ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ELEZIONI EUROPEE

 

Se vogliamo leggere correttamente i dati delle recenti elezioni europee, è di rigore un preambolo "teorico", cioè assai concreto, per quanto il termine non piaccia affatto ai praticoni di casa nostra, che, in questi giorni, si stanno trasformando in miriadi di "politologi" impegnati ad "interpretare i risultati" in chiave del tutto immediatistica e provinciale (il conteggio degli zerovirgola dell'esclusivo perimetro italiano).

Come certamente sapete, l'OCI non partecipa alle elezioni, né in proprio (quattro gatti non fanno una squadra in corsa per il parlamento) né dietro od a fianco di altri cosiddetti "vicini". E non fa neppure "campagna astensionista", in una sorta di elettoralismo al contrario. Insomma, dirà qualcuno "che se ne intende", non fa niente. Vediamo un po'.

E' una favola che i comunisti del nostro tipo (i comunisti "dogmatici" e "settari", secondo la vulgata; i comunisti veri, in poche parole) si disinteressino delle elezioni e non vi partecipino per una sorta di controproducente "meglio il peggio", facendo di tutta l'erba un fascio.

Non è così. In passato, nell'epoca della Seconda Internazionale, i comunisti (i "socialdemocratici", come si chiamavano, di allora) costituirono un'attiva forza anche elettorale. In quella fase storica era ancora possibile, ed anzi necessario, farlo, di supporto all'azione antagonista espressa, sul piano extra-parlamentare, dal partito e dai sindacati per strappare sul campo di lotta delle autentiche riforme a favore della classe operaia e sanzionarle in leggi parlamentari e, con ciò, rilanciare la lotta stessa. Di fronte ad una borghesia non ancora sufficientemente centralizzata, come avverrà poi nella fase imperialista, e in forza di una crescita progressiva della compagine di classe, la via elettorale, sempre intesa come direttamente legata e dipendente rispetto a quella extra-parlamentare, era effettivamente in grado di promuovere l'avanzamento della prospettiva socialista tra sempre più larghe masse di "popolo" non sfruttatore. A questa stregua, i progressi elettorali poterono sembrare a ragione ad Engels la premessa della costituzione di un esercito di classe che avrebbe reso più agevole, e se vogliamo indolore, l'inevitabile spallata "finale" (le famose "doglie del parto" socialista).

Lenin riassume: "Sfruttamento dei parlamenti borghesi a fini di agitazione… partecipazione al parlamento considerata dal punto di vista dello sviluppo della coscienza di classe, cioè del risveglio dell'odio di classe contro la classe dominante", e ciò in un'epoca, ormai definitivamente passata (Lenin scrive queste cose nel '20 riferendosi al periodo precedente la prima guerra mondiale), in cui "il parlamento, come strumento del capitalismo in ascesa, svolgeva, in una certa misura, un'opera storicamente progressiva". Capitolo definitivamente chiuso per le metropoli imperialiste alla data 1920, tanto più, pensiamo, a quella 2004. (In altre aree, interessate alla rivoluzione democratico-borghese, alla lotta di liberazione dall'imperialismo, il capitolo, seppure in termini diversi da allora, resta tuttora per noi aperto). Dopo di allora, e sempre in riferimento alle metropoli, il quadro tattico -ferma restando la ripulsa di principio nei confronti non solo della via parlamentare, ma della stessa concezione del parlamentarismo come ordinamento del potere socialista a venire- cambia radicalmente: "Nelle condizioni attuali di imperialismo sfrenato, il parlamento si è trasformato in uno dei tanti strumenti di menzogna, di inganno, di conculcamento e di snervante logorrea. Di fronte alle devastazioni, alle rapine, alle violenze, alle distruzioni, ai saccheggi imperialistici, le riforme parlamentari, private di ogni sistematicità, organicità e consistenza, perdono ogni importanza pratica per le masse lavoratrici… Oggi, per i comunisti, il parlamento non può essere in nessun caso l'arena della lotta per le riforme, per il miglioramento della situazione della classe operaia", "I parlamenti borghesi, uno dei più importanti ingranaggi della macchina statale borghese, non possono come tali essere durevolmente conquistati, come del resto il proletariato non può conquistare lo stato borghese in generale. Il compito del proletariato è di far saltare la macchina statale della borghesia, di distruggerla e, con essa, di distruggere gli istituti parlamentari, repubblicani o monarchici che siano".

Di qui la nuova tattica del parlamentarismo rivoluzionario, dell'utilizzazione della tribuna del parlamento come "uno dei punti di appoggio sussidiari" della lotta di classe extraparlamentare: l'attività parlamentare "consiste essenzialmente in un'agitazione rivoluzionaria dalla tribuna parlamentare, nello smascheramento degli avversari, nell'unificazione ideologica delle masse… interamente subordinata agli scopi e ai compiti della lotta di massa fuori dal parlamento". Sulla stessa lunghezza d'onda stava la proposta tattica dell'astensionismo rivoluzionario avanzata dalla Sinistra italiana nel quadro specifico della situazione di rottura sociale e politica in atto. 

