Il maremoto nell’oceano Indiano: un disastro naturale o un crimine del capitalismo?

 

Il maremoto che ha devastato il Sud-Est asiatico sembra aver prodotto un afflato “umanitario” che coinvolge ed unifica tanto i partiti governativi, quanto quelli d’opposizione, tanto la stampa berlusconiana quanto quella ulivista, tanto le organizzazioni istituzionali, quanto quelle “non governative”. Tutti uniti ed affratellati dalla comune tensione ad andare in soccorso a quelle “sfortunate” popolazioni.  Infatti, ad ascoltare il coro in atto, la colpa di quanto accaduto sarebbe di un destino crudele e di una  natura matrigna che ha deciso di sfogare la sua furia cieca e distruttrice nelle regioni bagnate dall’oceano Indiano.

Le cose in realtà stanno in maniera assai diversa.  Il primo e vero responsabile del disastro abbattutosi sulle coste asiatiche non è da ricercarsi nello scatenamento “selvaggio e incontrollabile” della forza degli elementi, ma nell’azione di plurisecolare rapina e devastazione operata dal capitalismo occidentale ai danni di quei paesi. Esagerazioni? Vediamo un po’.

Su La Repubblica del 27 dicembre, in un’intervista relegata ben dopo le prime pagine,  il sismologo  Boschi tra l’altro dice: “Poiché gli tsusami sono particolarmente frequenti nel Pacifico, tra la California ed il Giappone c’è un filo diretto: un flusso continuo di informazioni fa sì che le due sponde dell’oceano siano sempre reciprocamente avvertite in tempo reale di ogni rischio. In Giappone inoltre esiste un sistema di emergenza particolarmente efficiente e sofisticato: arrivano ad alzare in pochissimo tempo uno sbarramento in grado di bloccare l’onda anomala fuori dai porti”.

Inoltre, sempre La Repubblica, tra le righe ci informa che il “Centro di allerta maremoti per il Pacifico” aveva registrato ampiamente per tempo la scossa tellurica, ma non è stato in grado di avvertire dell’incombente pericolo nessuna struttura dei paesi interessati per il semplice fatto che tali strutture in questi paesi non vi sono. Il motivo? Costano troppo e quindi possono permettersele solo nazioni ricche. E così, come conferma Charles McCreery (direttore della statunitense “Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica” di Honolulu), l’Australia e la marina militare USA sono state anticipatamente informate di quanto si stava preparando, mentre paesi come Indonesia, Sry Lanka, Thailandia, Bangladesh e Somalia (dove l’onda è giunta addirittura dopo alcune ore e, nonostante ciò, ha provocato decine di morti) sono restati all’oscuro fino all’ultimo.

In sintesi: gli strumenti ed i mezzi che avrebbero permesso di salvare decine e decine di migliaia di vite umane c’erano, ci sono e sono ampiamente sperimentati, ma chi è povero non può permetterseli. Questa povertà di massa ed assassina è il diretto prodotto di cinquecento anni di colonialismo prima e, adesso, della ancor più usuraia e “raffinata” azione dei centri della finanza internazionale.  È il prodotto degli tsunami scatenati da cinque secoli dall'Occidente capitalistico e dalla sua fame di profitto sull'Asia e sull'Africa. La tragedia che ha colpito i paesi bagnati dall'oceano Indiana non è cosa diversa dagli tsunami "silenziosi" (o silenziati dalla stampa e dalla coscienza occidentale) che le scosse dei listini di borsa di New York, Londra, Francoforte e Milano riversano sull'Africa e sull'Asia: lo tsunami "silenzioso" della fame, o lo tsunami della guerra infinita che gli Stati Uniti e l'Italia stanno portando avanti contro la popolazione dell'Iraq, o lo tsunami del genocidio che Israele, ben coperto dall'Occidente capitalistico, sta compiendo contro il popolo palestinese. A colpire è sempre la stessa mano "invisibile", quella del mercato capitalistico e dei centri di potere che lo dominano. Centri che ora, anche attraverso i cosiddetti “aiuti umanitari” e quel nugolo di operatori più o meno istituzionali che vi gravitano intorno (come hanno sperimentato le popolazioni della ex-Jugoslavia), tenteranno di sfruttare la situazione creatasi in India, Indonesia, Bangladesh, ecc. per stringere ancor più saldamente e ampiamente la loro presa rapace sulle risorse e sulle masse lavoratrici di quell'area. Da notare, tra l’altro, che negli ambienti borsistici internazionali si sta già iniziando a guardare con notevole interesse alla possibilità di grandi affari e di paralleli rialzi azionari per le multinazionali operanti nel settore dell’edilizia e delle infrastrutture che potrebbero accaparrarsi le commesse per le ricostruzioni delle martoriate coste indonesiane, cingalesi, thailandesi, ecc.

Intanto mentre qui da noi l’attenzione dei mezzi di comunicazione è tutta concentrata sul “problema” dei turisti italiani ed occidentali che (poverini) sono stati sconvolti nel bel mezzo di una vacanza esotica (comprensiva talvolta di bambina thailandese da violentare), mentre stampa e televisioni ci propinano interviste in cui “vip” come la Muti,  Abatantuono o  Zambrotta raccontano le loro “tremende vicissitudini” da turisti dorati, mentre si assiste a un simile schifo molti lavoratori si chiedano cosa si possa sin da subito fare per dare una mano a queste popolazioni tanto duramente colpite. In questo senso in vari luoghi di lavoro si stanno iniziando delle collette.

La raccolta di fondi sui posti di lavoro può effettivamente costituire un primo passo. Ma, a tal proposito, è bene fare tesoro dell’esperienza. All’epoca dell’aggressione contro Belgrado, attraverso la cosiddetta “missione arcobaleno”,  si tentò (e in buona parte si riuscì) a utilizzare lo spontaneo istinto di solidarietà di tanti lavoratori verso le popolazioni bombardate in un supporto ideologico e morale alla guerra e all’occupazione NATO dei Balcani.

Per evitare che anche questa volta l’istinto di  solidarietà finisca per essere strumentalizzato a ben altri fini rispetto a quelli dichiarati sono necessarie almeno due cose. Che le raccolte di fondi siano accompagnate da una chiara denuncia delle vere cause e dei veri responsabili di quanto accaduto e che si operi un diretto controllo da parte dei lavoratori su dove e a chi finisce quanto raccolto. A tal proposito, ad esempio, sarebbe molto utile concordare (laddove sono presenti) con le organizzazioni di lotta dei lavoratori immigrati asiatici la raccolta e la gestione dei fondi. Ciò non solo garantirebbe maggiore “trasparenza”, ma –soprattutto– costituirebbe un momento di contatto diretto tra proletari italiani e proletari immigrati. Un contatto questo, che se si vuol dare davvero battaglia affinché disastri come quello del 26 dicembre non si possano mai più ripetere, dovrà estendersi e saldarsi sempre più attorno ad una comune battaglia contro il capitalismo internazionale.

27 dicembre 2004

 


Organizzazione Comunista Internazionalista