Sul n. 52 (aprile-maggio 2000) del giornale che fare abbiamo recensito lo studio di P. Basso “Tempi moderni, orari antichi. L’orario di lavoro a fine secolo”.

La nota che segue si propone di vedere cosa è successo, da allora, sulla questione cruciale del tempo di lavoro.

 

Il libro “Tempo moderni, orari antichi”, un libro che consigliamo vivamente di leggere, si occupa del lavoro salariato, dei lavoratori salariati. Un “oggetto” a tal punto trascurato dalle scienze sociali da apparire quasi inesistente, o almeno irrilevante, sebbene si tratti della forza motrice della vita sociale. Come in Metropolis di Fritz Lang, il lavoro e i lavoratori sono oggi nascosti, rinchiusi in una sorta di città sotterranea che, sebbene sia sotto gli occhi di tutti, rimane come celata agli sguardi dei più.

In "Tempi moderni, orari antichi", la condizione del lavoro salariato è analizzata in rapporto alla “questione” del tempo di lavoro. Esaminare lo stato attuale del tempo di lavoro, centro e motore dell’intero sistema sociale dei tempi, vedere in che direzione esso evolve e come condiziona il “tempo della vita” in generale, è un modo per penetrare in questa città sotterranea, aprirla agli sguardi esterni e sollecitare quelli che l’abitano a riprendere con forza la parola.

La convinzione egemone a questo riguardo è che, in particolare nel secolo che si è appena concluso, il tempo di lavoro sia divenuto sempre più breve e leggero per la grandissima parte dei salariati, e che tale tendenza, con qualche rallentamento e qualche occasionale perturbazione, sia destinata a svilupparsi ulteriormente per effetto della nuova rivoluzione tecnica ed organizzativa in corso. La convinzione dell’autore dello studio è opposta: l’orario di lavoro medio dei salariati nell’industria, nell’agricoltura e nei cosiddetti servizi sta diventando, da un po’, sempre più intenso, esteso e pesante da sopportare; il processo di mondializzazione sta via via generalizzando questo “paradossale” corso del tempo di lavoro.

A 6 anni dalla pubblicazione della prima edizione italiana del libro, questo scorcio fosco, e insieme promettente, di inizio secolo offre già importanti conferme alla tesi controcorrente lì argomentata. Conferme che vengono tanto dagli Stati Uniti quanto dall’Europa.

 

 

La prima è costituita dal salto di qualità nell’attacco imprenditoriale e statale alle 35 ore in atto in Francia e in Germania.

In Francia il conto alla rovescia per le 35 ore è cominciato nel gennaio 2003 con il varo della legge Fillon, che ha aumentato le ore annue di straordinario ammesse da 130 a 200. In questo modo l’orario settimanale legale è stato riportato di fatto, seppure per via traversa, a 39 ore (quello reale è già, per gran parte dei salariati comuni delle imprese private, un po’ al di là di questa soglia). Un altro e più determinato colpo alle 35 ore è stato assestato dal governo Raffarin nel giugno-luglio 2004, con la decisione di detassare le ore di lavoro straordinario e con il lancio di una aggressiva campagna propagandistica all’insegna del principio: “i francesi debbono lavorare di più, se vogliono guadagnare di più” (Sarkozy). Nel frattempo le maggiori imprese, lungi dal  rimanere con le mani in mano, hanno messo in campo un vero e proprio ultimatum: “i francesi debbono lavorare di più, altrimenti siamo costretti a delocalizzare nei paesi in cui il lavoro costa di meno”. E in pochi mesi hanno tradotto questo ultimatum in fatti molto concreti. La Bosch ha aumentato l’orario di lavoro a Vénissieux, nei pressi di Lyon, da 35 a 36 ore senza aumenti di salario, anzi imponendo ai sindacati tre anni di “moderazione salariale”. Alla sua ruota la SEB, proprietaria del marchio Moulinex, ha preannunciato che nei suoi due stabilimenti nei Vosgi passerà dalle 35 alle 38 ore. La Doux, l’impresa-regina del pollame in Europa, si muove nella stessa direzione. L’azienda di pulitura Cattinair è salita dalle 35 alle 37,5 ore con un incremento salariale simbolico del 2%. Le imprese alberghiere hanno ottenuto la “pérennisation des 39 heures” concedendo qualcosina in più, l’11% di aumento del salario minimo, ma imponendo nuove norme sul lavoro notturno. E la lista delle aziende decise a stracciare le 35 ore si allunga di giorno in giorno con l’Eurocopter, la Nexans, l’Ina-Roulement, l’Arcelor, etc. La ragione invocata è sempre una: la concorrenza internazionale, che obbliga ad abbassare i salari e incrementare gli orari (due facce della stessa medaglia). E questo nonostante la Francia abbia già ridotto il suo costo del lavoro di quasi un terzo proprio tra il 1995 e il 2002, nel periodo cioè in cui sono state introdotte le 35 ore, portandolo al di sotto, del 20%, di quello medio degli Stati Uniti[1]. Gli obiettivi dichiarati dalle grandi imprese sono ambiziosi; la Bosch progetta, ad esempio, una ulteriore riduzione del costo del lavoro del 15-20%, e vi è chi, nel Medef, non esita a rivendicare a questo scopo “liberté totale en matière de durèe du travail”[2].