Sarà dura per chi anziché all'armata a cavallo guarda alla disarmata in triciclo, ma così è per i comunisti degni di tal nome. Il "momento" della rivoluzione è passato? Vero. E' passato attraverso le deviazioni di percorso, che, via via, del "parlamentarismo rivoluzionario" di Lenin hanno salvato il puro e semplice elettoralismo, e cioè il lavoro organico parlamentare dentro e per lo stato borghese. La tattica del parlamentarismo rivoluzionario sarebbe oggi improponibile per chiunque per una semplice ragione: manca il soggetto in grado di praticarla. Noi non rimproveriamo a nessuno della "sinistra", più o meno estrema, di non adottare tale tattica, ma semplicemente di lavorare per principio in senso opposto alla prospettiva comunista. Tutto qui.

Questo non significa, d'altra parte, dare per perse le masse che tuttora accordano fiducia al riformismo ed all'illusione parlamentare. Le Tesi di Roma del PCd'I del '22 ne danno una brillante conferma: alle masse attardate attorno al PSI (all'epoca ancora degno della qualifica, per quanto poco brillante, di "riformista"), ma comunque masse in lotta, il PCd'I rivolgeva il seguente appello: se volete far la prova della bontà del partito in cui credete, pretendete sul serio da esso che si faccia garante dei vostri interessi, cercate di imporgli che i suoi programmi, le sue promesse siano conformi alle esigenze della vostra lotta. Mobilitatevi, e noi saremo coerentemente e costantemente al vostro fianco (inteso che, e lo si dice espressamente, i vostri capi si squaglieranno come neve al sole). Tale metodo di impulso alla lotta di classe generalizzata noi lo conserviamo tuttora: non chiediamo a nessuno di darci fede sulla parola e venire a noi, ma di lottare sul serio, di non rinunciare alle proprie forme ed ai propri istituti di lotta delegandoli alle sirene parlamentari, ma di tenerli fissi ed incrementarli. Il superamento dell'illusione parlamentare non avviene per via ideologica, ma su questo terreno concreto di lotta. Questo il senso del nostro permanente fronteunitarismo. (Che, però, aggiungiamolo subito, diverrebbe vagamente comico qualora ignorassimo che le condizioni attuali in cui versa la classe è "piuttosto" lungi dal dare segnali del tipo '22, sicché ogni appello attuale al proletariato perché "prema" sui "suoi" rappresentanti "riformisti" -non più tali- suonerebbe come una petizione astratta "di principio"; e non è proprio il caso… Se, oggi, fiammate di lotta anche significative ci sono, vedi l'ultima di Melfi, è sulla loro crescita e generalizzazione, sul nascere in esse e da esse di un germoglio di coscienza politica di classe, che si deve puntare perché da esse nascano le precondizioni di una tattica del genere, possibile nel momento in cui, senza con ciò passare immediatamente "dalla nostra parte", gli sfruttati in lotta realizzeranno la coscienza dei propri interessi e dei propri compiti, e si metteranno concretamente sulla strada della rottura non con il riformismo in generale -sempre risorgente a nuovo-, ma di sicuro con tutte le sue varianti pseudo-tali).

Perciò, senza staccarci di un solo millimetro ed in qualsiasi momento da ogni e qualsiasi manifestazione di lotta ("puramente" proletaria o di "movimento" che sia), noi comunisti non siamo in nessuna occasione per qualsiasi forma di ingannevole appoggio, ancorché "critico", a nessuna vecchia o nuova forma di parlamentarismo "di sinistra", od anche di "estrema sinistra". Nutriamo troppa certezza nell'esplodere dell'antagonismo di classe e troppa fiducia nei destini futuri di un reale movimento di classe per rischiare di comprometterlo in anticipo a suon di manovre e manovrette attraverso cui "proporci". Altrettanta scientifica certezza abbiamo in merito ai destini di tutte (ripetiamo: tutte) le "rappresentanze" parlamentari di classe attuali, il cui destino è o quello dei Noske o, nel migliore dei casi, dello smarrimento impotente (salvo che come anestetico paralizzante nei confronti della classe). Le uniche "riforme" di cui l'attuale "riformismo" è capace sono quelle di cui, qui, abbiamo già avuto buoni esempi: una stretta continua sulla pelle dei lavoratori all'interno, operazioni di guerra imperialiste all'esterno (vedi Jugoslavia più altre impresucole "minori"), il tutto sotto dettatura. La Voce del Padrone. Il "voto a sinistra" non ci commuove né ci mobilita; casomai ci interessa il fatto che, ad onta di ciò, un qualche segnale di ripresa di lotta con accenni di risveglio politico si manifesti nel concreto. I passaggi ulteriori sono per noi chiari e definiti, e non avranno nulla a che fare con una pretesa serie di "tappe" progressive e graduali in direzione del socialismo. Un ritrovato movimento di classe dovrà passare per balzi sul cadavere delle "sue" rappresentanze attuali.  

