e all'aggressione. Sarebbe poco essere in ritardo, siete senza più fiato nella strozza, non potete più risuscitare e mandare in senso opposto i milioni di caduti di Stalingrado. Nessuno vi risponderà.

Quella notizia doveva bastare a prevedere il calvario che avrebbe traversato il paese italiano. A fini di classe, a fini di rivoluzione, il marxista attira sulla zona dove opera anche maggiori cataclismi. Ma qui si trattava di pura cecità. Aveva più senso storico la radio fascista che cantava una canzonetta di propaganda, per trarre acqua al proprio mulino sia pure, ma adatta oggi a passare nelle bocche degli alleati di ieri dell'America strapotente, dei tripudianti per il fallimento della classica contromossa militare italo-tedesca nella Tunisia, garantita in primo tempo alla Francia neutralizzata, contromossa giocata bene tecnicamente dall'ultimo esercito italiano da Scipione in poi (godiamo del fatto che non vi saranno più eserciti italiani senza altri aggettivi, più godremo quando eserciti non ve ne saranno con nessun aggettivo), ma che per lo strapotere dei mezzi accumulati sull'altra riva atlantica in tutta calma, mentre i cadaveri europei si ammonticchiavano davanti al Volga, non evitò la sanguinosa farsa del bagnasciuga.

Godevano del roseo futuro i patrioti, i nazionali, i popolari italiani.

Ma quale era la canzonetta, fascista ma non tanto scema? Ricordava che Colombo era italiano e diceva nel ritornello: "Colombo, Colombo, Colombo, chi te l'ha fatto fa'?".

Secondo una moda già invalsa, temo forte che Stalin dovrà far scoprire dagli storici di Mosca che Colombo era russo.

Da "Prometeo" n. 13 del 1949

 

PACIFISMO E COMUSNIMO

Ieri

Nella tradizione dei marxisti rivoluzionari è ben solida l' opposizione al nazionalismo ed al militarismo, ad ogni guerraiolismo basato sulla solidarietà operaia con lo Stato borghese in guerra per i famosi tre motivi truffaldini: la difesa contro l'aggressore - la liberazione dei popoli governati da Stati di altra nazionalità - la difesa della civiltà liberale e democratica.

Ma una non meno solida tradizione della dottrina e della lotta marxista è la opposizione al pacifismo, idea e programma poco definibile, ma che, quando non è maschera ipocrita dei preparatori di guerra, si presenta come la sciocca illusione che pregiudizialmente al definirsi e allo svolgersi dei contrasti sociali e delle lotte di classe si debba da opposte sponde di opinioni e di schieramenti classisti intendersi per l'obiettivo della «abolizione della guerra» della «pace universale».

I socialisti hanno sempre sostenuto che il capitalismo determina le guerre inevitabilmente tanto nella fase storica in cui la borghesia stabilisce il suo dominio costruendo gli Stati nazionali centralizzati, tanto in quella moderna imperialistica in cui si volge alla conquista dei continenti arretrati e i vari Stati storici gareggiano nel distribuirsene il dominio. Chi voglia abolire la guerra deve abolire il capitalismo e quindi se esistono dei pacifisti non socialisti bisogna considerarli come avversari, poiché siano essi in buona o mala fede (peggio in tutti questi problemi del nostro movimento e comportamento è il primo caso) ci indurrebbero a rallentare l'impianto classista della nostra azione e la lotta al capitalismo, senza arrivare all'obiettivo illusorio di un periodo capitalistico senza guerre, comunque obiettivo non nostro.

Ciò per dirla in breve: sarà tuttavia utile stabilire che l'analisi delle guerre tra gli Stati data dalla scuola marxista non si è mai ridotta (vedi Marx, Engels, Lenin) ad un semplicismo che dica che non vi sono sostanziali ripercussioni dell'andamento e dell'esito delle guerre sugli sviluppi e sulle possibilità del socialismo rivoluzionario, e se ci riferiamo alla modernissima fase attuale capitalistica l'analisi completa non ci conduce affatto a scartare la possibilità, dopo ulteriori svolgimenti, di un sistema capitalistico organizzato in tutto il mondo in un complesso unitario, stato soprastato o federazione che sia, capace di mantenere la pace dovunque. Questo appare sempre più oggi l'ideale dei gruppi superfilibustieri del capitale e dei loro mantenuti come i Truman i Churchill e giannizzeri minori. Non escludiamo questa eventualità della pace borghese che prima del 1914 era dipinta dai vari Norman Angel con colori di idillio, ma ammettendola la consideriamo una eventualità peggiore di quella del capitalismo generatore di guerre in serie fino al suo crollo finale; vediamo in essa l'espressione più controrivoluzionaria ed antiproletaria, quella, tutt'altro che sorprendente per la visione teoretica marxista, che maggiormente concentra al servizio della oppressione capitalistica, in una polizia mondiale di ferro a comando unico e col monopolio di tutti i mezzi di distruzione e di offesa, il mezzo di strozzare ogni ribellione degli sfruttati.

Il pacifismo come rinunzia generica all'impiego dei mezzi violenti da stato a stato, da popolo a popolo e da uomo a uomo, è una delle tante vuote ideologie senza fondamento storico di cui il marxismo ha fatto giustizia. Le dottrine della non resistenza al male, oltre ad essere irreali e senza esempi storici, non possono servire che a distruggere nel seno della classe operaia la preparazione a insorgere con l'uso della forza per rovesciare il regime borghese, che i marxisti non ammettono possa altrimenti cadere; sono dunque dottrine antirivoluzionarie.

Lo stesso cristianesimo, oggi mezzo precipuo di addormentamento degli oppressi e di accettazione della ingiustizia sociale col suo orrore della violenza, che ipocritamente impedisce a preti di tutte le chiese di benedire le guerre e le repressioni di polizia, come fatto storico fu fatto di lotta e perfino Cristo disse di non essere venuto a portare la pace ma la guerra.

La tesi poi che la guerra fosse inevitabile nelle società antiche e medioevali ma che una volta affermata ovunque la rivoluzione borghese e liberale sarebbe stato possibile dirimere i conflitti fra gli Stati con mezzi incruenti, è stata sempre considerata dai fondatori del marxismo come una delle più sporche e stolte apologie del sistema capitalistico. Carlo Marx che sempre dovette avere a che fare con questi ideologi sfiatati del civilismo borghese non tacque il suo infinito fastidio e finì col brandire la sua infallibile sferza sulle loro divagazioni, e nella rottura col falso rivoluzionarismo anarchico bakuniniano una delle ragioni di principio fu il bazzicare dei libertari con questi ambienti svizzeroidi e quacquerizzanti.

Tutta la possente campagna contro i socialpatrioti del 1914, che non sarà mai abbastanza richiamata e illustrata nel duro lavoro per ricondurre sulla via giusta il movimento proletario, li bollò al tempo stesso come rinnegati in quanto servi del militarismo, e in quanto servi del correlativo indirizzo borghese di solidarismo giuridico internazionale e ginevrista, in cui consisteva per Lenin la vera Internazionale capitalistica per la controrivoluzione.

Oggi

Alla vigilia di ogni guerra il reclutamento delle milizie si fa oggi con mezzi più complessi che nei secoli scorsi. Nelle società greco-romane combattevano i cittadini liberi e gli schiavi stavano a casa. In tempo feudale l'aristocrazia aveva come sua funzione la guerra e completava i suoi esercizi con volontari: volontario e mercenario è la stessa cosa, chi decide di sua iniziativa di fare il soldato impara l'arte e cerca un posto. La borghesia capitalistica introdusse la guerra per forza; pretendendo di avere dato a tutti la libertà civica abolì quella di non andare a farsi ammazzare, volle anzi che lo si facesse gratis o per la sola zuppa. Un vecchio melodramma cantava in tempo assolutista: vendé la libertà, si fé soldato. Il censore si allarmò della terribile parola libertà e la volle cambiata in lealtà. Comunque il nuovo regime borghese considerò la libertà personale cosa troppo nobile per pagarla, e se la prese senza mercede.

Lo Stato dispone oggi dunque e di mercenari e di volontari e di soldati coscritti, ma la guerra è divenuta un fatto così vasto che tutto questo non è ancora sufficiente. Gli effetti della guerra possono suscitare il malcontento di tutta la popolazione militare o meno e per frenarlo oltre alle varie gendarmerie del fronte esterno ed interno va impancata tutta una mobilitazione di propaganda a favore della guerra medesima, la colossale imbonitura di menzogne a cui la storia degli ultimi decenni ci fa assistere ad ondate, e che ha riabilitato tutti i tipi di raccontaballe che registra la vita dei popoli, dallo stregone della tribù all'augure romano al prete cattolico al candidato al parlamento.

Ora in questa preparazione al massacro, in questa fabbrica di entusiasmi per la carneficina generale, una personaggia notissima sta alla testa di tutta la macabra carnevalata, la grande Idea la nobile Causa della Pace, la candida colomba ridotta a spennacchiatissima segnorina.

Nella rigatteria dell'ideologismo borghese i capi traditori hanno condotto la classe operaia mondiale a tutto raccattare, e la hanno traviata dietro tutti questi fantocci consegnandola smarrita e passiva ai voleri dei suoi nemici di classe.

Le hanno data la parola di combattere per tutte le finalità proprie dei suoi oppressori, la hanno messa a disposizione per la patria per la nazione per la democrazia per il progresso per la civiltà per tutto fuorché per la rivoluzione socialista. Sono capaci di metterla a disposizione per tumulti per sommosse e per rivoluzioni, ma quando siano le rivoluzioni degli altri.

Allorché in Russia vi erano ancora da fare due rivoluzioni e secondo la veduta marxista non era possibile farne una sola, si dovettero combattere due tipi di opportunisti (gli stessi battuti da Marx nel '48 europeo): quelli che volevano innestare un economismo socialistoide al regime zarista e quelli che volevano servirsi degli operai per una rivoluzione borghese, sostenendo che occorreva lasciare poi lungamente vivere il regime capitalistico per una ulteriore evoluzione. Lenin scolpì la posizione rivoluzionaria in una frase semplicissima: la rivoluzione deve servire al proletariato non il proletariato alla rivoluzione. Cioè: noi non siamo qui per porre il movimento operaio che fa capo al nostro partito al servizio di richieste di rivendicazioni o anche di rivoluzioni di altre classi, ma vogliamo mandarlo alla lotta per gli obiettivi autonomi ed originali della nostra classe e di essa sola.

L'attuale movimento dei partiti detti comunisti non inquadra i lavoratori che per mandarli dietro tutti i fantocci della rigatteria borghese, per bruciarne le energie al servizio di tutti gli scopi non operai e non classisti.

Alla campagna per la democrazia e il liberalismo parlamentare e borghese minacciato dai fascismi, alla lotta per le vergognose parole del risorgimento nazionale, della nuova rivoluzione democratica, parole cento volte più insensate di quelle che si davano dagli antibolscevichi ai tempi dello Zar, segue ora una nuova e più ignobile fase di imbonimento mondiale: la battaglia colla parola del pacifismo.

Questo è un nuovo e maggiore capitolo del rinnegamento e della abiura del comunismo marxista. La crociata contro il capitalismo imperialista d'America e di Occidente sarebbe una parola proletaria, ma in tal caso - oltre a non potere essere data da chi gli ha steso i ponti di sbarco incassandone gli stipendi - si presenterebbe come una parola non di pace ma di guerra, guerra di classe, in tutti i paesi.