Se il padronato francese parla la cruda lingua del mercato, da parte sua il governo francese non rinuncia a fare dell’abile demagogia sociale, professando l’intenzione di “redonner toute sa place au travail” con il “liberarlo” dalla gabbia delle 35 ore. Lo fa sapendo di toccare un tasto per molti  sensibile, quello del necessario incremento dei salari, e sapendo altresì che a beneficiare delle leggi Aubry non è stata la generalità dei salariati, bensì soltanto gli impiegati pubblici, le giovani coppie senza figli (e con due entrate) e la media borghesia delle seconde case. Per la massa degli operai, soprattutto quelli delle imprese medio-piccole, per i lavoratori agricoli e terziari dai bassi salari, per non parlare poi dei precari e di quanti lavorano al nero, non è cambiato assolutamente nulla[3].

In Francia le imprese e lo stato, dopo aver realizzato l’assouplissement delle 35 ore, ne decretano ora l’agonia delle 35 ore e si preparano al loro definitivo enterrement. Forti, anche, di quello che sta avvenendo in Germania dove questo stesso processo si presenta perfino più accentuato e accelerato. Qui l’argomento-chiave non è quello dei bassi salari, essendo i salari tedeschi tra i più alti d’Europa e del mondo; è la rimessa in moto della economia nazionale stagnante da anni, il “sacrosanto obiettivo” di aiutare le imprese a uscire dalle difficoltà e i disoccupati a uscire dalla disoccupazione. Lo spauracchio agitato è la delocalizzazione ad est, dentro e soprattutto fuori della Germania. È in questo modo che la Siemens ha imposto nello stabilimento di Bocholt, nel Nordreno-Vestfalia, il ritorno dalle 35 alle 40 ore, senza aumenti salariali di sorta e con la abolizione della tredicesima e della quattordicesima mensilità, che potranno essere reintrodotte in futuro ma solo sotto forma di partecipazione agli utili (eventuali). Un accordo-pilota descritto dalla stampa tedesca come “una cesura epocale nella storia economica della Repubblica federale”[4], e subito preso a modello da altri due colossi del capitalismo renano, la Philips e la Daimler-Chrysler. Quest’ultima ha imposto ai lavoratori della Mercedes, prima a Sindelfingen e poi su scala più vasta (20.000 dipendenti), il passaggio dalle 35 alle 40 ore con una limitata compensazione salariale; solo con la mobilitazione i lavoratori sono riusciti a preservare, in parte, la pausa di cinque minuti all’ora, che la direzione voleva ad ogni costo sopprimere, bollandola come un privilegio sociale unico e ingiustificabile. E non è finita: i vertici dell’industria automobilistica tedesca stanno apprestando, soprattutto alla Volkswagen, tagli del costo del lavoro molto radicali, dell’ordine del 30% tanto per intenderci. Non si tratterà soltanto di licenziamenti; si ricorrerà anche a questa “inedita” procedura, inedita per i tempi di pace almeno, dell’allungamento dell’orario di lavoro per i “fortunati” che conserveranno il posto. Un anticipo di ciò lo si è avuto alla Opel-General Motors di Eisenach, nell’ex-Germania dell’est, dove il sindacato ha accettato un orario settimanale di 47 ore in cambio della promessa della direzione di non toccare i posti di lavoro fino al 2007.

Del resto, l’orario di lavoro nell’industria tedesca era andato estendendosi lungo tutto l’arco degli anni ’90 attraverso la crescita dello straordinario, che ha toccato nel 2000 il livello record delle 63,2 ore annue per lavoratore (stiamo parlando dello straordinario pagato, non di quello effettivo). In realtà,  l’orario di lavoro medio dei salariati a tempo pieno è, in Germania, al di sopra delle 40 ore. A stare alle stime più attendibili, quali quelle del Deutsches Institut fur Wirtschaftsforschung, solo il 28% dei lavoratori lavora 35 ore a settimana, mentre il 56% ne lavora almeno 40 e il 20% almeno 45[5]. Ma neppure questo parziale ritorno all’indietro, rispetto agli anni ’80, appare sufficiente; da qualche tempo è in atto una gara, tra la Spd e la Cdu-Csu, a chi sponsorizza di più l’allungamento degli orari. “Bisogna lavorare di più”, ha affermato seccamente Schroeder. “La maggior parte della gente sarebbe ben contenta di lavorare qualche ora di più, se crede che ciò serva a garantire lo standard di vita”, gli ha fatto eco il ministro dell’economia e del lavoro Clement, che si è lanciato in un vero e proprio peana al Mehrarbeit, il marxiano lavoro supplementare. La Merkel, presidente della Cdu, ha preferito buttarla sul pedagogico: “In Germania dobbiamo abituarci a lavorare una o due ore alla settimana in più”. Nuove abitudini da assumere. Troppo modeste per l’intransigente Csu bavarese, che da tempo ha reintrodotto di autorità le 40 ore negli uffici pubblici della Baviera, e rimpiange apertamente la settimana di 48 ore[6], quella riconducibile ad un tal Goering...