 

Dopo le recenti elezioni politiche in Spagna ha trovato da noi larga eco la leggenda che si trattava di una vittoria (elettorale!) del "movimento" e ci si aspettava un analogo effetto a catena in tutta Europa, Italia in primo luogo. Le cose, purtroppo, non stanno così.

E' stato certamente un fatto estremamente positivo, per non dire straordinario, che in Spagna, all'indomani del terribile attentato "islamico" che aveva insanguinato il paese, l'opinione pubblica, nella sua larga maggioranza, non si sia fatta incantare dalle sirene della mobilitazione "nazionale", "patriottica", patrocinata da Aznar, prima contro il presunto responsabile interno, l'ETA, o più in generale "i baschi", contro cui attizzare lo sciovinismo grande-castigliano, poi, con notevole ritardo, contro il "terrorismo islamico", cui far fronte con un rinnovato impegno di guerra a fianco dei sodali USA su scala ancor più larga di quanto non fosse l'area irachena. Il sentimento popolare ha respinto questo ricatto, nel primo caso non dando (e ben a ragione!) fiducia al falso premeditato anti-basco, nel secondo rovesciando sull'interventismo militare di Aznar la responsabilità dell'inevitabile contraccolpo subito in casa propria. Risultato non da poco davvero! Da qui si poteva, in linea teorica, e sicuramente si dovrà, ripartire per la definizione di un programma e di un'organizzazione antagonista di classe realmente antibellicista, e cioè anti-imperialista (a partire dalla lotta all'imperialismo del "proprio" stato). Questo, però, non è avvenuto.

Le anche larghissime manifestazioni "no war" si sono limitate, in sostanza, alla richiesta di un disimpegno dal fronte bellico, senza investire la sostanza del problema in questione, con una sorta di accentuato spirito neutralista ed una buona punta di presunto "praticismo" nazionalista anti-USA ("non è una guerra nostra", "non sono affari che ci riguardino"). Su questa base poteva benissimo starci, nel "movimento", una larga quota di fedeli al partito di Aznar che, alle urne, ha riconfermato l'opzione interna di destra, salvo il segnale inviato ad esso di sganciamento dagli USA. L'altra parte presente nel "movimento no war", su cui è confluita una fetta di aznariani scettici sulla possibilità di una riconversione "pacifista" del proprio partito, ha scelto l'"alternativa" Zapatero, ovvero "il meno peggio", quello che si mostrava più in grado di continuare a scala interna la politica del "miracolo economico" spagnolo, possibilmente senza eccessivi traumi sociali nei confronti dei "diseredati", e, a scala di politica internazionale, l'affermazione di un ruolo spagnolo indipendente, entro –se possibile- una cornice europea, senza gli oneri della guerra guerreggiata in Iraq, ma, di sicuro, senza intaccare di una virgola il carattere imperialista (pacifico, nelle intenzioni) dell'azione del proprio paese. Di fatto, con Zapatero non viene meno nessuno degli aspetti fondamentali di quest'azione, riaffermata (tra l'altro: in armi) in altri settori, a partire dall'Afghanistan, per il quale si promette un maggior impegno, per non parlare di tutto il giro di spolpamento (pacifico, si presume) del grasso altrui di cui la Spagna è specialista ai quattro lati del globo, a partire dall'America Latina. Quindi: nessun cambio sostanziale di rotta né sul fronte politico-sociale interno, né su quello internazionale, e il carattere assai poco vellutato di tutto ciò si misurerà a breve distanza di tempo.

Né poteva essere altrimenti dal momento in cui il punto di partenza, certamente vitale, dell'opposizione alla guerra in Iraq non si è tradotto in alcuna tangibile manifestazione di autonomia politica antagonista in grado di pesare per sé.  "Paradossalmente", la straordinaria ola no war si è tradotta, sul piano elettorale, in una sorta di convergenza verso un centro malamente colorato di rosa, deprimendo, anziché incoraggiare, le punte "estreme" a sinistra.