La campagna di pace e i congressi con invito a tutti i pensatori non comunisti, non solo sono maggior disfattismo della impostazione di classe del movimento operaio, che degnamente corona tutti gli altri, non solo sono un servizio di prim'ordine reso al capitalismo in generale, ma condurranno, come la grande crociata democratica svolta sconciamente dal 1941 al 1945, a rafforzare le grandi strutture statali atlantiche, che crolleranno solo quando il sistema borghese sarà preso di fronte svergognandone le menzognere bandiere di Libertà e di Pace per schiacciarlo dichiaratamente con la dittatura e la guerra di classe.

Da «Battaglia Comunista», n. 13 del 1949

 

 

UNITED STATES OF EUROPA

Al di là del sempre torbido orizzonte della tormentata Europa un miraggio è stato ripetutamente additato dagli ideologi di cui questa nobilissima antica terra è tanto feconda, quanto di avventurieri mercatori e capitani di industria e di guerra: la pacifica federazione dei tanti storici Stati, così vari e diversi nelle loro vicende e nelle loro strutture, in continuo conflitto da secoli, sotto il reggimento feudale come sotto quello borghese, nel clima del dispotismo come in quello della democrazia elettiva.

Stati Uniti di Europa! A più riprese è sembrata ai liberali di avanguardia, ai capi delle insurrezioni popolari e delle lotte di indipendenza nazionale, lungo tutto il troppo intelligente e troppo bellicoso diciannovesimo secolo, una gloriosa divisa.

Ma essa non ha mancato di suggestionare anche i capi della nuova classe operaia, moventesi nel campo marxista rivoluzionario, e basti l'esempio di un ingegno così possente come quello di Trotzky.

La via per cui si giunge a una tale rivendicazione è di tutta evidenza. L'internazionalismo della lotta proletaria, il suo continuo urtarsi, nella politica e nell'organizzazione socialista, con le difficoltà determinate dalle questioni nazionali e dalle guerre degli Stati; le devastazioni dell'opportunismo nella prima guerra generale del ventesimo secolo, che con la degenerazione patriottarda rovinarono il lungo cammino dei più grandi partiti socialisti, la certezza che la rivoluzione proletaria europea sarebbe rivoluzione mondiale, inducono ad una tale aspirazione storica, soprattutto fanno pensare che la consegna dell'Unità Europea sia tra quelle - se ve ne sono - atte a riportare le masse dai periodi di ripiegamento e d'incertezza sul piano e sul fronte della battaglia di classe.

Dinanzi a questi impulsi generosi per un ritorno nell'incendio dell'azione ed una spinta in avanti verso quei periodi di febbre sociale nei quali il presente si mostra pronto a plasticamente forgiarsi nell'avvenire lungamente atteso, sembrano piccola cosa i dubbi e le chiarificazioni, che di solito si imputano a semplicismo dottrinale.

Pensiamo noi marxisti, parlando di una federazione di Stati europei, ad una intesa, ad un organamento permanente tra gli attuali Stati nei quali la classe borghese tiene il potere? Ovvero consideriamo possibile una Europa unita soltanto nel senso che la classe operaia, dopo l'abbattimento del capitalismo nei singoli Stati, rinsalderà i suoi legami al disopra delle frontiere di nazione di razza e di lingua, per pervenire a cancellarle? Pensiamo noi possibile, eventualmente, un legame federativo fra Stati in cui domina la borghesia e Stati in cui il proletariato sia vincitore?

Queste sono questioni di prospettiva storica; e certamente Trotzky, come ogni marxista rivoluzionario, considerava che una federazione di Stati europei capitalistici avrebbe rappresentato, una volta attuata e se attuata, il centrale nemico contro cui il proletariato europeo avrebbe dovuto dirigere il suo sforzo rivoluzionario per strappargli il potere; che la rivoluzione europea socialista non potrebbe essere vincitrice, nel quadro di una Europa divisa in autonome potenze, se non quando il potere borghese fosse stato travolto in alcune almeno delle più avanzate e più grandi; che il potere rivoluzionario che si fosse attuato in un primo Stato o in una parte d'Europa non potrebbe tenere rapporti ed avere alleanze che con i partiti operai in lotta contro i governi degli Stati capitalistici senza assurde fasi storiche di convivenza.

Ma la ragione politica del lancio di una rivendicazione federalista è diversa, a detta dei fautori di simili indirizzi tattici.

I comunisti più coscienti, la minoranza di avanguardia tra i lavoratori, sono in grado di intendere che sulla costituzione dello Stato non deve aversi altro obiettivo che quello della dittatura proletaria, dopo lo spezzamento delle presenti macchine di potere; ma tale avanguardia non può lottare e vincere che trascinando nella lotta i più vasti strati delle classi lavoratrici, che i presenti regimi opprimono ed affamano e le guerre dilaniano spietatamente. Il grido per un'Europa non più avvelenata da odi nazionali e non più percorsa da armate alle quali i lavoratori militarizzati si massacrano agli ordini del capitale sarebbe tra quelli che spingono queste masse nel movimento, nel corso del quale la direttiva integrale comunista può guadagnare in settimane quello che non guadagnerebbe in decenni di stretto lavoro programmatico di partito.

Tale generoso scorcio di strategia rivoluzionaria, anche quando veniva da origini non sospette, traverso una serie di disastrose esperienze ha sempre dimostrato di cadere nel gioco delle insidie opportuniste, nella confusione tra le vere forze di classe e quelle equivoche che si accampano nelle frange di contatto tra il proletariato avanzato e la grande borghesia, nella conseguenza, completamente negativa, che sono stati proprio gli elementi più preparati e maturi nella teoria e nella milizia di partito a slittare verso la sostituzione al programma rivoluzionario di insidiosi miraggi piccolo borghesi, vuoti, addormentatori, disfattisti.

Una conferma di questa decisa critica alla troppo elastica strategia della lotta di classe, una ennesima conferma, è data dal fatto che quella fiammante parola degli Stati Uniti d'Europa cui, quando ancora gli Stati nazionali borghesi, saldi nel principio di illimitata sovranità autonoma, l'avrebbero accolta come dichiarazione di guerra alla morte, Trotzky dedicò pagine vigorose non certo imputabili di abbandono della dottrina, è oggi la parola storica di forze che sono al servizio più sfacciato dell'alto capitale e che si schierano, senza farne mistero, per le sue più vaste imprese dirette all'asservimento del mondo.

I marxisti non posseggono, per quanto ansiosamente attendano la tempesta sociale, ricette per muovere in ogni storica congiuntura le acque quando sono stagnanti.

Non hanno cambiato nei periodi di ristagno la teoria della immancabile tempesta rivoluzionaria, né Marx ed Engels tra il 1849 e il 1864, o dopo il 1872 fino alla loro morte, né Lenin tra il 1906 e il 1916. Le tempeste sociali sono tornate, come torneranno; e nel loro gonfiarsi sempre destano e generano i combattenti del comunismo, quanti e quali occorreranno per vincere, alla fine.

Nella classica impostazione marxistica il socialismo non paventava le eventualità di guerra, poiché non aveva mai condizionato alla costituzione di una pacifica internazionale borghese il porsi della esigenza storica di abbattere della borghesia il potere. La guerra, al Congresso di Basilea del 1912, fu considerata l'occasione non per una campagna pacifista umanitaria ma per la rivoluzione sociale. Il Manifesto aveva già detto che ogni partito proletario ha un compito nei limiti nazionali poiché tende anzitutto ad abbattere la propria borghesia. La guerra non solo non è motivo per concedere alla classe dominante una tregua interna, e tanto meno per passare al suo servizio contro lo Stato nemico, ma, come teorizzò Lenin, conduce per via tanto più diretta alla possibilità della rivoluzione, quanto più è rovinosa per la borghesia della nostra patria.

Il fatto che nei grandi paesi borghesi nella Prima e Seconda Guerra Mondiale queste direttive siano state clamorosamente infrante, e proletari socialisti e comunisti si siano divisi in Europa tra le due bandiere della guerra borghese, non trova il suo rimedio in federazioni internazionali ed europee, non lo trova nella campagna generica per scongiurare pericoli di ulteriori guerre.

Ciò contro cui si deve lottare, per ridare vita al movimento rivoluzionario internazionalista, è l'incatenamento delle masse, traverso il tradimento dei capi dei loro organismi di classe, alle campagne ideologiche e propagandistiche tendenti da ambo i lati dei fronti a popolarizzare gli scopi delle imprese militari delle borghesie nazionali. Ciò che importa è preparare partiti e masse a resistere nel momento decisivo alla ondata di smarrimento e di disgregazione che prende la forma precisa di un invito a sospendere le massime richieste rivoluzionarie, e sostituirvi traguardi intermedi presentati come storicamente attuali e di preminente importanza.

Importa dunque preparare il movimento alla certezza che nelle grandi guerre i poteri della borghesia non combattono per idee e principii generali, per fare avanzare di nuove tappe l'evoluzione sociale, per assicurare una forma più tollerabile e umana di capitalismo al posto di una deteriore.

L'origine e la causa delle guerre non sono in una crociata per principii generali e per conquiste sociali. Le grandi guerre moderne sono determinate dalle esigenze di classe della borghesia, sono l'indispensabile quadro in cui può attuarsi l'accumulazione iniziale e successiva del capitale moderno. Rileggiamo la drammatica apologia del nostro nemico, nel Manifesto: La borghesia lotta senza posa; dapprima contro l'aristocrazia, poi contro le parti di sé stessa i cui interessi contrastano al progresso dell'industria; sempre poi con le borghesie straniere! Rileggiamola nel Capitale: La scoperta delle contrade aurifere e argentifere dell'America, la decimazione e la schiavizzazione dei popoli indigeni sepolti nel lavoro delle miniere, le conquiste e le depredazioni nelle Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in una specie di parco commerciale per la caccia alle pelli nere, ecco gli idilliaci processi di accumulazione primitiva che segnano l'aurora dell'epoca capitalistica. Subito dopo scoppia la guerra mercantile; essa ha per teatro il mondo intero: cominciata con la rivolta dell'Olanda contro la Spagna, essa assume gigantesche proporzioni nella guerra antigiacobina dell'Inghilterra, si prolunga fino ai nostri giorni in spedizioni da pirati come le famose guerre dell'oppio contro la Cina.

A questo fondamentale periodo segue quello che finisce con una frase famosa: la violenza è la levatrice di ogni antica società, gravida di una società nuova. La violenza stessa è una potenza economica! I vari momenti dell'accumulazione primitiva si ripartiscono in su le prime, seguendo un ordine più o meno cronologico, in Portogallo, in Spagna, in Olanda, in Francia e in Inghilterra, fino a che quest'ultima nell'ultimo terzo del XVIII secolo li combina tutti in un complesso sistematico che comprende nello stesso tempo il regime coloniale, il credito pubblico, la finanza moderna ed il sistema protezionistico.