Se fino a qualche anno fa la classe capitalistica tedesca si era “limitata” ad accerchiare e a colpire ai fianchi i due settori produttivi, metalmeccanici e tipografici, che avevano conquistato le 35 ore, e i processi di intensificazione e allungamento dell’orario si erano sviluppati, in parte, separatamente, ora la situazione è cambiata. Cambiata in peggio per i lavoratori, anche in seguito al ridimensionarsi della sindacalizzazione (la Dgb ha perso circa il 30% degli iscritti rispetto al 1989) e al sostanziale fallimento del tentativo dell’IGMetall di generalizzare all’est le 35 ore. Un fallimento che è stato al contempo causa ed effetto di acute lacerazioni nel movimento sindacale, nel cui seno, da tempo, si moltiplicano le prese di posizione favorevoli alla massima elasticità degli orari ed anche alla loro pura e semplice estensione strutturale[7]. In Germania, in realtà, tanto i lavoratori quanto il sindacato sono pesantemente sulla difensiva, dinanzi al progressivo dispiegamento della “Agenda 2010”, la grande e generale controriforma del mercato del lavoro messa all’ordine del giorno dal governo. I tagli, questa volta secchi, riguardano i sussidi di disoccupazione, la copertura pubblica in campo sanitario e in campo pensionistico, gli assegni sociali, in breve tutte le voci del salario indiretto di decine di milioni di lavoratori. A questi tagli si accompagnano una serie di misure volte a favorire e incentivare il lavoro interinale che ha, come si sa, un effetto depressivo sul livello generale dei salari. Anche la Germania, dunque, seppur con un certo “ritardo” e con lo scontato mugugno delle associazioni imprenditoriali che, comme d’habitude, vorrebbero di più e più in fretta, fa proprio il ricettario neo-liberale che prevede la riduzione dei salari e l’allungamento-appesantimento degli orari di lavoro.

Grida di giubilo si levano in tutta Europa. Alleluja, il massimo bastione della “rigidità” sta cedendo! Ne trascrivo una soltanto, di un consigliere del governo Berlusconi che nel commentare il nuovo corso della politica tedesca ha colto con chiarezza la questione centrale per tutte le imprese europee:

“La competizione globale impone stili di relazioni industriali che sempre più prescindono dai contesti nazionali. Le multinazionali, o comunque le imprese che competono con concorrenti di tutto il mondo, devono reagire alle sfide anche superando vincoli imposti da regole locali. Se possibile, con l’accordo del sindacato; altrimenti, anche senza, rivolgendosi ai lavoratori. [Del resto] è inutile fingere di non sapere che le nostre aziende competono con quelle americane ed asiatiche, dove non c’è il sindacato ed il licenziamento è libero”[8].

Impeccabile. Quando si dice mercato o competizione, si dice mercato o competizione alla scala mondiale. E la legge della competizione non è altro se non la legge dell’indefinito abbassamento del valore della forza lavoro. Sul mercato vince chi torchia di più il lavoro, chi lo retribuisce di meno, chi fa il bottino di Mehrarbeit più ampio. È questa la sola regola che la competizione capitalistica accetti di buon grado. Ogni altra regola è, per essa, un impaccio. Sono un impaccio i contratti nazionali di lavoro, derubricati dal mercato mondializzato a semplici regolucce locali regolarmente “obsolete”. Sono un impaccio, più in generale, tutte le norme che limitano la libertà di movimento delle imprese, a cominciare dalla libertà di assumere e licenziare seguendo la sola legge del costo obbligatoriamente decrescente della forza-lavoro. Sono un impaccio poi, ça va sans dire, i sindacati, ed ogni forma di organizzazione degli operai e dei salariati, foss’anche la più elementare. Lo sono specialmente nella new economy, al cui magnifico dinamismo potrebbero tarpare le ali. E, si badi bene perché è essenziale, la rivendicazione di assoluta libertà per le imprese non viene fatta con una aperta dichiarazione di guerra ai lavoratori (quale, in fondo, è), ma, al contrario, adoperandosi come più non si potrebbe per cointeressarli e convolgerli psicologicamente e materialmente in quella competizione al ribasso a tutto campo che apre per loro le porte dell’abisso.

Ad inizio ventunesimo secolo “parla” così l’Europa delle imprese e dei governi (siano di destra o di centro-sinistra, le differenze tra i due poli si sono ormai ridotte al minimo storico) che ha finalmente dismesso la sua bolsa pretesa di avere un “dna sociale” differente da quello statunitense e asiatico; quell’Europa che, tra un allungamento formale di orario e un’intensificazione del tempo di lavoro, tra un taglio al salario diretto e due-tre legnate a quello indiretto, tra un innalzamento dell’età pensionistica a 62 anni e l’altro a 65-67 anni, non si vergogna più di dichiarare: sì, sogno di veder sbocciare anche sul mio territorio orari statunitensi e salari asiatici[9].

 

 

Già: quali sono le ultime dagli Stati Uniti?

Piuttosto allarmanti. Non solo perché si è ancor più consolidata e generalizzata la tendenza all’overwork e alla diffusione della workaholic syndrome, giunta al punto che diversi stati si sono sentiti in dovere di porre limiti legali allo straordinario (il Maine, ad esempio, ha vietato di andare oltre le 160 ore al mese...)[10]. Ma anche perché è emersa sulla scena statunitense, e perciò sulla scena mondiale, una nuova mega-impresa portatrice di un modello innovativo di organizzazione, e cioè di torchiatura, del lavoro che annuncia tempi cupi per i salariati. Parlo della Wal-Mart, il gigante mondiale degli ipermercati.