Che tutto questo venga qui da noi, da certo "radicalismo di sinistra" (campione fra tutti "Il Manifesto"), come una vittoria del "movimento" fa sorridere, se non piuttosto piangere. Il messaggio, abbondantemente esplicito, è questo: per affermare le ragioni del "movimento" bisogna trovare anche qui una linea Zapatero con molto "realismo", e senza "nessun estremismo". Una linea di "indipendenza" italiana ed europea dagli USA basata su una convergenza tra "tutte le forze progressiste" (tipo Prodi-Rutelli), per l'affermazione dei "nostri comuni interessi" nazionali ed europei (sempre imperialisti -ma è bene non dirlo- , però "pacifici" -e si vedrà,  lo si è già visto, dalla Jugoslavia all'Afghanistan alla Somalia etc., anche se "il bello" è ancora da venire). Il "movimento"? Faccia, "autonomamente", la sua parte di supporto a tale politica, senza pretendere ad una propria reale autonomia a tutto campo. La "Rivista del Manifesto" (n. 51, giugno 2004) ha già avuto modo di mettere in guardia contro certo "massimalismo" alla Rifondazione (!!!), per altro  "saggiamente ormai molto rivisto", ed il messaggio è chiarissimo per tutti.

La speranza dei sostenitori di questa sorta di linea Zapatero a scala continentale era che la forza del "movimento" potesse coagularsi attorno ad un blocco di "sinistra" euroindipendente (il famoso imperialismo "pacifico" pro domo sua). L'obiettivo era una vittoria di questa "sinistra" in Italia, Francia e Germania, innanzitutto, con una certa trascuranza per i paesi "gregari" (dei quali poi si vedrà). In Inghilterra, invece, andava punito il militarista pro-yankee Blair, ma senza poter indicare a quegli "elettori" una possibile "alternativa" a sinistra, in ogni caso fidando su un successivo "ripensamento" del Labour Party. Com'è andata?

In Francia il "modello" ha registrato un successo apparente. I socialisti hanno sorpassato la squadra di destra. Ma, va notato, lì non si trattava affatto di scegliere tra due posizioni alternative quanto alla guerra in Iraq. Destra e sinistra, del tutto concordi dal punto di vista degli interessi nazionali ed europei, costituivano, da questo punto di vista, un fronte unico, tant'è che qui da noi non si sono lesinati gli apprezzamenti a Chirac in occasione della presa di distanze dagli USA. Ciò che ha fatto la differenza sono state le considerazioni relative alla politica sociale interna della destra, estremamente punitive nei confronti dei soliti "sfavoriti" (non si parli mai di classe!). E questa è stata la ragione della vittoria socialista su cui si riversano le attese di un ammorbidimento nella politica sociale del paese. Speranza legittima, ma mal riposta, e, come in Spagna, manifestatasi nella più completa assenza di un protagonismo politico alternativo. Tant'è che, anche qui, la corsa verso il "meno peggio" ha penalizzato tutti gli "irresponsabili estremismi", da quello (!!!) del PCF a quello del tipo LO-LCR, che si sono visti prosciugato il bacino del voto di protesta passivo: una "sinistra alternativa" che non offre alternative se non sul piano dei giochi elettorali va inevitabilmente incontro a questo destino, perché la massa sfruttata lasciata senza un orizzonte proprio nei fatti della lotta e dell'organizzazione antagoniste finisce per forza di cose con lo scegliere la soluzione più "concreta" sulla linea del "minimo sforzo". Educata all'elettoralismo, si comporta alle urne col debito "realismo", come s'è visto.

In Germania le cose sono andate assai peggio. Schroeder risultava il campione acclamato, assieme a Chirac e… Agnoletto, del "pacifismo indipendentista" europeo, per giunta di conclamata "sinistra". Disgraziatamente, le "riforme" applicate in Germania dal governo SPD-Verdi, hanno provocato sulle masse sfruttate, di cui certi nostri "sinistri" si interessano a corrente alternata, una vera e propria doccia fredda. Gli interessi delle masse e quelli del governo della borghesia (checché se ne dica) si sono mostrati chiaramente divaricati. Ne è risultata una pesante penalizzazione della SPD, punita sul piano elettorale nei termini più netti senza però alcun segno di ritrovata autonomia di classe sul piano dei rapporti politici. Qui la tendenza al "meno peggio" si è manifestata, in termini elettorali, con uno spostamento a destra, secondo la stessa logica rivelatasi in Francia, sia pure a segni invertiti. La cosa è tutt'altro che misteriosa per chi segua i nostri criteri d'interpretazione. La parte giocata dal "movimento" a "correzione" di questa tendenza si è limitata a qualche percentuale in più assegnata ai Verdi in quanto sostenitori di un "più coerente (!!!) pacifismo" (quello, per intenderci, del ministro di guerra antijugoslavo Fischer). I conti del "positivo" di tutto ciò sono presto fatti.