Questi capisaldi sono talmente essenziali che l'obiettivo centrale dell'assalto rivoluzionario è sempre stato, nella visione mondiale dei marxisti, il colosso britannico, modello primo universale della schiavitù capitalistica. Trotzky può essere stato tra i fautori della tesi: nei grandi conflitti della storia, che tutto incendiando antecedono tuttavia quello proprio del nostro programma, noi possiamo dover scegliere, restando dialetticamente noi stessi, una delle due posizioni. Ma indubbiamente accompagnò a questa un'altra tesi: giammai potremmo scegliere la parte dove sta l'Inghilterra! Il marxismo non è codificato in versetti; dove il suo fondatore scrisse nel 1867 Inghilterra dobbiamo nel 1949 leggere Stati Uniti d'America.

Non abbiamo sottolineato a caso l'espressione di Marx sulla guerra antigiacobina, definita squisito esempio della guerra mercantile capitalistica. Deboli traduzioni rendono con le parole: "contro la rivoluzione francese" il termine, non certo adoperato a caso, di Antijakobinerkrieg. L'argomento principe per le crociate borghesi di guerra, due volte contro la Germania, domani contro la Russia, adoperato contro la spiegazione imperialista e mercantile della guerra, sta infatti nel magnificare le vittoriose imprese della borghesia estremista e terrorista francese contro le coalizioni capitanate dall'Inghilterra, in cui tutto sarebbe stato sulla punta delle baionette dei sanculotti: filosofia, ideali, conquiste della nuova epoca di uguaglianza e di libertà umana.

L'intervento antifrancese dell'Inghilterra, che secondo la corrente banale impostazione avrebbe avuto come scopo la restaurazione di un regime sociale feudalistico contro la rivoluzione democratica, era invece un momento decisivo del cammino della accumulazione capitalistica, tendeva alla diffusione nell'Europa e nel mondo della economia industriale, del sistema borghese. E non era l'Inghilterra il primo nella storia dei regimi di potere borghese, non aveva data la prima rivoluzione e tagliata per prima la testa del re? Secondo il detto di Cromwell e poi di Elisabetta: "L'Inghilterra cammina con Dio". Secondo la dizione marxista, con l'Inghilterra cammina il dio moderno, il Capitale. E non continuarono le coalizioni contro Bonaparte, esecutore della rivoluzione borghese sul continente? E questa rivoluzione non dilagò sull'Europa, traverso le vittorie sulle coalizioni e la Santa Alleanza, come traverso la sconfitta finale di Napoleone e la Restaurazione in Francia?

Il metodo marxista legge la storia dopo aver spezzato i cristalli della menzogna idealistica, che capovolgono le immagini.

Ma vogliamo tornare più indietro di Marx, allo stesso autentico capo dei rivoluzionari giacobini e terroristi. Il 17 novembre 1793, alla Convenzione Nazionale, Robespierre, capo ormai del governo dopo l'esecuzione del re e la dispersione dei girondini, parla sulla politica internazionale della repubblica. Nessuno più di Robespierre fa magnifico abuso della retorica rivoluzionaria, e nelle sue tirate di obbligo ricorre ad ogni passo la fremente invocazione alla libertà contro i tiranni, alla virtù contro il delitto, alla patria, al popolo e agli altri miti dell'allora vergine pensiero borghese estremista. Ma il tessuto del discorso mostra la chiarezza di visione del grande capo politico sugli eventi contemporanei, ad un punto tale che gli squarci vibranti di passione e di eloquenza restano eclissati, e i mozzorecchi di oggi parlerebbero di una fredda politica realista.

Robespierre non apologizza la guerra estirpatrice del feudalesimo in Europa, tutt'altro. "Più che alla forza delle armi la propaganda delle idee della gloriosa nostra rivoluzione doveva essere affidata alla potenza della ragione". Le belle frasi sono orpello, ma il contenuto veramente dialettico della requisitoria contro i girondini, esitanti a giustiziare Capeto, sta nell'accusarli di provocazione guerrafondaia, di tradimento fatto colla insolenza diplomatica grossolana, in complicità coi moderati interni, per attirare la repubblica nella rovina, facendo intervenire nella lotta la Spagna, dichiarando intempestivamente la guerra agli stessi inglesi, disgustando i soli alleati di Parigi, gli americani. E impressionano l'assemblea e le tribune i fatti positivi categoricamente invocati a fissare tali responsabilità controrivoluzionarie.

L'Inghilterra non viene accusata dal fiero tribuno di essersi resa solidale con gli emigrati e di lottare per la rivincita della nobiltà e dei Borboni. Viene accusata proprio di finalità mercantili e imperialistiche, le stesse che avevano causato aspro dissidio con la Francia ben prima della caduta della monarchia; viene specificamente accusata del piano di rovesciare il re Luigi XVI per condurre sul trono di Francia il duca di York con l'appoggio del ramo di Orléans, del demagogo Philippe Egalité. "Questo piano doveva assicurare all'Inghilterra i tre grandi oggetti della sua ambizione e della sua gelosia: Tolone, Dunkerque e le nostre Colonie, Padrone così di questi importanti possedimenti, padrone del mare e della Francia, il Governo inglese avrebbe subito forzato l'America a ritornare sotto la sua dominazione".

Tutti ricordano che pochi anni prima della Grande Rivoluzione, i coloni del Nord America si erano sottratti alla dominazione di Londra grazie all'appoggio di generali francesi, e gli ammiragli del re Sole avevano spiegato in decisive vittorie la loro bandiera.

"è da segnalarsi che l'attuale gabinetto inglese ha condotto, in Francia e negli Stati Uniti, due intrighi paralleli, che tendevano allo stesso scopo; mentre cercava di separare il Mezzogiorno della Francia dal Nord, cospirava per staccare le province settentrionali dell'America dalle meridionali, ed ora, mentre si sforza di incitare al federalismo la nostra repubblica, lavora a Filadelfia a rompere i legami confederali che uniscono le varie parti della Repubblica Americana (segni di grande attenzione)".

Tra le apostrofi dell'oratore al ministro inglese Pitt, una è notevole: "Egli vuol conciliare il dispotismo con l'accrescimento della prosperità commerciale, come se il dispotismo non fosse il flagello del commercio".

Colui che i luoghi comuni dipingono come esempio di cieco e settario fanatismo, domina invece serenamente la materia della sua esposizione e legge chiaramente nei fatti, nel mandato ricevuto dalla storia di spianare, con la parola o con la ghigliottina, la via alle nuove prorompenti forze di produzione.

Si potrebbe in uno scorcio storico mostrare che tutti i grandi ordinatori di nuovi sistemi sociali, fin dai più antichi, furono marxisti. Nella forma dei grandi ideologismi popolari seppero tutti esprimere il contemporaneo prorompere di nuovi materiali rapporti imposti alla vita sociale.

Federazione Europea! Il principale difetto di questa formula è che essa sceglie a modello il regime dell'implacabile capitalismo di oltre Atlantico, beve fino alla feccia la leggenda imbecille che sia più umano e meno barbaro di quello europeo, attribuisce scioccamente tali illusori vantaggi alla forma federativa della costituzione. Per il determinismo economico è ben chiaro dove debba cercarsi la differenza nei cicli di origine del capitalismo di qua e di là dell'Oceano. Vi si ferma Marx più e più volte illustrando il processo di trapianto del sistema del salariato, mano mano che il periodo di occupazione delle terre vergini si chiude, e scompare il tipo del libero pioniere e colono. "La guerra civile americana (che possiamo ben dire vaticinata nell'illuminato bilancio robespierriano della situazione mondiale 1793) ha avuto per conseguenza un enorme debito nazionale, una aumentata pressione tributaria, la nascita della più vile aristocrazia finanziaria, la infeudazione di una gran parte delle terre pubbliche a società di speculatori che gestiscono le strade ferrate, le miniere; in una parola, il più rapido accentramento del capitale. La grande repubblica ha quindi cessato di essere la terra promessa dei lavoratori emigranti. La produzione capitalistica vi cammina a passi di gigante, specialmente negli Stati dell'Est, quantunque l'abbassamento dei salari e la servitù degli operai siano lungi ancora dall'avervi raggiunto il livello normale europeo".

La guerra civile americana, altra tappa dell'accumulazione del capitale, ha per la dialettica marxista una fondamentale importanza. Se ne deride l'interpretazione che lo schiavismo del Sud fosse più negriero dell'industrialismo del Nord Est; al tempo stesso vi si vede un deciso passo innanzi per la lotta di classe moderna e la emancipazione proletaria. Alla fine del periodo stagnante, nella prefazione del 1867, Marx scrive: "In quella maniera che la Guerra dell'Indipendenza Americana nel secolo XVIII suonò le campane a stormo per la classe media europea, lo ha fatto la Guerra Civile Americana del secolo XIX per la classe operaia in Europa". Si è molto lavorato ad intaccare la potenza delle previsioni marxiste: resta il fatto che nel 1871 per la prima volta in una grande capitale d'Europa sorgeva, per le armi della rivoluzione, il primo Stato operaio, annegato dalla reazione borghese in un mare di sangue.

Questa grande questione storica e sociale, per cui nulla vi è di più anti-marxista e di più filisteo delle smaccate e abusate apologie della civiltà statunitense, oggi largamente propalate da tutta una rete di prezzolati propagandisti, richiama l'altra del centralismo e federalismo, per cui Lenin disse nel 1917: al problema della repubblica federale, della repubblica accentrata e della autonomia locale, il nostro partito ha dedicato e dedica ancora un'attenzione insufficiente nella sua propaganda e nell'agitazione.

Come sempre la soluzione di Marx, di Engels, di Lenin splende di originalità ed è materiale indigerito al più dei socialisti da dozzina. Occorre premettere a tutto che le costituzioni sono per il marxismo sovrastrutture e non forze motrici del divenire sociale. "La rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione". Il compito di levatrice di una nuova società lo assegnammo alla violenza, non alla codificata giustizia.

Di questa dialettica si mostra ben impregnato lo stesso capo dei giacobini quando ingiuria l'idra federalista in Francia, e ammira la gloria degli illustri Comuni americani.

Centralista fu Robespierre e la sua Repubblica Una e Indivisibile; centralisti sono Marx ed Engels, e Lenin con loro, rivendicando l'aperto contrasto col federalismo sociale di Proudhon. Ma tanto a proposito dello Stato rivoluzionario borghese, quanto per lo Stato proletario futuro, si dimostra che l'oppressione e il soffocamento alla periferia, la negazione di ogni concetto di iniziativa locale, si attuano proprio nello Stato federale e non in quello centralizzato. La repubblica giacobina unitaria volle nel paese l'azione spontanea delle comuni rivoluzionarie locali, nelle quali però si organizzava la dittatura per la unità di classe della giovane borghesia vittoriosa, concorde nello schiacciare alla base ed al centro ogni resistenza degli odiati aristocratici. La Comune di Parigi non volle la dittatura della capitale sulla provincia, ma lottò in nome e nell'interesse dei lavoratori di tutta la Francia contro la borghesia proprietaria finanziaria industriale e militarista. Nelle forme mature degli Stati borghesi il federalismo è l'optimum della forma conservatrice della dittatura di classe contro la rivoluzione operaia. Lenin riporta l'analisi di Engels a proposito del sistema svizzero, americano e così via: lo Stato confederato o il governo cantonale sono in certo modo liberi rispetto al governo federale; ma sono anche liberi nei riguardi del distretto e del comune. Ciò significa che nei distretti e nei comuni locali manca ogni autonomia e vi è la dittatura burocratica del cantone o dello Stato confederato. La utilizzazione dell'uno o dell'altro sistema nei vari Stati della borghese classe dominante, dipende dalle variabili circostanze dello sviluppo. Ma sempre la formula federativa è una magnifica armatura per soffocare le mille spinte locali contro la forma istituzionale, tendenti alla potente unità nazionale e mondiale della rivoluzione di classe.