Il walmartismo si pone sulla scia del taylorismo e del toyotismo, e però oltrepassa l’uno e l’altro su un aspetto cruciale: la bassa, bassissima remunerazione del lavoro. Del taylorismo la Wal-Mart ha fatto proprio l’incessante perseguimento di una produttività sempre crescente ottenuta tanto attraverso gli investimenti tecnologici, quanto attraverso la parcellizzazione estrema dei compiti di lavoro, con dei risultati, a quanto pare, eccezionali, se è vero che addirittura un 4% dell’incremento totale di produttività del lavoro degli Stati Uniti è attribuito a questa sola impresa. Dal toyotismo essa ha recepito, invece, il principio del just in time, che applica sia al proprio interno che all’enorme catena dei suoi fornitori, nonché un’ossessione speciale per lo “zero sprechi” di lavoro. Sempre dal toyotismo ha appreso le accorte prassi volte ad aziendalizzare i lavoratori, generosamente promossi (una generosità lessicale che non costa nulla) ad associates dei signori Walton, loro “collaboratori”; prassi quali una certa semplificazione e “informalità” della gerarchia aziendale, la coltivazione dello spirito di gruppo, i canti e i rituali walmartiani e, ovviamente, lo straordinario obbligatorio non pagato come espressione di fedeltà all’azienda. Ma del taylorismo (e del fordismo) la Wal-Mart si guarda bene dal riprendere i salari superiori alla concorrenza: questa corporation, che ha un giro di affari otto volte superiore a quello della Microsoft e quattro volte superiore a quello della sua più forte concorrente di settore (la Carrefour), assicurava in media, al 2003, ai suoi 1.200.000 dipendenti, una paga tra i 7,5 e gli 8,5 dollari l’ora, inferiore del 20-25% rispetto agli altri ipermercati, e non troppo lontana dal salario minimo. E del toyotismo si guarda bene dal riprendere l’idea del “lavoro a vita”, fosse pure solo per una cospicua minoranza dei propri addetti, funzionando bene, a quanto pare, con un elevato turn over, perfino superiore al 100% annuo. Il segreto ultimo del suo strepitoso successo risiede appunto nel poter e saper disporre in modo molto “razionale” di una forza-lavoro abbondante, fluida, obbligata, poiché priva di alternative (leggi: donne, giovani, colorati, anche portatori di handicap), a svendersi a basso o bassissimo costo.

Tale successo, è palese, dipende anche da una ragione di ordine extra-aziendale: l’essere diventati gli Stati Uniti, sempre più, un paese del sottolavoro, del lavoro a sotto-salario, un paese in cui, finanche nei distretti della net economy, le famiglie-massa sono indebitate fino al collo e perciò costrette, nel contesto di una sistematica coazione al consumo, oltre che a lavorare sempre di più, a ricorrere ad ogni forma di risparmio di spesa. Per moltissimi statunitensi, specie se “di colore”, le merci low cost di ogni tipo degli spartani scaffali di Wal-Mart sono una risorsa irrinunciabile: l’anti-sindacale Wal-Mart riesce ad essere popolare, sotto questo profilo, anche tra i lavoratori sindacalizzati. Resta nondimeno vero che i suoi strabilianti record di profittabilità la Wal-Mart li deve, come ogni altra impresa, alla gallina dalle uova d’oro, alla classe lavoratrice, tanto quella che suda e sgobba negli Stati Uniti quanto quella che getta il sangue in Cina e in Bangladesh, in Indonesia e in Birmania, in Nicaragua  e nelle Filippine, in Honduras e in Messico, nel Lesotho e nel Malawi.

La Wal-Mart è una vera impresa globale, la impresa globale per eccellenza. Non tragga in inganno la sua attività. Non è una “semplice” mega-azienda del commercio che detta le regole del consumo di massa; la Wal-Mart, in forza della concentrazione e centralizzazione di capitali di cui è stata capace, è in grado di comandare, e comanda effettivamente con pugno di ferro, la grandissima parte dei suoi 6-10.000 fornitori; calcolando anche i sub-fornitori, si arriva a ben 65.000 imprese. Si tratta, spesso, di imprese di piccole dimensioni che lavorano pressocché esclusivamente per Wal-Mart o, il che è lo stesso, per marchi famosi che producono anche a basso costo per Wal-Mart. Imprese collocate per metà in Cina, specie nella Cina meridionale costiera ed interna (dove il lavoro costa ancor meno), tanto che, con qualche esagerazione, vi è chi parla di una vera e propria joint venture sino-americana tra Wal-Mart e Cina.