Resta, naturalmente, l'attualità dei compiti che, in Francia come in Germania, incombono su quelle frazioni del movimento meno disposte a giocare di rimessa a favore delle soluzioni borghesi e ad esse spetta il compito di definirsi politicamente in senso anticapitalista globale, in quanto tale capace di inserirsi come fattore di direzione in ogni e qualsiasi movimento provocato dagli inevitabili effetti dell'imperialismo (a cominciare da quello di casa propria). Una buona spazzolata nei confronti degli spiriti "nazionali" ed "europei", una sana ripulsa del ruolo "particolare", "occasionale", cioè sostanzialmente marginale, assegnato al "movimento", una doverosa riconsiderazione del legame che necessariamente intercorre tra petizione di pace e petizione di "giustizia (noi diciamo: di emancipazione) sociale" è quel che occorrerà. Le occasioni non mancheranno e ad esse noi guardiamo con fiducia. Fiducia nel fatto che il "movimento" dovrà alla fin fine… muoversi sul serio in direzione di una linea antagonista di classe, di partito, da cui sin qui si è fatto di tutto per ritrarlo.

Cambiano le cose passando in Italia? Diremmo proprio di no, e su tutta la linea.

Non c'è dubbio che FI o, insomma, Berlusconi ha pagato un pedaggio abbastanza pesante. Ma il fattore-guerra vi è entrato assai relativamente. La Casa delle Libertà, nel suo insieme, sostanzialmente ha tenuto grazie all'avanzamento di tutte e tre le altre componenti (guerrafondaie al pari di Berlusconi). Ciò a cui si sta assistendo è, in sostanza, una ridefinizione dei rapporti di forza e dei ruoli all'interno del centro-destra che non resterà senza conseguenze di rilievo, ma che nulla ha a che fare con le pretese conseguenze di una sconfitta elettorale. Un certo calo di consensi per il Polo era addirittura scontato, ma questo non solo e non tanto per la politica "filo-USA" in Iraq, quanto per gli effetti della negativa congiuntura economica ed il giro di vite sociale (calo del potere d'acquisto, attacco all'occupazione stabile ed ai diritti sindacali, crescente senso di precarietà generale…). Che poi, entro la Casa delle Libertà, Berlusconi dovesse fungere da parafulmine del mugugno e della protesta di massa era ancor più scontato, data la sua mania a figurare come patron assoluto e data la nulla affidabilità dei figuranti di FI che gli fanno da contorno e che non costituiscono un partito in senso proprio, ma semplicemente una massa di manutengoli in affari, pronti, tra l'altro, a cambiar casacca al primo segno di crisi. E ne vedremo di topi abbandonare il massa la nave che affonda!

Non era altrettanto scontato che potessero "riequilibrare" le sorti della Casa i suoi alleati. Se ciò è avvenuto, si deve unicamente all'ossigeno loro fornito dalla controparte. La fobia antiberlusconiana "di sinistra", infatti, a misura che si è costantemente guardata dal "pericolo" di licenziare Berlusconi in piazza, facendosi carico di una reale mobilitazione di classe (e ciò per ovvie ragioni!) ed assumendosene, di conseguenza, gli specifici interessi antagonisti, ha cercato di aprire un dialogo coi suoi "più responsabili" alleati CCD ed AN nel tentativo di far implodere per questa via la Casa. Niente di strano, allora, che AN e CCD possano posare a rappresentanti nella Casa degli interessi "più schiettamente popolari" trascurati o vilipesi dal cavaliere e di quelli del negletto Sud, su cui il cavaliere sarebbe altrettanto sordo, stavolta in compagnia della Lega. E lo fanno, giova sottolinearlo, attraverso una struttura reale di partito, con tutta una sua rete complessa di fili "nella società".

Non è, purtroppo, azzardato riconoscere che tuttora una consistente fetta di "popolo" che ci appartiene per la sua oggettiva posizione sociale può continuare a votare in questa direzione, allo stesso modo che riconosciamo che, dall'altra parte, quella Ulivista e propaggini, si raccoglie sì la maggioranza di questo "popolo" che c'interessa, ma sempre alla coda e da supporto ai poteri forti della borghesia. Senza "conflitti d'interessi", senza "affari privati" attraverso la via pubblica come nel caso del personaggio Berlusconi? Ma su questo possono benissimo starci anche AN e CCD o Lega. Può benissimo starci, soprattutto, una moderna e superaggressiva borghesia, categoria fatta non di "personaggi", ma di interessi collettivi di classe, che più sono scevri da ogni lordura individuale, più costituiscono una macchina ben oliata di oppressione. Il "personaggio" Berlusconi, nel quadro politico attuale, presenta due volti: quello del coerente rappresentante della classe borghese nazionale e quello del caso "anomalo" personale con tanto di "conflitto d'interessi". Anche senza di lui, anche contro di lui, il primo di questi volti non cambierà, al contrario!, e non è detto che un eventuale ricambio si debba rivelare sotto tutti gli aspetti migliore neppure dal punto di vista borghese (nel mercanteggiamento in Europa contro i "direttòrii", nel tentativo di approccio strategico con la Russia e la Cina,  nello stesso rilascio di garanzie a pedaggio agli USA, Berlusconi ha sostanzialmente garantito gli interessi della borghesia italiana e può benissimo darsi che, su alcuni di questi punti, i suoi eventuali successori potranno addirittura compiere dei passi all'indietro dal punto di vista di questi interessi senza con ciò in nulla venire incontro ai nostri).