Perciò Lenin conclude che "la maggior libertà locale che abbia conosciuta la storia è stata data dalla repubblica accentrata e non dalla repubblica federale".

è suggestivo come l'antifederalista Robespierre veda questa stessa verità, prevedendo che coi piani di egemonia in Europa del governo inglese, quel popolo perderebbe la sua interna libertà. "Lo stesso progetto di mettere un principe inglese sul trono dei Borboni era un attentato contro la libertà del suo paese, perché un re d'Inghilterra, la cui famiglia regnasse anche in Francia e nell'Hannover, terrebbe nelle sue mani tutti i mezzi per asservire il suo popolo".

Esempi di questi sistemi federali, connessi al solido dispotismo interno di classe, con o senza costituzioni scritte, furono e sono: il sistema inglese dei Dominions; il rapporto Stati Uniti-America del Sud; la situazione, sotto altra fraseologia, della odierna sfera russa in Europa Orientale e Balcani. Nazisti, fascisti, giapponesi non avevano in campo internazionale diverso traguardo.

Il Movimento Federalista Europeo, coi suoi stupidi progetti interparlamentari, maschera della realtà di una organizzazione di guerra a comando extra-europeo, non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee, e al tempo stesso della interna dominazione sul proletariato americano, le cui vane illusioni di prosperità hanno per sicuro sbocco, nel volgere del ciclo storico, l'austerità che la più ipocrita delle borghesie fa inghiottire alla classe operaia d'Inghilterra.

L'armatura federale in Europa assicura nel modo migliore, col reclutamento di eserciti mercenari del capitale, di polizie di classe, che non potranno esservi più comuni rosse a Parigi, a Milano, a Bruxelles o a Monaco - come un sistema similare garantisce che non ve ne saranno a Varsavia, a Budapest o a Vienna.

La inversione dei giusti rapporti del centralismo rivoluzionario si è purtroppo verificata, infatti, nelle file del movimento di classe. La piramide della stretta unità, che non è soltanto unità di uomini e gruppi locali, ma di principii di metodi e di azione nel più lungo corso storico, è stata rovesciata ed infranta. I partiti, che bugiardamente si dicono comunisti, ostentano di essere ovunque partiti di politica nazionale, hanno disciolta la gloriosa Internazionale di Mosca del 1919, Partito Comunista d'Europa e del mondo, si dicono collegati in un equivoco ufficio di informazioni che non ha nessun carattere di organismo di partito, e fa mistero delle sue decisioni non per esigenze di tecnica insurrezionale, ma per sporco politicantismo federalista, per la comoda libertà di barattare in qualunque senso, a qualunque svolto, i principii i programmi e i metodi del movimento.

Per ciò stesso - e di questo tremendo problema la democrazia elettiva delle cariche non è che una insulsa caricatura - agli iscritti in quei partiti è stata tolta per sempre, rispetto ad una cricca di capi locali, ogni forza di vita e di iniziativa, chiudendo la sola via per la quale, affondate le radici nella generale realtà dell'oppressione sociale, sorge a fiammeggiante unità mondiale la Rivoluzione.

Da "Prometeo" n. 14 del 1950

 

 

TARTUFO O DEL PACIFISMO

Ieri

Negli scritti di Marx e di Engels gli strali contro il generico pacifismo borghese e i movimenti per evitare la guerra ricorrono incessanti.

Marx nel 1864 fu costretto a mettere negli statuti e nell'indirizzo inaugurale dell'Internazionale, che correvano il grave pericolo di essere redatti da Mazzini, le parole di morale civiltà e diritto, e la frase che le stesse norme giuridiche ed etiche che regolano i rapporti tra gli individui dovevano essere applicate ai rapporti tra i popoli. Non era né la prima né l'ultima volta che i marxisti si vedevano costretti nell'azione politica al maneggio di termini e proposizioni teoricamente scorrette. Marx lo spiega nel suo epistolario e dice che mise quelle vuote parole dove meno potevano nuocere. Stupirsi di questo come di una doppiezza significa appunto credere che davvero le regolette etiche possano valere qualcosa a indirizzare i rapporti tra gli uomini, nell'insieme o soli...

La prima articolazione del marxismo basta a far mettere tra i ferri vecchi il principio della «non violenza» attribuita da millenni a Cristo malgrado egli avesse detto: non son venuto a portare la pace ma la guerra! (ed era nel suo quadro storico una guerra contro oppressori sociali); e in tempo moderno rappresentato da Tolstoi e da Gandhi, le cui dottrine tuttavia confessano la certezza del sanguinoso scontro.

I pacifismi astratti, tra individui, tra classi, tra Stati, si equivalgono per il marxista, che pone al loro posto l'analisi storica della «teoria della forza».

Nella polemica contro Bakunin nel 1871 Marx ricorda le origini della sua organizzazione anarchica, chiamata con una confusione di termini molto simile a quella di oggi «Alleanza della Democrazia Socialista», dal seno dello spregevole movimento pacifistico borghese.

L'Alleanza «è di origine assolutamente borghese. Essa non è nata dall'Internazionale, ma è il rampollo della Lega della Pace e della Libertà, società nata morta dei repubblicani borghesi».

Bakunin, entrato in tale società, ne propose un «fronte unico» con la Internazionale dei Lavoratori, ma questa al Congresso di Bruxelles rigettò la proposta. Solo questo determinò la rottura tra i bakuninisti e la Lega borghese, cui seguì la rottura dei primi con i marxisti.

Non può aversi diversa opinione sul presente movimento dei «Partigiani della Pace» cui vanno ad aderire borghesucci e filistei che levati...

L'orrore marxista per il pacifismo letterario e demagogico è tale, che è stato, come andiamo mostrando, troppe volte sfruttato con falsificazioni abili dai socialguerrafondai. In tutte le edizioni dell'«Antidühring», fino al 1894, Engels nulla ha trovato da modificare alla sua confutazione della «non violenza» scritta nel 1878, dunque nel periodo successivo alla Comune. Non solo rinfaccia al Dühring di non avere una parola che ricordi il concetto marxista sulla violenza come levatrice di ogni società nuova, e di gemere perché «ogni uso di violenza avvilisce colui che la usa» - ma gli grida: «e questo, di fronte all'elevato slancio morale ed intellettuale che è stato il risultato di ogni rivoluzione vittoriosa».
E mostra di non pensare solo alle rivoluzioni, ma anche alle stesse guerre, con le parole, assonanti alla posizione che a fondo illustrammo, che testualmente riportiamo:
«E questo in Germania, dove una violenta collisione, che potrebbe anche essere imposta al popolo, avrebbe almeno il vantaggio di estirpare lo spirito servile che, a causa dell'avvilimento conseguente alla Guerra dei Trent'anni ha permeato la coscienza nazionale».

I signori opportunisti sono insuperabili nell'arte di falsare; preferiamo tuttavia che ci cucinino un Engels guerrafondaio invece che rimbambirlo a «partigiano della pace». Farebbe meno scandalo con l'aquila o la svastica, che con la sfruttatissima «colomba» o il ramoscello di ulivo.

Marx lo si dice oscuro, Engels è molto più comprensibile, attenti tuttavia che nessun vino, per quanto schietto, può essere bevuto come acqua fresca.

Troveremo in Lenin la chiarezza cristallina e la sistemazione di tutto il problema. Ciò tuttavia non toglie che anche di lui pretendano avvalersi i falsi predicatori, i chiercuti del politicantismo margniffone.

Lenin non può introdurre la spiegazione marxista dei rapporti tra socialismo e guerra, senza liberarsi in partenza dell'equivoco pacifista, e da questo problema muovono le classiche sue tesi del 1915, dirette a colpire di irreparabile infamia i socialisti guerraioli di tutti i paesi.
«I socialisti hanno sempre condannato le guerre tra i popoli, come cosa barbara e bestiale. Ma il nostro atteggiamento di fronte alla guerra è fondamentalmente diverso da quello dei pacifisti borghesi e degli anarchici».

La guerra è una cosa barbara e bestiale, sebbene le bestie e i barbari non abbiano mai offerto spettacoli comparabili a quelli della azione militare del nostro tempo capitalistico. Nella maggior parte dei casi gli animali, specie se non affamati e non disturbati, e così gli uomini primitivi, sono inoffensivi. Doveva venire la moderna e cristiana civiltà, per leggere sulla compiaciuta stampa filoamericana che in Corea funziona a meraviglia il «tritacarne», ossia la polverizzazione scientifica delle formazioni combattenti avversarie. Le bestie e i barbari vorranno scusare Lenin e noi. Artiglieri e avieri capitalistici tritano carne, a differenza di loro, dopo i pasti. Versano sangue dopo essersi dissetati con il whisky. Né il lynx né il cannibale li capirebbero.

Le diversità tra marxisti e pacifisti non sono le stesse nei riguardi della dottrina anarchica e di quella pacifista borghese. Gli anarchici ammettono come noi «pienamente la legittimità, il carattere progressivo e la necessità di guerre civili, delle guerre cioè della classe oppressa contro quella che opprime, degli schiavi contro i padroni di schiavi, dei servi della gleba contro i proprietari fondiari, degli operai salariati contro la borghesia».

Tuttavia, così gli anarchici, come i pacifisti borghesi si discostano da noi a proposito della guerra, in quanto noi «dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx riconosciamo la necessità dell'esame storico di ogni singola guerra nel suo carattere specifico». Qui Lenin vuol dire di ogni guerra non solo sociale, tra le classi, ma anche di ogni guerra nazionale, tra gli Stati. Le prime sono tutte comprese ed accettate dal marxismo, dalla parte della classe dominata e sfruttata, ed evidentemente nemmeno gli anarchici, di fronte a tali guerre, seguirebbero le parole di pace, conciliazione, disarmo, date da borghesi e traditori socialdemocratici. Ma quando si passa alla guerra tra gli Stati la cosa cambia. Mentre il borghese nazionalista e militarista avrà l'audacia di giustificare la guerra come mezzo di diffusione del suo sistema sociale, o come mezzo di conquista di spazi vitali per un paese che abbia poco spazio per i troppi uomini o i troppi capitali, o arriverà addirittura alla esaltazione della guerra come «igiene del mondo» - il borghese tartufeggiante, il piccolo borghese puritano, condannerà «qualunque guerra» in nome degli ideali della «pace universale» e del «disarmo», propugnerà la soluzione arbitrale delle questioni internazionali che sorgano tra Stati e Stati, costruirà cioè sul piano mondiale la stessa illusione che ha accreditata su quello politico col sistema parlamentare: nazioni eguali nel mondo, cittadini eguali nella nazione. Con questo geniale sistema, è chiaro che si aboliranno «tutte le guerre» come si aboliscono, da quando vi è lo sceriffo e la Corte suprema, tutte le cazzottate, e le fregature... Una tale porcheria, su per giù, contro cui Lenin ha scritto le più potenti pagine, diviene «la teoria leniniana-staliniana sulla eguaglianza delle nazioni!».