Con i suoi fornitori la Wal-Mart applica inflessibilmente il principio del plus one, imponendo ad essi ad ogni nuovo stock di merci ordinato, una qualche riduzione nel costo delle merci. “Noi – si è vantato Ken Eaton, il capo della divisione acquisti – gli facciamo sentire la forza dei nostri muscoli globali”. A loro volta, poi, fornitori e sub-fornitori afferreranno per la gola i propri salariati, e in primo luogo le proprie operaie. Infatti l’80% dei giocattoli, il 96% dell’abbigliamento, il 100% dei prodotti elettronici venduti negli Usa da Wal-Mart provengono dal Sud del Mondo, e a fabbricarli è per lo più una leva di giovani e giovanissime operaie. Sulle condizioni in cui si svolge questa produzione sta accumulandosi una mole di documentazione, di cui si trova traccia anche sulla grande stampa statunitense[11]. Turni di lavoro giornalieri che si estendono fino ad estremi di 18-20 ore. Settimane lavorative di 7 giorni su 7. Settimane lavorative che vanno da un minimo di 80 ad un massimo di 130 ore di fatica. Un solo giorno di riposo al mese. Ferie non superiori, in totale, ai 15 giorni l’anno. Paghe quasi sempre al di sotto dei minimi legali (quando esistono), dai 16,5 ai 46 cent l’ora. Zero misure di sicurezza. Zero igiene. Zero assistenza medica. Zero sindacati. Tanto lavoro minorile. Punizioni corporali. Violenze sessuali. Dormitori interni alle fabbriche. In questo arcipelago gulag mondializzato ritroviamo, vivi e vegeti, tutti gli orrori del proto-capitalismo. E osservandoli non può non venire in mente, per contrasto, la seguente dichiarazione: “Sam Walton ha edificato la Wal-Mart sulla base della filosofia rivoluzionaria dell’eccellenza nei luoghi di lavoro, del servizio ai clienti e dei prezzi sempre più bassi. Noi [stanno parlando i manager di vertice dell’azienda] siamo rimasti sempre incardinati sui tre fondamentali principi fissati nel 1962 dal signor Sam: 1. rispettare le persone; 2. servire i nostri clienti; 3. battersi per l’eccellenza”. Possibile che il nostro filosofo rivoluzionario, nel dettare queste tavole della legge, pensiamo in particolare al suo primo comandamento, si riferisse solo al Terzo Mondo?

Chiaro che no. Il massimo rispetto per le persone dei lavoratori è stato ed è un ‘basic belief’ della Wal-Mart anche in patria. Anche lì la sua forza-lavoro è costituita in larga parte da donne – è la prima mega-impresa, se non erro, fondata essenzialmente sullo sfruttamento del lavoro femminile -, da giovani e da immigrati. E anche lì non si scherza. Dei salari e dello straordinario non pagato si è detto. Bisogna aggiungere: indagini spionistiche, telecamere di controllo e licenziamenti in tronco (nell’ordine dei 10.000 l’anno) per i lavoratori che osano fare dei passi in direzione del sindacato. Impiego di lavoro minorile. Impiego di sans-papiers, specie nei turni di notte e nei lavori di pulizia (nelle sedi della Wal-Mart ne sono stati arrestati 250 in una sola notte, e alcuni di loro hanno dichiarato orari di 60 ore a settimana). Discriminazioni ai danni delle donne. Infortuni non dichiarati. Esclusione di circa il 60% dei dipendenti da ogni forma di copertura sanitaria (nelle altre grandi imprese statunitensi rimane scoperto, in media, il 33% dei dipendenti), una questione di crescente peso nella vita dei lavoratori statunitensi, specie di quelli che, come alla Wal-Mart, hanno salari di mera sussistenza[12].

Sono oramai migliaia le cause intentate contro questa società, a prova della crescente insofferenza degli stessi lavoratori statunitensi per il metodo del plus one applicato sistematicamente oltreoceano soprattutto alla saturazione del tempo di lavoro. Il Manuale del collaboratore Wal-Mart [Wal-Mart Associate Handbook] contiene una quantità di divieti, ma il divieto più importante e inviolabile di tutti è quello che riguarda “il furto del tempo”. È severamente proibito “fare qualsiasi cosa, una qualsiasi cosa, che non sia lavorare durante le ore pagate dall’azienda”. E durante le tantissime ore non pagate? Ah, commenta caustica Barbara Ehrenreich che alla Wal-Mart ci ha lavorato, quelle non contano: “il furto del nostro tempo non è un problema”[13].

In questo modo la Wal-Mart mette in concorrenza tra loro i lavoratori del Sud del mondo e quelli degli Stati Uniti. Mike Davis l’ha descritta come l’efficace “combinazione di tecnologia just in time, capitalismo selvaggio e colonialismo vittoriano”, Richard Freeman come l’impresa che ha costruito dovunque nel mondo “campi di concentramento di lavoro schiavistico” e che schiaccia in basso le condizioni di vita dei lavoratori statunitensi attraverso il totale divieto della sindacalizzazione[14].

Guerra preventiva all’organizzazione dei salariati (che ha qualcosa a che vedere con le altre guerre preventive in corso in Iraq e altrove). Guerra permanente per impossessarsi del tempo dei propri salariati. Pressione incessante per tenere bassi i salari, che poi è la via maestra per il prolungamento degli orari di lavoro. L’ultima parola del capitalismo dell’inizio del ventunesimo secolo rassomiglia maledettamente a... concluda pure il lettore. L’avvento della Wal-Mart, si è scritto, significa la fine dell’American Dream: “una onesta giornata di lavoro, una paga onesta, che consenta di metter su famiglia, di avere una assistenza medica decente e di mandare i propri figli al college”. È qualcosa di più, a mio avviso: è una sfida globale a tutti i lavoratori, che viene loro non da una “singola” azienda, bensì dal sistema delle aziende, dal capitalismo globale in quanto tale, se è vero che la Wal-Mart è ormai diventata un “nuovo” modello da imitare.

 

Ci sono, in giro per il mondo, i primi segni di una risposta della classe lavoratrice a questa sfida – ecco il terzo “fatto” che vorremmo segnalare in questa nota.