Chi sta voltando le spalle a Berlusconi, e per che scopi? Che ci abbiano pensato, nella loro maggioranza, i lavoratori è un dato di fatto, anche se in misura differenziata per settori (di tipologia e località) e non in maniera così totale come si vorrebbe far credere, visto il filo tra una loro parte e determinate forze della CDL. Che, comunque, questo abbia impresso il suo segno nel relativissimo e contraddittorio progresso ulivista va assolutamente smentito. L'"alternativa" a Berlusconi è promossa ed avviene precisamente sotto il segno dei poteri forti della borghesia. L'Ulivo trova addirittura da inneggiare alla "riconversione a sinistra" della Confindustria ed inneggia a Montezemolo (con appena qualche filo di dubbio a scorrere "Il Manifesto"). Commercianti ed artigiani idem. La Magistratura, nobile istituzione indipendente (???), non è da meno. La stampa dei padroni è all'avanguardia. I miliardari "onesti", tipo Soru, Illy, etc., capeggiano il "rinnovamento". E via di seguito. E i lavoratori, e il movimento? Aspettano e sperano o, nel migliore dei casi, si attrezzano per farsi "ascoltare", "rappresentare" e "pesare" (zero). Tutto bene, perché l'"anomalia personale" Berlusconi comincia ad essere ingombrante. Tutto bene purché, come avverte "Il Mondo", le forze del "rinnovamento" si diano in quattro nella "concertazione sociale", ma senza sognarsi di ricadere nel "consociativismo", visto che le "riforme" da fare, e sul serio!, incalzano e sono le stesse attorno a cui mal s'industria tuttora Berlusconi (sistema pensionistico, assetto del lavoro, normativa sindacale, etc. etc.).

C'è un di più. L'Ulivo così com'è oggi può rappresentare un tramite del cambiamento auspicato dai poteri forti, ma non certamente la sua meta conclusiva. Per quanto le forze di "sinistra radicale" si sforzino in ogni modo, al momento, di evitare ogni "sterile massimalismo", secondo i suggerimenti di Magri e soci, non potranno indefinitamente accodarsi alle misure antiproletarie che incombono e di cui, forse, esse neppure antivedono tutta la portata. Ciò rappresenta una mina vagante per la borghesia, e va disinnescata. Come? La soluzione è già in fieri. Si tratta di lasciar cucinare a fuoco lento questa sinistra "estrema", e all'occorrenza gli stessi DS, per preparare un blocco forte spostato verso il centro e fondato non solo sulle attuali sue componenti uliviste, ma sulla convergenza in esso delle forze centriste od anche destre "responsabili". Un colpo al cerchio berlusconiano ed uno alla botte di "sinistra", per far fuori entrambi e rafforzare il quadro del potere borghese.

Questa è l'aria che tira. E tira talmente bene che non solo c'è un (non tanto) sotterraneo rimescolamento di carte che parte da FI e va in questa direzione, ma tale "movimento" viene irresponsabilmente salutato come un "progresso" persino da coloro che sono destinati a lasciarci le penne. Così Bertinotti si fa immortalare in un affettuoso abbraccio con Casini ed oggi addirittura un Pecoraro Scanio lancia la proposta di un licenziamento parlamentare di Berlusconi che dovrebbe venire dalla stessa CDL in nome di un governo "tecnico" a presidenza Casini. Non male per un "alternativo", né come modalità né come contenuti!

E ritorniamo al "movimento". Come si è esso proposto sul piano della "competizione elettorale"? L'intenzione dichiarata dai "suoi" massimi esponenti era quella, come s'è detto, di "pesare", di trovare "modi nuovi di rappresentanza". Orbene, visto che, in nome dell'antipartitismo e dell'antipolitica "tradizionale", ci si è ben guardati dal mettersi in campo in prima persona, cosa impossibile data la "pluralità" e l'"autonomia" dei "soggetti"… rappresentati, non restava che scegliere la strada dell'auto-rappresentazione attraverso la via dei partiti e della politica "tradizionali" menopeggioristi. Di qui alcune candidature "eccellenti" per far sentire la voce del "movimento" dentro il solito quadro da cui non si scappa né si vuol scappare. Nell'Ulivo in nome della "pace" e "se non di un altro mondo possibile, almeno di un cambiament(in)o" (Benetollo dixit). E' ben vero che le parole ed i propositi di alcuni di questi candidati sono, su "singole questioni" astratte dall'insieme, tutt'altro che indecenti. Sulla partecipazione militare in Iraq Agnoletto ha espresso alcune posizioni corrette, Vattimo e Giulietto Chiesa ancor meglio (sino a spingersi alla demistificazione dell'ONU ed all'apologia della resistenza irachena... salvo, si capisce, finire sempre e comunque con il proporre l’Europa unita, e ben armata –ha aggiunto Vattimo- come la sola possibile “alternativa strategica” agli USA, facendo anch’essi blocco con tutti gli altri nell’escludere ogni autentica alternativa di sistema sociale rispetto al capitalismo). Ma che voce avranno queste posizioni nell'Ulivo? Nessuna, visto il "mal di pancia" da cui esso è stato preso all'indomani della risoluzione unanime del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e dell'ammorbidimento Schroeder-Chirac (poco intenzionati ad… astenersi dal boccone imperialista).