L'anarchico a sua volta, che ha fatta salva con noi la guerra civile, abolirà in ogni tempo e sotto ogni cielo la guerra tra gli Stati e la considererà, senza discriminazione, di effetto deleterio, per il solo fatto che ogni operazione militare comporta autorità totale e subordinazione di uomo ad uomo, e la sua veduta della emancipazione anche sul piano sociale lo porta a vedere il singolo liberato nella sua ideologia e nella sua «coscienza», prima che la macchina oppressiva e sfruttatrice sia intorno a lui ovunque spezzata. La decifrazione del divenire storico si riduce, anche per l'anarchico, all'essere per o all'essere contro. Egli è per la pace contro la guerra; tutto è fatto.

Diversamente da queste posizioni incomplete il marxista, come mostrammo trattando delle guerre nazionali nei vari periodi, ammette che «nella storia sono più volte avvenute guerre (ripetiamo: Lenin dice guerre di Stati) che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi ad ogni guerra, sono state progressive, che cioè sono state utili all'evoluzione dell'umanità contribuendo a distruggere istituzioni particolarmente nocive e reazionarie (per esempio l'autocrazia o la servitù della gleba) e i più barbari dispotismi (quello turco e quello russo)».

Lenin sulla soglia dell'esame marxista della guerra 1914, che condusse a stabilire che essa non era da nessun lato «guerra progressiva», ma puro conflitto tra sfruttatori imperialisti, sicché il dovere di tutti i socialisti era di lottare contro tutti i governi in tutti i paesi e in tempo di guerra, Lenin tiene a stabilire che questo dovere non sorgeva da un'astratta posizione di «condanna di ogni guerra», come è accessibile ad ideologi conservatori o libertari.

Ma vi è di più. Non solo noi ci differenziamo dai pacifisti borghesi perché essi negano l'impiego di armi nella lotta tra le classi sociali, e per la loro incapacità all'apprezzamento storico delle guerre, ma per un altro punto, sul quale Lenin mostra di pensare che anche gli anarchici siano con noi, così come su quello della guerra civile.

Ci divide dai pacifisti borghesi il nostro concetto dell'«inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell'interno di ogni paese», e della «impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo».

Questo passo, che noi per motivo di propedeutica abbiamo citato per ultimo, è il primo della tesi sul pacifismo, ed è il più importante.

Esso distrugge ogni possibile ospitalità nel marxismo-leninismo di movimenti che abbiano a finalità la soppressione della guerra, il disarmo, l'arbitrato o la eguaglianza giuridica tra le nazioni (Lega di Wilson, O.N.U. di Truman).

Il leninismo non dice ai poteri capitalistici: io vi impedirò di fare la guerra, o io vi colpirò se fate la guerra: esso dice loro, so bene che fino a quando non sarete rovesciati dal proletariato voi sarete, che lo vogliate o meno, trascinati in guerra, e di questa situazione di guerra io profitterò per intensificare la lotta ed abbattervi. Solo quando tale lotta sarà vittoriosa in tutti gli Stati, l'epoca delle guerre potrà finire.

Si tratta di una posizione generale. Il marxista non può essere pacifista o «antiguerrista» poiché ciò significa ammettere che si possa abolire la guerra prima della abolizione del capitalismo. Non basta dire che ciò sarebbe un errore teorico. Esso è un tradimento politico, poiché una simile illusione non facilita il convogliamento delle masse ad una lotta più vasta, bensì ne agevola l'asservimento, non solo al capitale, ma anche alla guerra stessa. Le masse proletarie guidate da cattivi marxisti, che si erano sempre detti pacifisti, hanno dovuto fare la guerra contro i tedeschi, perché i loro capi hanno detto che quelli soli minacciavano la pace, come la hanno dovuta fare contro i russi per lo stesso motivo: hanno marciato due volte e marceranno forse la terza, e dai campi opposti, a combattere una guerra «che dovrà mettere fine alle guerre».

Si tratta, diciamo, di una posizione generale. Il marxista non è pacifista, per ragioni identiche a quelle che non ne fanno, ad esempio un anticlericale: egli non vede la possibilità di una società di proprietà privata senza religione e senza chiese, ma vede finire chiese e credenze religiose per effetto della abolizione rivoluzionaria della proprietà.

L'ordinamento della schiavitù salariata vivrà tanto più a lungo quanto più a lungo i suoi complici faranno credere che, senza sovvertirne le basi economiche, sia possibile renderlo immune da superstizioni religiose, o eliminarne la eventualità di guerre, e togliergli gli altri suoi caratteri retrivi, o brutali.

Nel periodo in cui era evidente che le guerre di sistemazione nazionale erano finite, la borghesia si tutelò largamente dalla radicale azione proletaria di classe con i movimenti di «partigiani del libero pensiero» che dilagarono alla fine del secolo. Successivamente, nel periodo delle guerre imperialistiche, si tutelò coi movimenti ibridi di «partigiani della difesa nazionale» e oggi di «partigiani della pace».

Sostituire, dinanzi all'avvicinarsi di nuove guerre, al criterio dialettico di Marx e Lenin - tanto nella dottrina che nell'agitazione politica - lo sfruttamento plateale dell'ingenuità delle masse nei riguardi della santità della Pace e della Difesa, non è altro che lavorare per l'opportunismo e il tradimento, contro i quali Lenin si dette a costruire la nuova Internazionale rivoluzionaria super hanc petram; su questa pietra: capitalismo e pace sono incompatibili.

Dedichiamo ai pacifisti di oggi una lapidaria tesi del Terzo Congresso (33.ma, sulla «Situazione internazionale e i compiti dell'Internazionale Comunista»): «Il pacifismo umanitario antirivoluzionario è in fondo un ausiliario del militarismo».

Oggi

Stalin, nella sua recente intervista, ha fatto largo impiego dei concetti di pace, di guerra di difesa, e di guerra giusta.

Quando le due parti si dicono reciprocamente: le vostre affermazioni sono di natura puramente propagandistica; e quando queste affermazioni sono formalmente le stesse, la discussione è in un vicolo cieco. Attlee ha accusato il governo russo di aver iniziato preparativi di guerra nel periodo in cui i suoi alleati di Occidente, vinta la Germania e il Giappone, avevano completamente smobilitato; e da ciò vuole trarre la prova che la Russia vuole provocare una guerra. Stalin risponde che il governo russo smobilitò a sua volta dopo il 1945, e che il fatto che Attlee mentisca su tale punto prova che sono gli occidentali ad ingannare i loro popoli per trascinarli «nella nuova guerra mondiale preparata dai circoli dirigenti degli Stati Uniti d'America».

I termini sono categorici e gravi, dato che non parla un secchio qualunque. Nessuno, in tutto il pianeta, sta in un osservatorio da cui si possa misurare se si sta armando di più, e da prima, in Russia e paesi annessi o in America e aggregati atlantici. Ma un tale risultato non sposterebbe la questione. Dal momento che un qualunque governo, di qualunque tipo, a torto o a ragione, considera un conflitto altamente probabile se non certo, esso può bene condurre una politica con il doppio obiettivo di evitare o rinviare lo scoppio delle ostilità; e di arrivarvi più preparato. La intensità e il tempo delle misure di preparazione militare, prima che in ragione della «volontà aggressiva», che non significa nulla, sono in ragione della attrezzatura produttiva e degli interessi che in questa desta il lavoro di guerra. Chi ha meno attrezzatura produttiva di industrie e di comunicazioni, e meno riserve di prodotti, ha un molto maggiore «tempo di preparazione» e quindi, anche se fosse un convinto «difesista» e un «pacifista» a tutta prova, comincia prima, se non è fesso. Supponiamo provato che la Russia abbia smobilitato più lentamente, e ripresa prima la preparazione militare; con ciò non sarà provata l'innocenza di quei «circoli» americani che Stalin mette sotto formale accusa, aprendo un processo per noi già da anni giudicato.

Il capo del governo sovietico ha voluto dare argomenti non propagandistici ma «scientifici»; i suoi avversari non hanno molto raccolto tale sfida. La Russia, Stalin afferma, non solo destina centinaia di miliardi (in lire, diecine di migliaia di miliardi) alla ricostruzione dei territori distrutti dai tedeschi, e diecine di miliardi ad opere colossali come le nuove centrali idroelettriche sul Volga e l'Amu Daria, ma pratica la riduzione dei prezzi interni di consumo che, se effettiva, significa da un lato migliore tenore di vita, dall'altro minore accumulazione per opere nuove e minore spesa nella macchina amministrativa. Se al tempo stesso esaltasse le spese per l'industria bellica e l'esercito
«non potrebbe non correre il rischio di una bancarotta».

L'argomento è forte, ma comporta il quesito: che cosa vuol dire la bancarotta in un'economia socialista? Non potrebbe voler dire che caduta dei lavoratori nella estenuazione per poco cibo e troppo sforzo. Ma bancarotta vuol dire incapacità dello Stato a saldare il suo debito, e ha senso in regime di capitalismo nazionale: la proprietà pubblica cade preda dei capitalisti privati, esteri se non interni. Nella parola detta da Stalin, non deve credersi a caso, è contenuta una prospettiva di compromesso (un'offerta vorrebbe dire meno, l'offerta come l'intenzione, la volontà, o la manovra pesano poco al saggio del marxismo). L'imperialismo occidentale, che per minori danni alla sua attrezzatura, miglior tenore di vita medio, maggiori riserve, controllo di fonti di materie prime e di reti di comunicazioni mondiali (non mettiamo troppo in conto il miglior grado di scienza e di tecnica applicata), può maggiormente accumulare ed investire, potrebbe aprire un credito internazionale al governo russo, con gli stessi impegni che dovrebbe destinare alla guerra.

Chi pesa la ipotesi di bancarotta, si considera esposto alle oscillazioni di un mercato, di una borsa comune al suo contraddittore, al suo concorrente.

Dove dalla scienza economica si ricade nella agitazione, che secondo noi non solo non è più agitazione rivoluzionaria e di classe, ma è agitazione di scarso frutto anche sul piano della competizione nazionale, è quando si assicura la vittoria alle truppe che sentiranno di battersi per la causa giusta. Un conto è dire che per i marxisti vi sono guerre giustificate, un conto è echeggiare il motivo borghese «la causa giusta vince sempre». L'esempio della lotta in Corea non calza, oggi che i rossi indietreggiano. I soldati americani considerano quella guerra ingiusta? Stalin, per sua fortuna, non avrà mai avuto tra i piedi i soldati americani, animali extrafilosofici per eccellenza. Che si direbbe allora dei soldati tedeschi, che hanno combattuto fino all'ultimo in condizioni schiaccianti di inferiorità, con un rendimento militare massimo al mondo?

Le guerre di oggi non sono vinte né dalla convinzione né dal fanatismo. La importanza del fattore politico nell'opportunismo di guerra, che Lenin staffilò, non sta nel fatto che i soldati dei vari eserciti avessero davvero bevuto l'innocentismo pacifista e difesista dei loro governanti e generali; stette nel fatto che una forza che poteva tagliare i garretti agli Stati Maggiori alle spalle del fronte, quella delle organizzazioni proletarie, fu dai capi affittata alla guerra, e quanto meno essa stessa sabotata. Il soldato, se potesse seguire la sua idea e convinzione, se ne tornerebbe a casa; se si trova in ballo nell'ingranaggio militare segue tanto più la macchina gerarchica quanto più la sente attrezzata decisa ed aggressiva.