Diversi di questi segnali vengono proprio dagli Stati Uniti. A cominciare dal grande sciopero dell’UPS; per continuare con Seattle 1999; la marcia mondiale delle donne; l’ingresso del sindacato nella net economy dopo la crisi del 2000 con i conflitti alla Verizon, all’Amazon, all’IBM, otto anni dopo lo sciopero pionieristico della Versatronex, che scosse per la prima volta il mito della Silicon Valley; il rifiuto di alcune sezioni dell’AFL-CIO (formalizzato in organismi quali il New York City Labor Against the War, il San Francisco Labor Council, il Washington State Labor Council, etc.) di separare le guerre esterne condotte dagli Stati Uniti di Bush dalla “guerra sociale” interna agli Stati Uniti; le lotte alla General Motors e alla General Electric; la miriade di piccole iniziative, non solo legali, di denunzia delle condizioni di lavoro alla Wal-Mart, che si stanno condensando in alcune grandi o grandissime class action (quella per discriminazioni contro le donne riguarda, potenzialmente, 1.600.000 lavoratrici o ex-lavoratrici dell’impresa); lo sciopero massiccio e militante dell’autunno scorso di 70.000 addetti dei supermercati della California mobilitati proprio per contrastare l’effetto Wal-Mart sui propri salari e sulla propria tutela sanitaria, il più acuto conflitto sindacale della costa occidentale degli Usa da mezzo secolo; la lenta ricostruzione dal basso di una rete sindacale nuova, “multicolore” e a forte presenza femminile (a differenza di quella tradizionale)[15].

Anche in Europa questi segnali non mancano. Qui i conflitti sindacali sono, tranne forse che in Gran Bretagna, meno accesi che oltreoceano; è molto più ampia, invece, la massa dei lavoratori che ne viene coinvolta. Negli ultimi anni, a cominciare dalla raffica degli scioperi generali o di categoria avvenuti nel 2002 in Italia, in Spagna, in Grecia, in Germania, in Gran Bretagna, non vi è stato un solo provvedimento governativo o aziendale avverso al lavoro salariato, dai tagli al welfare ai licenziamenti, che non abbia incontrato una certa resistenza. Tra le novità più rilevanti vi è l’inizio di un processo di organizzazione tra i lavoratori della McDonalds’ -un’impresa per molti versi gemella della Wal-Mart sia nei suoi metodi di spremitura del lavoro, sia nella sua demagogia da “grande famiglia” - e tra i lavoratori dei call center, uno degli emblemi della new economy. Ma è in una fabbrica della old economy che nella primavera scorsa si è sviluppata la lotta forse di maggior significato per l’orario e le condizioni di lavoro: la Fiat di Melfi. 21 giorni di blocco totale della produzione. Uno sciopero compattissimo, nonostante le divisioni nel movimento sindacale; realmente auto-organizzato e auto-gestito; non chiuso in sé ma capace di rivolgersi all’intero mondo del lavoro; non intimorito dall’accerchiamento dei media e della polizia. Che ha rivendicato insieme aumenti di salario, l’abolizione del turno notturno di 12-18 giorni consecutivi, la fine della disciplina da caserma. Una classe operaia giovane e “improvvisamente” matura che si è imposta, con la sua fermezza, alla più forte impresa italiana e ad un governo ostile e minaccioso. Nello stupore e nella sorpresa generale, poiché si trattava di una delle fabbriche più produttive, più disciplinate, più “toyotizzate” di Europa. Stupore e sorpresa di quanti pensano che basti reprimere per convincere, che basti cancellare l’antagonismo sociale dalla rappresentazione della realtà perché esso scompaia davvero nella realtà dei rapporti sociali del mondo contemporaneo, che sono, al contrario, sempre più polarizzati.

Altrettanti, e più vigorosi, segnali vengono da tutto il Sud del mondo, Argentina e Bolivia, Brasile e Venezuela, Medio Oriente e Sud Africa, Corea e Filippine, India e Cina: non basterebbe un volume a segnalarne i principali. Certo, si tratta soltanto, nel Nord come nel Sud del mondo, di prime prove di movimento, di resistenza, di teoria e di organizzazione dei lavoratori nel contesto di un capitalismo mondializzato e ben altrimenti aggressivo e centralizzato. Prove che restano spesso reciprocamente isolate, e si chiudono per lo più con (istruttive) sconfitte. Ma, si sa, ogni serio inizio è difficile.

 

 27 agosto 2004

 


 

[1]  I dati sono della Agence française pour les investissements internationaux  (“la tribune”,  23 juillet 2004).

[2]  Un passo in questa direzione è stato compiuto dal governo Raffarin con il varo della deuxième loi Fillon du 4 mai 2004 “sur le dialogue social”, che permette agli accordi aziendali, cioè alle aziende, di introdurre deroghe non solo rispetto agli accordi di settore, ma anche rispetto alla legge. Più che un dialogo, si profila un monologo.

[3] A metà del 2002 un’indagine del Ministero del lavoro ha accertato che solo per il 22% dei salariati l’introduzione delle 35 ore aveva prodotto un percepibile miglioramento; il 46% degli intervistati non notava alcun miglioramento, il 29% lamentava addirittura un peggioramento. Questo, nelle aziende in cui sono state introdotte le 35 ore, che a stare allo stesso ministero sarebbero il 90% delle imprese con più di 200 dipendenti, il 40% delle imprese fino a 50 dipendenti, ed il 10% di quelle con meno di 20 dipendenti.  Che le leggi Aubry abbiano consolidato le divisioni e le stratificazioni già esistenti nel mercato del lavoro è spiegato bene in M.-A. Estrade - V. Ulrich, La réorganisation des temps travaillés et le 35 heures: un renforcement de la segmentation du marché du travail, in “Travail et Emploi”, n. 92, octobre 2002.

