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15 luglio 2011

Il nostro volantino nei posti di lavoro

Contro l’accordo del 28 giugno  

Contro ogni patto di “salvezza nazionale”  

 

Il 28 giugno è stato firmato da Confindustria e Cgil, Cisl, Uil un accordo che ridefinisce le linee guida della contrattazione. Esso prevede:

L’accordo è una nuova arma nelle mani delle direzioni aziendali per imporre con maggiore facilità ritmi di lavoro e orari più gravosi, e per indebolire ulteriormente l’unità dei lavoratori, dato che l’introduzione di norme “in deroga” spiana la strada all’aggiramento del contratto nazionale e alla definizione di normative diverse azienda per azienda, territorio per territorio, settore per settore.

La Cgil ha giustificato la firma con la necessità di “uscire dall’angolo” dopo la stagione degli accordi separati, di ritrovare l’“unità sindacale”, di avviare una “nuova fase politica” di fronte all’“emergenza economica nazionale”.

Ma queste motivazioni non reggono!

L’unità tra i lavoratori è certamente un elemento fondamentale di qualsiasi battaglia sindacale e politica; purché “unità” significhi la reale ed effettiva coesione tra lavoratori, al di là delle divisioni di azienda, settore, territorio o generazione, al fine di ottenere più forza nelle lotte per il conseguimento di obiettivi comuni. Qui si tratta invece di tutt’altro: non unità fra i lavoratori nella lotta in difesa dei propri interessi, ma alleanza fra le direzioni sindacali al fine di venire incontro a Confindustria (e al possibile governo “di unità nazionale” che va profilandosi all’orizzonte) nel raggiungimento degli obiettivi aziendali e “nazionali” di produttività e competitività. Autorizzando la derogabilità in peggio dai contratti nazionali, questo accordo comporterà un’ulteriore frantumazione dei lavoratori su base territoriale, aziendale e persino individuale. Tutto ciò è l’esatto contrario dell’unità fra lavoratori, e renderà più difficile organizzarsi e dare una risposta collettiva agli attacchi che si preparano, a cominciare dai provvedimenti in cantiere per ridurre il debito pubblico.

Il governo, la Confindustria, la Banca d’Italia e i centri finanziari internazionali stanno motivando questi provvedimenti ripetendo ossessivamente il seguente avvertimento ricattatorio: “O il mondo del lavoro fa la sua parte, o l’Italia finirà come la Grecia”. Ma il modo migliore per prepararci a una simile eventualità non è certo quello di deporre le armi della lotta di classe: al contrario, è quello di organizzare le nostre fila e prepararci a rispondere con gli scioperi e la mobilitazione di piazza. Dalla Grecia e dai lavoratori greci ci viene proprio questo insegnamento: solamente con la lotta è possibile difendere i propri interessi e le proprie condizioni di vita.

È vero che, oggi, qui in Italia, i lavoratori sono spinti nell’angolo. È vero che è difficile organizzare una risposta di lotta collettiva ai continui ricatti delle aziende, ai piani di ristrutturazione e ai licenziamenti, allo stillicidio di colpi ai fianchi lanciati del governo, non ultimo quello sulla riforma federalista del fisco appena varata. È vero che pesa, sulla paralisi dei lavoratori, la minaccia della delocalizzazione in paesi in cui il costo del lavoro è più basso e gli spazi di organizzazione sindacale e politica dei lavoratori sono molto ridotti. Ma da quest’angolo si può uscire non rincorrendo, come prevede l’accordo del 28 giugno con il preambolo sulla competitività, ma solo riducendo ed eliminando la spirale della concorrenza al ribasso tra lavoratori di continenti, paesi e regioni diverse. Non si parte da zero! Se guardiamo al di là dei confini italiani ed europei, vediamo che in Asia, in Africa, in America Latina, i lavoratori hanno iniziato ad alzare la testa, rivendicando più alti salari, controllo degli orari, il diritto all’organizzazione collettiva di difesa. Nell’ultimo anno, i lavoratori della Tunisia e dell’Egitto sono stati i protagonisti di una sollevazione che ha cacciato due governi asserviti all’Occidente, due governi che, all’ordine degli stati occidentali, avevano, tra le altre, la funzione di mantenere la manodopera locale in catene al servizio delle multinazionali. Tale sollevazione è andata a toccare un nervo così vitale per la finanza e le multinazionali occidentali (gli stessi che intendono imporci nuovi sacrifici) che gli stati occidentali hanno scatenato contro di essa la guerra in Libia, l’aggressione contro il popolo libico.

Nelle assemblee di discussione dell’accordo del 28 giugno la denuncia dell’accordo va affiancata da una più generale riflessione su come, per organizzare una difesa di lungo respiro dell’intero mondo del lavoro, sia indispensabile alzare lo sguardo oltre i confini nazionali. Su quanto sia impellente cominciare a porsi il problema di tessere contatti e di solidarizzare con le lotte dei proletari e dei lavoratori che, come quelli egiziani e tunisini, si stanno battendo per la conquista di libertà sindacali e politiche e per la difesa e il miglioramento delle loro condizioni. In questa battaglia sindacale e politica, sono essenziali la denuncia e l’organizzazione di un movimento di lotta contro l’aggressione neo-coloniale alla Libia, lo schieramento incondizionato a fianco delle masse popolari che a Tripoli stanno resistendo contro i bombardamenti Onu-Nato. Il fatto che “qui da noi” non vi sia stata, finora, quasi nessuna reazione contro l’aggressione alla Libia, ha dato ulteriore forza al governo Berlusconi ed ai padroni nostrani, che adesso la rivolgono, sul fronte interno, contro i lavoratori d’Italia: non solo riscrivendo a proprio vantaggio le regole delle relazioni sindacali, ma anche scaricando su chi lavora i costi di una nuova manovra economica e blindando gli spazi di agibilità della vita sociale (come i fatti della Val di Susa dimostrano).

Accettare, come stabilisce l’accordo del 28 giugno, le parole d’ordine “più competitività, più produttività, meno conflittualità” ci porterà a deporre le nostre uniche armi, quelle della lotta di classe. E ci porterà ad attrezzarci nella maniera peggiore al dopo-Berlusconi. Questo atteggiamento, infatti, non farebbe che rafforzare un accodamento dei lavoratori a un eventuale governo di centro (di Casini, Montezemolo, ecc.) e del centro-sinistra, caratterizzato da un programma nella sostanza non dissimile da quello dell’attuale governo di destra - centrato com’è, anch’esso, sulla competitività e sul rilancio dell’“azienda-Italia”. Si sostiene che il rilancio della competitività dell’Italia permetterebbe di arginare la disoccupazione, la precarietà e di alzare i salari.  È un argomento che può sembrare realistico e concreto, ma la storia lontana e recente dimostra che all’aumento della produttività e della competitività aziendali non corrisponde affatto il miglioramento delle condizioni di chi lavora, ma anzi ne comporta una compressione materiale e politica. Al contrario respingere e organizzare la lotta contro le imposizioni del governo, della Confindustria e dei mercati internazionali, anche se comporterà una battaglia di minoranza, ci permetterà di creare le condizioni per un futuro rafforzamento e di porre le basi per una coerente e autonoma difesa dei nostri interessi di classe.

 

15 luglio 2011

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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