Esattissimo è dire che l'O.N.U. è una organizzazione che agisce al servizio degli aggressori americani. Ma il marxismo è stato buttato via quando si è ammesso che l'O.N.U. stessa potesse essere «baluardo e salvaguardia della pace», e solo dopo fondata sia divenuta uno strumento per scatenare una nuova guerra mondiale.

Sapevamo già alla data 1919 (Primo Congresso di Mosca) che
«la propaganda per la Società della Nazioni è il mezzo migliore per confondere la coscienza rivoluzionaria della classe operaia».
Con la tardiva scoperta di oggi, si ammette di avere consumata una tale colpa, di avere, con le parole di quello stesso testo, lanciato
«in luogo della parola d'ordine di un'Internazionale delle repubbliche operaie rivoluzionarie, quella di un'associazione internazionale di pretese democrazie, che dovrebb'essere raggiunta mediante una coalizione del proletariato con le classi borghesi».
Anche qui, era Lenin che scriveva, incitando alla lotta contro l'idea della Società delle Nazioni,
«associazione di rapina, sfruttamento e controrivoluzione imperialista».

Si trattava di ben altro che di dare nell'O.N.U. il voto alla Cina, o toglierlo alla Repubblica Dominicana.

La politica staliniana è combattuta dai marxisti di sinistra proprio in quanto ha distrutto e distrugge le sole energie che potrebbero minare e battere la potenza imperialista e militarista: quelle di classe.

Tale posizione sta agli antipodi di quella di tutti i comunisti e socialisti di destra che si lasciano trascinare verso la tesi che l'America è pacifica e l'Unione Sovietica bellicista. È inutile cavarsela col dire a questi transfughi che sono pagati dal capitalismo atlantico: è certo che per un simile bel risultato sono stati spesi più rubli che dollari.

Il cardine di una posizione marxista sulla congiuntura attuale non può essere che questo.

La campagna sulla salvaguardia della pace e contro i provocatori della guerra non ha, da nessuna parte, alcun serio contenuto.

Solo fatto provocatore di guerra è l'esistenza e la tolleranza del regime capitalistico.

Il governo russo presente non ha evidentemente interesse, volontà od intenzione di fare una guerra di attacco.

Il governo americano si prepara alla guerra come alternativa alla marcia verso il controllo capitalistico di tutta l'economia mondiale, pronto tuttavia ad acquistarlo con una transazione diplomatica, o societaria, che apre egualmente prospettive immense alla superindustria e alla superfinanza e può essere meno costosa della guerra vinta.

Ove la guerra generale scoppiasse per forza di eventi, o comunque per provocazione americana, e magari per provocazione russa (dato che novantanove cervelli umani su cento hanno bisogno di sapere dov'è l'aggressore), la cosa al tempo stesso meno probabile e più desiderabile è lo sfasciamento del centro statale e militare americano, per rivoluzione interna o per rovescio militare.

La più probabile alternativa opposta conduce allo stesso punto che una «salvezza della pace», e avvia al fermentare di nuove conflagrazioni intercapitaliste, se il movimento autonomo e rivoluzionario di classe non riesce a risorgere.

A queste poco facilmente scrutabili prospettive di un avvenire tempestoso, non cambia proprio nulla il dettaglio che un governo italiano stia di qua o di là, che il suolo italiano abbia ad essere calpestato, per affitto o per invasione, da forze armate di oriente o di occidente.

Da «Battaglia Comunista», n.6 del 1951

 

 

POLITICA EUROPA DEGLI USA

Ieri

Anche nella guerra 1914-18 gli Stati Uniti intervennero a metà dopo essere rimasti a lungo spettatori. Abbandonavano la cosiddetta dottrina di Monroe, che stabiliva il disinteressamento dagli affari di Europa e la rivendicazione che l'Europa rinunziasse ad ogni pretesa di controlli sul continente nuovo. Questa uscita dall'isolazionismo ricordava quella dell'Inghilterra, primo paese del capitalismo moderno e primo presidio mondiale fino ad allora del regime borghese. Ostentando una organizzazione interna modello ipocrita di libertà e di prassi democratica, non tenendo esercito permanente, sforzandosi intanto attraverso lo sfruttamento imperiale del mondo di realizzare la collaborazione di classe col proletariato della madrepatria traverso concezioni riformiste, la Gran Bretagna teneva in armi la prima flotta del mondo e aveva a volta a volta debellato gli imperi di oltremare di Spagnoli, Portoghesi, Olandesi, saccheggiando il pianeta. Vigile nei conflitti europei interveniva a tempo per abbattere le temute egemonie politiche e militari che avrebbero potuto concorrere troppo nello sfruttamento del mondo.

L'isolamento dell'America si è andato rivelando non meno intessuto di pretese ipocrite a fare da modello al mondo. Un capitalismo non meno spietato e crudele nella sua origine e nel suo sviluppo di quello inglese ha preteso di ammaestrare l'umanità con dottrine pietistiche e con mentiti esempi di prosperità, tolleranza e generosità.

Alla fine della guerra uno dei tipi più odiosi di falsi bacchettoni e di predicatori lavativi che la storia abbia annoverato, il famigerato Woodrow Wilson, forte dell'aiuto economico e militare dato ai suoi alleati, ostentò di voler riordinare la vecchia Europa secondo nuovi principii ed impose quei capolavori del regime borghese mondiale che furono il trattato di Versailles e la Società delle Nazioni.

Nelle file del movimento socialista del tempo naturalmente le correnti opportuniste andarono in sollucchero a questa versione ignobile della oppressione capitalista, e perfino nelle file del partito italiano fortemente restio alle seduzioni della «guerra democratica» non mancarono quelli che, dopo l'intervento americano, e anche dopo la prima rivoluzione russa del febbraio 1917 in cui vedevano un mero sviluppo democratico borghese e patriottico, parlarono di rivedere le posizioni nel senso di buttarsi nella ridicola crociata contro il militarismo teutonico.

Reagirono le correnti rivoluzionarie, che avevano sempre ravvisato i centri di più alto potenziale di classe del capitalismo e del militarismo imperialista nella Francia prima, nell'Inghilterra poi e vedevano sorgere nell'America la nuova centrale del supercapitalismo; lo sviluppo della rivoluzione russa fu ben altro da quello pensato dai socialdemocratici e socialpatrioti di tutti i paesi; il nuovo movimento di sinistra dichiarò diretti avversari della causa proletaria e rivoluzionaria in prima linea Wilson e quella sua Ginevra, da cui, a perfezionare la quacqueristica ipocrisia del metodo, l'America stava fuori.

Oggi

Anche nella Seconda Guerra Mondiale l'America è intervenuta a mezzo. Anche in questa la nota centrale della propaganda è stata la provocazione tedesca e la difesa degli aggrediti. Noi marxisti non abbiamo mai creduto alla distinzione tra guerre di difesa e di aggressione, ben diversa essendo la nostra valutazione delle causali. La nuova guerra derivò in modo diretto oltre che dalle leggi proprie del regime sociale attuale, dall'ordinamento del mondo e dalla situazione della Germania imposta a Versailles, col ribadire i grandi monopoli coloniali dei centri ultra imperialistici.

Contingentemente, come l'Inghilterra aveva finito di intervenire nella Prima Guerra dopo aver lavorato per distruggere con essa la minaccia tedesca, così tutta la politica dello Stato borghese americano tra le due guerre è stata una diretta continua preparazione ad una lotta di espansionismo a carico dell'Europa.

Il condimento di menzogne umanitarie e democratiche è stato impiegato su scala ancora maggiore, ed ha fiancheggiato l'allestimento economico industriale e militare le cui tappe si schierano in venti anni di storia.

La progressiva diminutio capitis della Gran Bretagna - sulla reazione della quale invano calcolò Hitler sottovalutando le determinazioni degli interessi di classe - cominciò ad essere sancita dal trattato di Washington 1930 in cui dalla formula di una flotta inglese pari alla somma delle altre due più forti del mondo, si passò a quella della parità tra marina inglese e americana tenendo indietro Francia e Giappone. Hitler non vi era ancora, né poteva essere Mussolini a far paura.

L'interventismo economico politico e militare nei fatti del mondo - e quale espressione esatta va sostituita a quella di aggressione se non l'interventismo? - evidente in pratica ovunque, viene ancor più apertamente dichiarato nel messaggio di Truman.

Esso si basa sulle solite premesse filantropiche degne del quadro bigotto e conformista dell'investitura presidenziale a base di Bibbie e Padreterni, e sulle solite estensioni degli immortali principii della democrazia borghese alle esigenze economiche, promettendo i magnati dell'alto capitalismo pane agli affamati e addirittura un condimento di abbondanza - tipo american prosperity? - al piatto ormai rancido della libertà politica ed ideologica.

Il punto notevole è il diretto disperato attacco al comunismo ossia alla esigenza di una economia anticapitalistica che urge sul mondo, tenuto ben distinto da un attacco alla Russia, a cui si dice anzi che potrà appartenere ad una combinazione mondiale anche se le sue tradizioni storiche sono di potenza imperialistica.

Truman con Stalin vuole trattare, ma non transigerà col comunismo. La situazione non potrebbe essere più chiara. Tra gli altri portavoce il vecchio Cachin ha risposto che tra il regime russo e i regimi capitalistici vi può essere collaborazione.

Dove non vi può essere collaborazione è tra i grandi centri mondiali del super capitalismo e il movimento del proletariato rivoluzionario. E questo che temono i Truman, più che la guerra.

Se per Truman il nemico numero uno è il comunismo e se egli ne combatte di urgenza la «filosofia» in un momento in cui i suoi schieramenti di classe e rivoluzionari non paiono evidenti, tanto ci è di conforto. Non è forse lontano il giorno in cui potenti strati del proletariato mondiale capiranno che il nemico numero uno è Truman, non la persona del funzionario ignoto fino a che non morì Roosevelt, non quella faccia da parroco di paese colle mani su due Bibbie e il sorriso melato, ma la bestiale forza del capitalismo oppressore oggi concentrata nella formidabile impalcatura di investimenti economici e di armamenti organizzata oltre Oceano.

Per capire tanto e per schierarsi in guerra di classe il proletariato deve però intendere un'altra cosa, che un simile rapporto di cose e di forze non si è costruito in due anni ma in cento, e che come al tempo di Lenin spinse nel letamaio i capi rinnegati che inneggiarono all'aiuto di guerra di Wilson, lo stesso deve fare con quelli che nella Seconda Guerra apologizzarono in modo sconcio e traditore l'aiuto di Roosevelt-Truman, e ne stettero al servizio.

Source: «Battaglia Comunista», n. 4 del 1949

 

IL MITO DELL'EUROPA UNITA

Nel frastuono delle esplosioni della guerra (e della «pace») d'Algeria, il tam-tam della stampa ufficiale sulle riunioni e sottoriunioni per il Mercato Comune Europeo, suona terribilmente falso. La perdita delle colonie e l'ascesa delle potenze americana e russa hanno segnato irrimediabilmente il declino dell'Europa, culla del primo capitalismo; di qui la necessità di trovare una «soluzione» nuova per un ulteriore periodo di grandezza: il Mercato Comune. L'Europa, giungla dei nazionalismi e arena delle guerre mondiali, pretende così di seppellire il passato e costruire pacificamente una vasta unità economica in grado di compensare la perdita degli imperi coloniali e di raggiungere, o meglio superare, le grandi potenze.