[4] Così “Der Spiegel” del 28 aprile 2004. Il giudizio non è esagerato: si consideri che in un sol colpo il salario operaio viene segato del 15%. Non è il primo accordo del genere: il 4 novembre 2003 alla Opel vi era stata un’intesa azienda-sindacati che costringeva 15.000 dipendenti a lavorare tre ore in più al mese non pagate, e i dirigenti a rinunciare a due giorni di ferie; questo accordo, però, prevedeva anche, per altri lavoratori, una riduzione dell’orario. Nel 2001 era stata la Hewlett-Packard a strappare concessioni su questo piano ai suoi 5.700 dipendenti in Germania.

[5] Cfr. “Die Zeit”, 28 aprile 2004 e “Le Temps”, 14 luglio 2004.

[6] Cfr. “Tagesspiegel”, 2 novembre 2003 e “Die Welt”, 30 ottobre 2003.

[7] Ha fatto da rompighiaccio D. Schultze, al tempo presidente della Dgb, che in una intervista a “Die Welt” del 13 marzo 2001 si disse favorevole al prolungamento dell’orario settimanale fino a 48 ore, salvo “recuperare” il sovrappiù di lavoro con settimane più corte. Ma il quotidiano del gruppo Springer colse a volo l’occasione per titolare: “Per Schultze la settimana di 48 ore non è più un tabù”. Un classico: offri “astutamente” un dito, e “loro” ti prendono il braccio.

[8] Cfr. M. Biagi, Se Schroeder fa il flessibile, “il Sole-24 ore”, 2 settembre 2001. Questo esperto di relazioni industriali è stato il primo curatore del Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia pubblicato nell’ottobre del 2001 dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che costituisce il documento di riferimento di tutta la legislazione in materia del governo Berlusconi.

[9] Questa tendenza (non si tratta solo di un desiderio) comincia, finalmente, ad essere ammessa e riconosciuta anche in documenti ufficiali pubblicati di recente. Tra loro merita segnalare: P. Boisard - D. Cartron - M. Gollac - A. Valeyre, Temps et travail: l’intensité du travail, Fondation européenne pour l’amélioration des conditions de vie et de travail, Dublin, 2002, che documenta il carattere generale della crescente intensità del lavoro; J.M. Evans - D.C. Lippoldt - P. Marianna, Labour Market and Social Policy – Trends in Working Hours in Oecd Countries, Organisation for Economic Co-operation and Development, Paris, 2001 che finalmente registra come, oltre l’Inghilterra, pure la Svezia, l’Ungheria, la Cechia, la Finlandia, la Spagna non conoscano affatto riduzioni dell’orario di lavoro, anzi! - un riconoscimento ancora parziale, si capisce, però di qualche valore; European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Working Poor in the European Union, Dublin, 2004, in cui si constata l’avvento anche in Europa degli working poor: “The rise in atypical and precarious work patterns and a growing polarisation in the labour market between low or unskilled work and high-skilled work have created new poverty risks amongst the employed population. As a result of this trend, the concept of the ‘working poor’, which gained ground in the United States in the 1970s and 1980s, has become increasingly applicable to social and labour market realities in the European Union” (p. V). Nonostante ciò, nei documenti ufficiali le condizioni di lavoro e di esistenza dei salariati risultano sistematicamente abbellite. In materia di orari di lavoro, ad esempio, per trovare stime non troppo lontane dalla realtà bisogna vedere lo studio dell’UBS, Price and Earnings. A  comparison of purchasing power around the globe, 2003, pp. 23, 40 ss.

[10] Cfr. “The New York Times”, 17 novembre 2000; L. Mishel – J. Bernstein – H. Boushey, The State of Working America 2002-03, Cornell University Press, Ithaca-Londra, 2003, soprattutto i capp. 2 e 3. Tra le tante inchieste sui tempi di lavoro degli statunitensi se ne può ricordare una, compiuta nel 2003 da una grossa azienda del settore viaggi, la Expedia.com, dal titolo indicativo Vacation Deprivation, da cui risulta che negli Stati Uniti il 63% degli occupati lavora più di 40 ore a settimana ed il 40% più di 50, mentre le ferie ammontano in media a 13 giorni l’anno, ma 1,8 di questi giorni non sono goduti, sicché “gli americani restituiscono alle proprie imprese [ogni anno] più 19,3 miliardi di dollari in tempo di ferie non usato”.

[11] Cfr. P.S. Goodman – Ph.P. Pan, Chinese Workers Pay for Wal-Mart Low Prices, “Washington Post”, 8 febbraio 2004; A. Goodman - N. Cleeland, The Wal-Mart Effect: An Empire Built on Bargains Remakes the Working World, “Los Angeles Times”, 23 novembre 2003; N. Cleeland – E. Iritani – T. Marshall, The Wal-Mart Effect: Scouring the Globe to Give Shoppers an $ 8.63 Polo Shirt, “Los Angeles Times”, 24 novembre 2003; C. Goldstein, Wal-Mart in China, “The Nation”, 20 novembre 2003. Molto documentato e importante, a riguardo, è il rapporto Toys of Misery, redatto, nel febbraio 2004, dal National Labor Committee e dal China Labor Watch. Del resto la stessa Wal-Mart non ha potuto far a meno di disdettare, nella sola Cina, 472 contratti di fornitura per palesi violazioni delle norme in materia di condizioni di lavoro. A dire dei suoi stessi “ispettori” (l’impresa non accetta ispezioni esterne e organizza per proprio conto delle ispezioni-farsa) la violazione più frequente è quella concernente i limiti previsti per il lavoro straordinario seguita da quelle relative all’impiego di lavoro minorile: cfr. l’interessantissimo rapporto Everyday Low Wages: The Hidden Price We All Pay for Wal-Mart, in data 16 febbraio 2004, a cura del deputato democratico G. Miller.