E allora? Autosilenzio in nome della "priorità" antiberlusconiana, o che cosa, se no? Il presente e, soprattutto, il futuro non lasciano alternative. Il "che cosa" sia da fare lo sappiamo noi, lo sanno i comunisti, lo saprà anche il "movimento" se saprà (ci ripetiamo) muoversi sul serio, sulle proprie gambe di classe, riannodando i fili tra antibellicismo e azione di classe come si conviene. O, altrimenti, saremo seppelliti dai Casini e dai Prodi o chi per loro. I passi ulteriori dovranno andare, perciò, in controsenso rispetto a quelli sin qui attuati attraverso una critica spietata di essi (diceva Marx: ogni rivoluzione critica continuamente sé stessa; ma rivoluzione, per intanto, deve cominciare ad essere).

"Il meno peggio"? Se esistesse, non lo rifiuteremmo. Ma come stanno realmente le cose? Prendiamo il numero di giugno de "Le Monde diplomatique - Il Manifesto", vangelo a quattro mani di certo "antiliberismo" e leggiamo qua e là: ""Molto rimarchevole". Romano Prodi... non ha lesinato le lodi nel giudicare il progetto di "riforma" dell'assicurazione sanitaria francese. E' anche vero che le misure francesi assomigliano a quelle assunte (o previste) in Germania o in Italia (centrosinistra, sinistra, destra…n.) e si inseriscono nell'ondata liberista sostenuta da Bruxelles (tutti uniti, tutti insieme, ma, scusa, quello non è il padrone?, n.). D'altro canto tali questioni -come quella della "Costituzione" o quelle dei servizi pubblici- sono state escluse dalla campagna delle recenti elezioni europee. Così i liberisti possono percorrere, tappa dopo tappa, il loro tragitto di privatizzazioni…" "Se i paesi europei ratificheranno il progetto di costituzione proclamando che uno degli obiettivi dell'Unione è quello di "offrire ai cittadini un mercato unico dove la concorrenza è libera e non distorta" e accetteranno un Accordo generale sul commercio dei servizi (già fatto, n.) liberalizzando la sanità, l'istruzione e la cultura, il resto diventerà relativamente secondario. E non sarà più importante il nome di chi vincerà le elezioni". Detto da non comunisti, e ci troviamo perfettamente d'accordo. Dove sta allora il "meno peggio"? Possiamo dire che sta dove sta il peggio: nella messa in catene dell'antagonismo di classe a pro dei risultati elettorali del liberismo "di sinistra".

 

Altro tema. Si è votato per l'Europa. Che Europa ne è venuta fuori? Sin qui abbiamo parlato dei paesi che più "pesano". Ebbene, al di là dei discordi risultati elettorali, una cosa è assolutamente certa: non si profila alcun quadro di maggior definizione e coesione di un contorno europeo. L'Europa unita (indipendente e "pacifica") tanto sognata "a sinistra" non ha ricevuto dalle urne, e in primis da ciò che sta dietro alle urne, alcuna spinta sostanziale. Restano tutte le vecchie divisioni, tutti i vecchi particolarismi che non riescono a mettersi assieme. In Inghilterra vince lo "spirito inglese" (suffragato dal successo, tra l'altro, di un partito dichiaratamente "isolazionista"). In Francia vince lo "spirito francese". In Germania lo "spirito tedesco". Chi potrà concentrare e centralizzare le forze sparse? Il cemento antiUSA, evocato a sinistra rispolverando vecchi arsenali di destra (ben più serii in quanto a coefficienti d'azione) non pare bastare. Una certa destra radicale, nazional-popolare, "sociale", vorrebbe chiamare a sostituto degli attuali poteri nazionali europei una "nuova Europa sociale" promossa direttamente dai "popoli", in chiave di union sacrée continentale; fantascienza (controrivoluzionaria), ma un tantino più seria che quella della "concertazione tra direttòrii" borghesi allo stato attuale. In ogni caso, si tratterebbe comunque di trovare uno o più centri nazionali in grado da far da volano centralizzatore. Il che significherebbe, né più né meno, sconvolgere gli attuali equilibri inter-europei; operazione che non si fa sul burro. Un'Europa Unita davvero forte presuppone un centro forte divenuto tale attraverso una drastica ridefinizione delle "autonomie nazionali", perfettamente impotenti, attuali. Vorrà pur dire qualcosa. Ne prendano nota gli europeisti di ferro!

Se poi andiamo a vedere cos'è successo nei paesi di nuova affiliazione, in particolare ad Est, il quadro si fa ancora più evidente. Il Primo Maggio i sindacati italiani e sloveni avevano festeggiato in comune a Gorizia il "crollo dei muri" e la ritrovata "casa comune". In quattro gatti, con i lavoratori sloveni rigorosamente assenti. Alle elezioni in Slovenia i lavoratori semplicemente non ci sono andati, preoccupati di una "casa comune" in cui entreranno da benvenuti alcuni miliardari indigeni, ma da cui essi si sentono e sono rigorosamente esclusi. Anche qui, e per le solite ovvie ragioni, nessuna alternativa in atto e, quindi, il segno soltanto di uno scetticismo e di una disaffezione diffusi che reclama una voce che rappresenti in positivo gli interessi degli sfruttati (e non sarà certamente quella dei sindacalisti di Gorizia o dei bravi partner di "sinistra" di qui). I sogni di una "promozione sociale" via Europa si sono rapidamente infranti dopo che in molti, anche nella classe operaia, blandita dalle sirene occidentali, ci avevano creduto. In Polonia, poi, si è assistito, sempre nel quadro di un voto largamente disertato, alla drastica amputazione dal governo di… "sinistra", degli ex-comunisti, delegati in un primo tempo a "rappresentare il cambiamento" rispetto alla calata di brache euroliberista di Walesa e soci, ed oggi pescati (ma guarda la novità!) ad essere i promotori di quella stessa politica, con in più la partecipazione alla guerra in Iraq, con tutto ciò che essa comporta: uno sconvolgimento sociale ed economico immane che investe soprattutto la campagna, da cui urge espellere una quota considerevolissima di popolazione da far ritrovare, nuda e disponibile, come forza-lavoro alle dirette dipendenze delle multinazionali eurooccidentali. Un terreno di "investimento" profittevole per queste ultime attraverso le delocalizzazioni, cui i "più abili" impresari ed affaristi polacchi possono sempre por rimedio… delocalizzando ancora più ad Est, come di fatto sta già avvenendo (col risultato di un'esportazione a catena della crisi in incubazione). Anche in questo caso, estensibile in qualche misura a tutti i paesi dell'Est di recente affiliazione all'Europa, la risposta immediata ai problemi sembra essere quella di una rivendicazione dello "spirito" e degli "interessi nazionali", ma in chiave di diretta contestazione contro lo stritolamento sociale imposto dall'Europa del capitale. Per quanto, ovviamente, questo "spirito" sia il più lontano immaginabile da una soluzione nostra, esso ci interessa sommamente in quanto indicatore di un acuirsi dell'antagonismo di classe e ci pare "ben strano" che nessun commentatore di "sinistra" lo abbia inteso, se non per imprecare contro la "scivolata a destra" in questi paesi. Se noi, al contrario, ci dichiariamo interessati in positivo alla questione, è per il fatto che questa acutizzazione del conflitto non potrà, in forza di fattori oggettivi, essere risolta da movimenti no Europa ("curiosa" versione antiglobal), ma dovrà mettere in campo un protagonismo degli oppressi in grado di accogliere per sé la sfida della globalizzazione. Il che comporta, dopo tanto cianciare di "unità europea" nell'empireo, una stretta di legami col movimento operaio delle metropoli occidentali in un comune fronte di classe

Per intanto va notato che in nessun paese al cuore economico-politico dell'Europa si è disegnato, in vista di queste elezioni, neppure a parole, un progetto comune unificante. Nessuna forza politica, nessuno stato europeo si è posto a quest'altezza (borghese, si noti), neppure nelle intenzioni. Tanti stomaci, tanti appetiti e basta. E’ curioso notare che per primi i nostri "ultrasinistri" parlamentari, pur così ubriachi di richiami all'Europa (con tutte le sue "radici sociali" alternative!!!), non sono in grado di spiaccicare parola su questo terreno. Sconfessata ogni prospettiva di classe, non sono neppure in grado di assumersi il compito (teoricamente possibile: social-imperialismo) di dar gambe a quest'Europa per camminare "indipendentemente". Resta, allora, la sola speranza che, di volta in volta, o qualche buon "sinistro" alla Schroeder o qualche buon destro alla Chirac giochino di rimessa contro gli USA. Un po' poco, come si è visto col repentino "rinculo" sull'Iraq, su cui si è passati tranquillamente dallo pseudo-pacifismo alla ridefinizione dei propri mai dimenticati interessi nella spartizione della torta sulle spalle dei soliti noti controllati e dominati.

 

 

20 giugno 2004

leggete