È questo, senza dubbio, un balsamo per il cuore dell'eterna vittima di tutte le grandi crisi, la piccola borghesia, che qua la guerra algerina spinge nelle prime file o dell'O.A.S. o della «gauche», e là è minacciata dal grande capitale nella piccola e media industria, nell'artigianato, nell'agricoltura e nel commercio: eppure, il Mercato Comune è un nuovo colpo inferto proprio ad essa.

In realtà, la grande morale del Mercato Comune è la riscoperta dei benefici di una concorrenza «vera» e «leale», in cui ciascuno abbia le stesse possibilità di riuscita, dalla grande alla piccola borghesia, dagli immensi trust al piccolo artigianato o bottegaio: ma come in ogni morale, non si accede senza dolori al paradiso: il comandamento è «investire di più e produrre ancora di più», per trovarsi «in posizione favorevole» prima dell'«inevitabile» abbattimento delle frontiere. Proprio in questo noi vediamo le necessità inesorabili dello sviluppo capitalistico, contrabbandate sotto l'etichetta di «Europa Unita». Se la vecchia Europa celebra oggi una seconda giovinezza (dal 1945, i tassi di incremento della sua produzione sono saliti al livello di quelli di un capitalismo giovane) è perché essa ha superato la crisi di sovrapproduzione grazie alle immense distruzioni della guerra e gode di un breve periodo di euforico sviluppo. Ma il proletariato, che i partiti operai rinnegati incitano a rimboccarsi le maniche senza porre rivendicazioni di sorta, sa che tutto ciò significa accumulazione forsennata di capitale sulla sua pelle.

Per noi le classi sociali sono legate a una certa forma di produzione e, a meno di una rivoluzione politica e sociale, la loro natura non cambia. La borghesia, come la definisce il Il Manifesto è caratterizzata da una lotta incessante condotta prima contro l'aristocrazia, poi contro i partiti che si oppongono ai progressi della sua industria, sempre contro le borghesie straniere. La rivoluzione borghese crea quell'unità di produzione che è la nazione, e attraverso gli scambi mercantili la congiunge al mercato mondiale. Non occorre alcuna nozione nuova per constatare che lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo e la marcia irregolare dell'evoluzione storica delle grandi potenze fanno sì che la borghesia internazionale, sempre pronta a far blocco contro le forze rivoluzionarie, è d'altra parte essa stessa profondamente divisa da inguaribili rivalità. Per noi il Mercato Comune non è l'unione delle nazionalità europee, ma l'espressione - più acuta che mai - della rivalità fra le nazioni capitalistiche.

Teoricamente, la costruzione dell'Europa Unita si basa sul postulato che si può regolare la produzione con mezzi monetari. Ma basta enunciare il postulato per vederne l'inconsistenza: come si può creare un'unità di produzione superiore (l'Europa) limitandosi a costruire un mercato? La dinamica dell'economia capitalistica non è affatto determinata in tutti i suoi momenti dalla concorrenza tra imprenditori, che se mai ne è l'aspetto più immediato, o dalla lotta fra nazioni borghesi, in cui la difesa del profitto può cedere di fronte alla difesa degli interessi generali di ciascuna borghesia nazionale: le forze produttive creano nel corso del loro sviluppo storico determinati rapporti tra gli uomini, e la ricerca del profitto non corrisponde che ad uno degli stadi da esse raggiunto. La borghesia è quindi la rappresentazione fisica dei dominanti rapporti di produzione capitalistici, che esprimono lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Ma queste non possono fermarsi qui. Entro gli stessi rapporti capitalistici, esse crescono fino ad infrangere i limiti divenuti troppi angusti della nazione (l'impresa locale diviene così trust internazionale). Questa tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione, la cui soluzione reclama la rivoluzione sociale del proletariato, si compie, in assenza di quest'ultima, in antitesi al quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia. Questa perciò tenta di superare la contraddizione con i propri mezzi, che sono i molteplici accordi economici che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri): zone di libero scambio, Mercato Comune, accordi interamericani, consigli di cooperazione economica tira i paesi «socialisti», ecc. e mediante i quali il capitalismo cerca di regolare le produzioni creando legami tecnici e finanziari tra le diverse branche economiche. Ma è evidentemente a modo suo che realizza questo obiettivo, perché nell'atto stesso in cui il capitalismo, mediante la divisione internazionale del lavoro, super-industrializza una parte del globo, distrugge l'economia di intere regioni gettandole nella miseria e nella rovina.

Solo quest'analisi dialettica della economia capitalistica permette di comprendere la natura contraddittoria dell'odierna nazione borghese. Con la stipulazione di accordi economici e politici, l'antagonismo che oppone le une alle altre le nazioni borghesi, lungi dallo scomparire, rinasce con un'ampiezza mostruosa nei blocchi che oggi si affrontano.

L'Europa (e il mondo) non potranno dirsi veramente uniti che quando la rivoluzione proletaria avrà abbattuto gli stati nazionali e instaurato un potere proletario internazionale. In attesa di ciò, tutta la propaganda riformista e megalomane dell'Europa Unita si urterà contro i limiti e le contraddizioni di natura obiettiva del modo di produzione capitalistico, e non basteranno le solenni firme di ambasciatori e di ministri a superarle.

L'esperimento hitleriano

Hitler (a capo di una Germania già privata delle sue colonie) si era inebriato alla «grande idea» dell'Europa Unita, ma, contrariamente ai promotori europeisti del nuovo dopoguerra, si era servito del solo mezzo adeguato per realizzarla: la forza. Ciò che il prussiano Bismarck aveva fatto per la Germania divisa in cento staterelli, egli voleva farlo per l'Europa del trattato di Versailles.

L'Europa Unità è oggi una frase vuota, in un continente economicamente mutilato; anche in questo il tentativo hitleriano era più serio, perché tendeva all'unificazione di due settori complementari: l'Ovest in certi punti super-industrializzato (la Cecoslovacchia, l'Italia del nord, il Lussemburgo, il Belgio, i bacini della Lorena, della Saar e della Ruhr); l'Est, prevalentemente agricolo. È a questa integrazione che si oppongono oggi le gigantesche forze centripete dei nuovi colossi americano e russo, sorti dal fumo e dalle fiamme della seconda guerra mondiale. Clamorosamente fallito il tentativo tedesco, l'Europa è entrata in un definitivo declino. Ad Est, è sorta la potenza industriale russa che la guerra ha accresciuto a dismisura e che si è circondata di una cintura di «alleati» e di «satelliti» per formare un insieme unico di produzione e di consumo. È stata questa la risposta russa alla guerra europea scatenata dalla Germania nazista contro l'Est e che tendeva in definitiva a impedire la saldatura tra l'industria russa ed il mercato agricolo dell'Europa Orientale.

Ma tutta la storia di questo dopoguerra - continuazione e, se possibile, rafforzamento del dominio degli imperialismi - è il risultato della spartizione compiuta alla fine della guerra, che contiene già in nuce le cause e lo schieramento di forze per il terzo conflitto mondiale. Le convulsioni del mondo d'oggi non derivano dalla particolare politica di questo o di quel governo, ma da tutto lo sviluppo storico della politica mondiale. L'Europa ricostruita col ferro e col fuoco dagli «alleati» ha visto la Germania divisa in due, e la Germania divisa significa l'Europa e il mondo divisi. I patti militari, la NATO e il patto di Varsavia, lungi dall'aver costituito le cause di questa divisione, non sono stati che il velo giuridico di una situazione storica: l'occupazione militare da parte dei mastodontici stati americano e russo che, pur avendo interessi contrastanti su scala mondiale, sono sostanzialmente d'accordo sulla divisione dell'Europa e lottano entrambi per mantenere sotto tutela; all'ovest come ad est, gli altri Stati.

Ciò che vale per la NATO, vale dunque per l'anti-NATO russa. Le alleanze che avevano messo in moto le armate russe, giunte a Berlino e a Vienna nella primavera del 1945 durante il periodo dell'idillio russo-americano, sono state il punto di partenza del condominio americano e russo in Europa.

Il fatto che gli Stati d'Europa siano divisi dalle opposte coalizioni militari del Patto Atlantico e del Patto di Varsavia, prova che la sorte del vecchio continente è ormai nelle mani delle superpotenze che delle suddette alleanze costituiscono il centro motore: gli Stati Uniti e l'U.R.S.S.

L'esperimento inglese

La firma, il 17 marzo 1947, da parte del Belgio, della Francia, dell'Olanda, del Lussemburgo e del Regno Unito, del Trattato di Bruxelles, ovvero dell'Unione Europea ispirata dalla diplomazia britannica, rappresenta un altro tentativo delle vecchie potenze imperialiste e colonialiste dell'Europa Occidentale di conservare le antiche posizioni mondiali distrutte dalla guerra e di interporsi come «terza forza» fra i due mastodonti URSS e USA.

La Germania era ancora in rovine (e l'Inghilterra si affrettava ad approfittarne!); si era in piena guerra fredda, ed è da questa che poco dopo doveva nascere il blocco di Berlino-Ovest ordinato dai russi. Si assisteva così al teatrale carosello del «ponte aereo» organizzato dagli americani. Ma l'aiuto finanziario di Washington per ricostruire l'economia europea ebbe facilmente ragione delle velleità di unione europea. Le potenze firmatarie del trattato di Bruxelles passarono quindi dalla coalizione europea alla più vasta coalizione rappresentata dall'Alleanza Atlantica ed è chiaro che nello stesso tempo il centro di gravità dell'Alleanza si spostò da Londra, il «grande vincitore» europeo della guerra antitedesca, a Washington. Storicamente, non è azzardato affermare che la creazione della NATO significò l'abdicazione delle vecchie potenze occidentali di fronte agli USA e il declino dell'Europa come sede del dominio del mondo.

Oggi, il presidente Kennedy può ben dichiarare al Congresso americano: «Un'Europa occidentale integrata, unita in una associazione commerciale con ali Stati Uniti, farà pendere ancor più dalla parte della libertà la bilancia della potenza mondiale. È la più bella occasione che ci sia stata offerta, dopo il Piano Marshall, di dimostrare la vitalità del mondo libero».

L'esperienza dei «Sei»

Può sembrare tuttavia, col «rilancio dei Sei», che la decadenza non sia irreversibile e che l'Europa abbia ritrovato un nuovo vigore nella formidabile risalita dell'economia postbellica.

È ciò che può far credere la riduzione delle tariffe doganali realizzata per i prodotti industriali dal Mercato Comune. Ma la produzione industriale dei Sei è realmente venduta su un «mercato comune»? In altri termini, la formazione di un mercato comune dei Sei basta a garantire lo smercio della produzione?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo considerare il commercio estero della Comunità Economica Europea. Le esportazioni mondiali della C.E.E. in milioni di dollari U.S. sono le seguenti: 1938, 4,360 - 1948, 6.500 - 1950, 9.290 - 1951, 13.790 1952, 13.770 - 1953, 14.090 - 1954, 15.780 - 1955, 18.370 - 1956, 20.070 1957, 22.470 - 1958, 22.770 - 1959, 25.200. Durante lo stesso periodo, la percentuale degli scambi tra i Sei in rapporto al loro commercio mondiale è stata la seguente: 1938, 27,5 - 1948, 26,2 - 1950, 33,2 - 1951, 26,4 - 1952, 26,7 - 1953, 28,5 - 1954, 29,5 - 1955, 30,8 - 1956, 32 - 1957, 31,8 - 1958, 30,4 - 1959, 32,4. Grosso modo, i due terzi della produzione dei Sei sono dunque esportati al di fuori del Mercato Comune europeo.