[12] Cfr., oltre il già citato Everyday Low Wages: The Hidden Price We All Pay for Wal-Mart, anche AFL-CIO, Wal-Mart. An Example of Why Workers Remain Uninsured and Underinsured, ottobre 2003; S. Glied – J.M. Lambrew – S. Little, The Growing Share of Uninsured Workers Employed by Large Firms, The Commonwealth Fund, ottobre 2003; R. Freeman – A. Ticknor, Wal-Mart Is Not a Business, It’s an Economic Disease, “Executive Intelligence Review”, 14 novembre 2003; L. Featherstone, Wal-Mart Values, “The Nation”, 26 novembre 2002 (sul sessimo della Wal-Mart); J. Borger, Migrant Workers Sue Wal-Mart, “The Guardian”, 12 novembre 2003. Informazioni utili e talvolta dettagliate si possono trarre dai siti della Union Food and Commercial Workers (UFCW), del “Los Angeles Times”, della First Unitarian Church of Rochester, e da phamplet quali quelli di B. Quinn, How Wal-Mart is Destroying America, and What You Can Do About It, Ten Speed Press, Berkeley, 1998 (fondamentalmente in difesa della piccola produzione e del piccolo commercio) o, sempre con il medesimo orientamento, D. Taylor – J.S. Archer, Up Against the Wal-Mart: How Your Business Can Prosper in the Shadow of the Retail Giants, Amacon, 1994, o J. Hightower, Thieves in High Places, Viking Press, New York, 2003. Molto meno utile, sotto questo profilo, è il libro di B. Ortega, un collaboratore del Wall Street Journal, In Sam We Trust, Times Business, New York, 2000, che ricostruisce bene, però, l’ascesa della Wal-Mart e la sua vittoria sulla concorrenza. Da conoscere, per ovvii motivi, è l’autobiografia del fondatore della corporation, Sam Walton, Made in America, Bantham Books, New York, 1993.

[13] Cfr. B. Ehrenreich, Nickel and Dimed. On (not) Getting by in America, Holt and Company, New York, 2001, p. 146, un testo vivissimo tanto sul lavoro alla Wal-Mart quanto sui tanti working poor del nord-America; un testo che va letto. Si tenga presente che a tutti i lavoratori della Wal-Mart è richiesta la reperibilità e la disponibilità ad andare al lavoro on call. L’azienda dei prezzi “scontati” non fa sconti, in questa materia, neppure ai suoi dipendenti di grado superiore. Quando assorbì la canadese Woolco, ad esempio, condizionò il mantenimento dei livelli salariali dei supervisors all’incremento del loro orario settimanale di lavoro da 40 a 52 ore.

[14] Cfr. M. Davis, Dal set ai picchetti, aria da anni Trenta, “il manifesto”, 24 dicembre 2003; la citazione di Freeman è dal testo indicato nella nota 12. Solo un piccolo assaggio autografo in fatto di lotta preventiva alla sindacalizzazione, tratto da un vademecum per i dirigenti della Wal-Mart, A Manager’s Toolbox to Remaining Union Free:

“Tenere i sindacati fuori dai piedi è un impegno a tempo pieno. Questo obiettivo non può essere raggiunto se la prevenzione della sindacalizzazione non viene assunta come un obiettivo che è alla pari con tutti gli altri obiettivi aziendali. L’impegno di tenere i sindacati fuori dall’azienda deve essere assunto a tutti i livelli del management, dal capo o presidente di un ‘ufficio’ fino al dirigente che è a più stretto contatto col personale. Perciò nessuno dei manager è esentato dal dover portare il suo specifico contributo a prevenire la sindacalizzazione. [...] Questo compito potrà essere portato a termine solo e soltanto se ogni componente del management sarà disposto a spendere per tale scopo tutto il tempo, lo sforzo, l’energia ed il denaro necessari. L’arco di tempo di un simile impegno sono i 365 giorni dell’anno”. Una vera e propria mission; Taylor e Ohno, a confronto con Walton&C., ci fanno la figura dei liberal.

[15] Ci limitiamo a ricordare i conflitti di lavoro, e con protagonisti in prima persona i lavoratori salariati, maggiori. Tra i minori, segnaliamo quello delle infermiere di Youngstown nell’Ohio (del maggio 2001) contro la pratica degli straordinari obbligatori senza preavviso (conseguente al taglio selvaggio degli organici), contro i continui incrementi di produttività richiesti e contro la pretesa dei propri ospedali di limitare a 7 giorni l’anno i giorni di malattia ammessi (“L’ospedale di St. Elizabeth costringe i dipendenti a venire a lavorare anche malati, a rischio dei pazienti”, denunciava un loro volantino; un ospedale che non si cura della salute dei propri dipendenti...).

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