Ne segue che, se ci si pone seriamente il problema di un Mercato Comune, bisogna cercarlo non nei paesi della C.E.E. ma altrove, cioè là dove sono smerciati i due terzi della loro produzione. Questa non è una tendenza apparsa dopo la firma del trattato di Roma; già molto prima, il vero terreno della concorrenza commerciale tra i Sei si trovava sul mercato mondiale!

La riduzione dei diritti doganali tra i Sei non ha dunque che un effetto modesto e tutta la pubblicità intorno ad essa non toglie nulla al fatto che il 70% delle transazioni internazionali dei Sei sfuggono alle clausole del Mercato Comune. Una Europa economicaménte indipendente non è che un'illusione, perché la sua esistenza è strettamente legata al mercato mondiale, e le correnti di scambio, aumentando continuamente in modo assoluto, non fanno che rendere più sensibile questo fenomeno.

Così, invece di possedere un'autarchia economica in grado di sottrarla alla pressione soffocante del mercato mondiale, l'Europa deve al contrario lottare per mantenere e migliorare le sue esportazioni fuori dai suoi confini e trova necessariamente sulla sua strada l'America e l'Inghilterra, e vi troverà sempre più l'U.R.S.S. Lo studio del commercio estero di questi tre settori è, a questo proposito, molto significativo, perché le loro rispettive esportazioni, lungi dal seguire una evoluzione unica, identica per i tre (U.S.A., Inghilterra e i Sei), mostrano al contrario disparità pronunciate. La tabella seguente, che raggruppa i principali dati del loro commercio estero (esportazioni), illustra le tendenze osservabili nel corso del periodo 1938-1959, Per ogni settore, la prima colonna dà la percentuale delle esportazioni in rapporto agli scambi mondiali; la seconda, la differenza di percentuale da un anno all'altro:

    CEE USA Regno Unito
Anni Commercio mondiale US$ mil. % export di commercio mondiale Differenza in % per anno % export di commercio mondiale Differenza in % per anno % export di commercio mondiale Differenza in % per anno
1938 21.100 20,7   14,5   11,5  
1948 53.600 12,1 -8,6 23,4 +8,9 11,7 +0,2
1950 56.300 16,5 +4,4 18 -5,4 11,3 -0,4
1951 76.100 18,1 +1,6 19,6 +1,6 9,4 -1,9
1952 73.000 18,9 +0,8 20,6 +1,0 9,8 +0,4
1953 74.100 19,0 +0,1 21,1 +0,5 9,6 -0,2
1954 76.900 20,6 +1,6 19,5 -1,6 9,6 0
1955 83.700 21,9 +1,3 18,5 -1,0 10,8 +1,2
1956 92.900 21,7 -0,2 20,4 -1,9 9,5 -1,3
1957 99.800 22,6 +0,9 20,8 +0,4 9,2 -0,3
1958 95.100 23,9 +1,3 18,6 -2,2 9,3 +0,1
1959 100.600 25,1 +1,2 17,3 -1,3 9,2 -0,1

Più che l'osservazione della tendenza delle esportazioni di ogni paese preso a sé, è particolarmente rivelatrice la combinazione dei tre.

Nel 1948, gli Stati Uniti occupavano il posto dell'Europa sui mercati tradizionalmente riforniti da quest'ultima, con un aumento di circa il 9% delle sue esportazioni corrispondente a una identica diminuzione in percentuale delle esportazioni dall'Europa. A quella data, l'Inghilterra manteneva faticosamente le posizioni d'anteguerra, che in seguito non doveva mai più migliorare. Nel 1954, l'Europa dei Sei raggiungeva gli U.S.A. e riprendéva le posizioni del 1938. La recessione americana del 1958, i cui effetti si fanno sentire ancor oggi, dava all'Europa, ringiovanita dalle distruzioni belliche, il modo di consolidare le sue posizioni sul mercato mondiale a detrimento degli Stati Uniti.

In nessun momento, dunque, gli antagonismi obiettivi sono scomparsi fra le nazioni del blocco occidentale. Non solo: mai il conflitto d'interessi fra l'America e la «Piccola Europa» è stato così aspro come oggi. A questo fatto non cambiano nulla le stupide fanfaronate dei piccoli borghesi che credono di vedere la potente America ammainar bandiera davanti a loro, e la orgogliosa Inghilterra venire a più miti consigli. È invece chiara la manovra dell'Europa Unita: i Sei vorrebbero giocare, di fronte ai colossi americano e russo, il ruolo della «terza forza», «garanzia di equilibrio, di pace e di sviluppo armonioso dell'umanità», mediante il «giusto riconoscimento del ruolo di guida che non avrebbero mai dovuto lasciarsi sfuggire». Ma ecco che, appena questo nobile progetto sta per germogliare, l'America rivendica la sua parte dopo che l'Inghilterra aveva posto la sua candidatura trascinando con sé il Commonwealth; e non è ancora finita...

Addio, dunque, sogni di restaurazione dell'Europa e delle sue glorie! «Ma che cosa importa», risponde l'ottimista incorreggibile, «se questo dev'essere il preludio a una intesa fra nazioni, a una cooperazione interstatale?».

Eccoci dunque tornati sul solido terreno delle rivalità imperialiste.

Come abbiamo detto, l'Europa approfitta momentaneamente dello sviluppo economico dovuto alle enormi distruzioni belliche per tentare le posizioni economiche perdute.

Questo dimostra, una volta di più, ciò che noi non abbiamo mai cessato di affermare: nell'epoca attuale dell'imperialismo, il capitalismo non può sopravvivere che grazie alle massicce distruzioni belliche; l'impulso alla produzione è tanto forte quanto più importanti sono state le distruzioni. In altre parole, il capitalismo, la cui ragion d'essere è una accumulazione accresciuta senza posa, deve sempre più ricorrere, per sopravvivere, a disaccumulazioni violente.

L'agricoltura, pietra d'inciampo dell'unità europea

Tanto una eccedenza di manufatti che si esportano costituisce un vantaggio per un moderno paese capitalista, tanto una produzione agricola eccedente è per esso una catastrofe, perché queste eccedenze sono molto più difficili da collocare all'estero. L'esempio della Francia colpisce per la sua chiarezza. Spinta dal ritmo di un'industrializzazione che impone e porta con sé un rammodernamento dell'agricoltura, essa si sforza di ridurre la popolazione rurale (oggi il 44% del totale della popolazione complessiva) e di convertirla in proletariato industriale. Ma un tale mutamento nelle strutture sociali tradizionali non può avvenire senza scosse. Le manifestazioni dei contadini francesi non sono che un episodio degli sconvolgimenti prodotti dalla sparizione dei piccoli e medi agricoltori. Infatti la conseguenza più importante consiste nella necessità per il capitalismo francese di sacrificare al proprio sviluppo il suo miglior alleato, la classe contadina, classe conservatrice per antonomasia, e questa sparizione si accompagna a un rafforzamento numerico della classe operaia. La borghesia francese si preoccupa di compiere questa conversione progressivamente, in modo «insensibile», senza intralciare lo sviluppo della sua industria. Si spiega cosi l'accanimento della Francia a Bruxelles, con l'intento non di far trionfare «l'idea europea», ma di proiettare all'estero le proprie difficoltà nazionali attraverso il canale pratico del Mercato Comune utilizzato in tutte le salse. Questo spiega a contrario l'attitudine «intransigente» della Germania, che non ha alcun desiderio di sostenere le spese dell'operazione e il cui deficit agricolo costituisce la miglior arma nella conquista dei mercati del Terzo Mondo. Il suo atteggiamento è tanto più fermo in quanto la Francia non gode più di un monopolio in Africa.

In queste condizioni hanno avuto luogo le trattative di Bruxelles in vista di un mercato agricolo comune dei Sei, le cui risoluzioni finali hanno solo aggiornato la soluzione del problema perché, nella realtà, gli interessi materiali delle nazioni si affrontano senza che si possano mettere in comune le disparità che il capitalismo stesso ha fatto nascere.

La posta sociale dell' «Europa unita»

La piccola borghesia dell'Europa occidentale, sebbene sia la madre di tutte le ideologie umanitarie, ha rosicchiato per lunghi decenni l'osso colonialista, scandalizzandosi del cinico modo di agire di avventurieri alla Cecil Rhodes, i proconsoli del capitalismo nelle colonie. Il capitolo del riformismo democratico e socialdemocratico che, nel corso dei decenni, ha conferito sicurezza e rispettabilità agli strati piccolo-borghesi, non sarebbe mai stato scritto senza l'espansione capitalistica nelle colonie. Ma oggi è chiaro che il moto d'indipendenza nelle colonie sta concludendo il suo ciclo, ed ecco tutta una tendenza del riformismo piccolo-borghese della Europa occidentale mettersi a sognare disperatamente un'Europa unita, che compensi, formando un solo, grande mercato, la terribile mutilazione che il capitalismo europeo ha subito con la perdita delle colonie.

L'esempio degli Stati Uniti d'America (la cui genesi è pure del tutto diversa) agisce allora sullo spirito dei «progressisti» con un irresistibile fascino. Scettica circa le possibilità d'integrazione politica europea, la grande borghesia capitalistica lascia che il nuovo «nazionalismo europeo» si sviluppi come la sola ideologia che possa conservare l'appoggio di tutto il settore della piccola borghesia e del proletariato che le umiliazioni e amputazioni subite dalle vecchie patrie avevano distolto dal tradizionale nazionalismo: in altri termini, come un momentaneo parafulmini contro l'ineluttabile evoluzione politica che toglierà ogni velo dalla società presente e ne renderà ben riconoscibile il volto.

La sola politica che sia all'altezza delle gigantesche forze di produzione moderne è l'internazionalismo proletario, perché solo il proletariato, strappando alle borghesie nazionali su scala mondiale il monopolio delle forze produttive, può liberare l'economia dalle contraddizioni nelle quali il capitalismo, per disgrazia di tutti, le imprigiona, e che crescono invece di attenuarsi man mano che la produzione e il mercato si estendono.

L'«europeismo», l'«atlantismo» - come d'altra parte l'«anti-atlantismo» russo - non sono se non effimeri sostituti borghesi dell'internazionalismo proletario, che tendono a nascondere dietro un velo «progressivo» alleanze concluse unicamente in vista di «soffocare in comune il socialismo in Europa» (e nel mondo!), come già constatava Lenin. Ma questo tentativo è storicamente votato all'insuccesso. L'Europa e gli altri continenti non potranno non unirsi quando il grande terremoto rivoluzionario avrà fatto crollare gli Stati nazionali, preparando il terreno alla dittatura mondiale del proletariato. Utopia? Solo dei rinnegati possono credere che i governi capitalistici condurranno il mondo di guerra in guerra fino alla consumazione dei secoli.

Giorno verrà in cui essi saranno impotenti di fronte al proletariato finalmente in piedi che, facendo giustizia di tutti i Mercati e anti-Mercato Comuni, sfornati dalla vile propaganda «progressista», spazzerà via da tutta la superficie del globo l'odioso e assassino mercantilismo della società borghese.

Da «Il Programma Comunista», 5 Giugno 1962, N. 11 & 12

 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista