Sulla esecuzione di Saddam

L’esecuzione di Saddam, orchestrata dall’imperialismo Usa e attuata dagli ignobili burattini locali, è in primo luogo uno sfregio, una dimostrazione di tracotanza che si vuole sbattere in faccia ai popoli e ai lavoratori del mondo arabo-islamico e alla loro accanita resistenza antimperialista.

Attraverso di essa i veri dittatori del mondo hanno voluto ri-affermare la loro tradizionale minaccia: “Nonostante le difficoltà che stiamo incontrando nella nostra politica di schiavizzazione dell’area, l’impiccagione di Saddam indica la fine a cui va inevitabilmente incontro chi non si piega ai nostri ordini.” Lo hanno fatto con il solito marchio razzista, tutto bianco-occidentale-"cristiano", che in base ai suoi propri statuti, alle proprie carte costituzionali, ai propri “diritti universali dell’uomo”, ovvero in base ai propri supremi ed intangibili interessi di sfruttamento e di dominio alla scala universale, si arroga prima il diritto di stabilire e designare i “criminali”, e poi quello di giudicarli e punirli.

Tale diritto, fondato sul lascito materiale del colonialismo e sui mezzi di distruzione di massa a propria disposizione, è stato rivendicato in modo compatto dall’intero Occidente. E’ vero: alcuni governi occidentali, tra cui quello italiano, hanno espresso il proprio dissenso verso l’esecuzione di Saddam, considerandolo un “errore”. Ma la disputa su “pena di morte sì-pena di morte no” è stata solo e soltanto una disputa su quale sia il mezzo più idoneo per raggiungere lo scopo che tutti gli stati imperialisti e tutti i centri del potere finanziario e mass-mediatico occidentali stanno perseguendo (in concorrenza tra loro): come schiacciare la resistenza antimperialista delle masse lavoratrici dell’Iraq, della Palestina, del Libano, dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’intero mondo arabo-islamico? come arrivare a disporre a proprio piacimento della sua manodopera e delle sue risorse petrolifere?

Questa discussione e questa divisione fanno il paio con la discussione e la divisione che si aprirono nel campo dell’imperialismo nel 2003 circa l’opportunità dell’invasione dell’Iraq, quando le “colombe” Chirac-Schroeder, per raggiungere lo stesso risultato della “punizione del criminale” e della “liberazione del popolo iracheno”, opponevano alla via delle bombe, dei carri armati, dell’occupazione militare scelta dai falchi Bush-Blair-Berlusconi, la strada pretesa pacifica e incruenta delle sanzioni, dell’isolamento del regime e così via. Una discussione e una divisione che ruotano, quindi, solo e soltanto su come portare a termine il massacro e la schiavizzazione del popolo iracheno, che ha trovato uno dei suoi pilastri nell’embargo più che decennale, voluto e applicato da tutti i paesi imperialisti e dall’ONU, che ha assassinato più di un milione di iracheni, cinquecentomila dei quali bambini (e si ha ancora l’immonda ipocrisia di dirsi contrari alla pena di morte!).

L’imperialismo non è riuscito a piegare ai propri voleri Saddam e la maggior parte dei dirigenti del passato regime iracheno. In forza dei principi della dignità e della fierezza nazionali, Saddam e tanti dirigenti baathisti non si sono prestati alle avances degli occupanti rispedendo al mittente le macchinazioni che con un loro “pentimento” o ravvedimento sarebbero state imbastite da coloro che tirano le fila del comando. Questi ultimi, non avendo potuto utilizzare un Saddam vivo e riciclato alla Abu Mazen, ne espongono la testa appesa alla corda innanzi al popolo iracheno e alle masse lavoratrici islamiche per conseguire lo stesso fine: debilitare la resistenza popolare e soprattutto fomentare e seminare divisioni e fratture fra le masse oppresse dell’Islam, fra quelle di fede sciita e quelle di fede sunnita, fra quelle arabe, quelle curde e quelle iraniane.

La testa di Saddam rappresenta una carta che l’imperialismo lancia sul campo ove è impantanato per cercare di scongiurare la propria rovinosa sconfitta: seminare a man bassa, appunto, divisioni su divisioni; ordire trame in cui coinvolgere a turno, lisciandone e solleticandone i meschini appetiti, le varie borghesie (o apparati sotto-borghesi) nazionali; versare sale e acido sulle ferite aperte fra i popoli e gli stati dell’Islam che i regimi nazional-borghesi non hanno potuto e non possono, per la loro natura di classe, ricucire e superare.

Lo stesso caso di Saddam Hussein è esemplare in questo senso. Per meschini interessi pretesi nazionali, nel 1980 Saddam mosse guerra ad un Iran appena uscito dalla grande sollevazione popolare del 1979, che aveva detronizzato lo scià buttando giù uno dei principali bastioni imperialisti nella regione. Con quell’aggressione –ecco uno dei veri crimini di Saddam, sciaguratamente dimenticato da qualche romantico antimperialista di casa nostra- il rais iracheno si prestò ai disegni dell’imperialismo e dei regimi arabi terrorizzati dall’onda rivoluzionaria partita dall’Iran. Se quell’opera controrivoluzionaria non gli è valsa alcuna duratura riconoscenza nella “comunità internazionale” (dei lupi), ha però contribuito a riaprire una ferita dolorosa e profonda con la nazione iraniana e con le popolazioni sciite. Una ferita che ha pesato e continua a pesare enormemente dentro l’Iraq e dentro tutto il mondo islamico.

La guerra di Saddam all’Iran non fu una “svista”. Fu la coerente applicazione della politica nazionalista del Baath, che mirava a liberare la “nazione araba” dal dominio dell’imperialismo senza liberare il Medioriente e il mondo intero dal capitalismo da cui quel dominio deriva. E che si illudeva di poterlo fare attraverso l’impossibile inserimento del capitalismo iracheno e arabo in un mercato capitalistico mondiale reso più “equo e solidale” anche attraverso dei veri scontri con le centrali del potere dell’Occidente, quali furono realmente la nazionalizzazione del petrolio, il rialzo (nel 1973) del prezzo del petrolio e la cacciata (nel 1990) della monarchia kuwaitiana serva dell’Occidente.

Sul terreno delle divisioni tra le masse lavoratrici create dalla guerra tra l’Iraq e l’Iran e rinfocolate ad arte dagli stati occidentali “aprendo” ora a questa ora a quella borghesia nazionale (l’Italia, ricordiamolo, inviò il suo naviglio militare a “protezione” di Saddam quando a un certo punto, verso la fine di otto lunghissimi e terribili anni di guerra, l’Iran sembrava prevalere), l’imperialismo sta oggi spargendo copiosamente il suo sale: che gli oppressi di diversi paesi, di diverse razze, di diverse religioni siano e restino carne da macello, che restino divisi, separati senza una loro propria organizzazione, affinché la loro insopprimibile rivolta non si convogli verso i centri del capitale da cui deriva il loro stato di oppressione e miseria.

Con l’esecuzione di Saddam si tenta oggi di mettere in pista un altro giro di questa macabra danza sulla pelle degli sfruttati arabi, iraniani, curdi, sunniti e sciiti. Ora il regime islamico nazional-borghese di Teheran si compiace e si felicita della “giustizia fatta”, fingendo di ignorare che è proprio Washington, è proprio il Pentagono, è proprio il centro mondiale della “arroganza” –come a Khamenei e Ahmadinejad piace chiamare con grande delicatezza l’imperialismo- a tirare le file di tale “giustizia”, e si predispone ad usare gli sfruttati sciiti come massa di manovra per i suoi miserabili interessi nazionali nella contrapposizione in cui è impegnato verso l’imperialismo.

La china verso cui sta spingendo l’imperialismo e a cui prestano obiettiva sponda tutti i regimi borghesi dell’area (ognuno coi suoi miserabili interessi, tutti giocati e usati dal manovratore occidentale che a turno non esiterà a colpire), è quella della guerra fra sfruttati. Si ripropone così, su più vasta scala, lo scenario della guerra civile libanese degli anni ottanta.

Ma proprio nel Libano si è intravista questa estate l’unica strada percorribile per evitare il massacro fra proletari e la capitolazione all’imperialismo: la messa in campo di una resistenza popolare di massa unificata oltre le barriere religiose e nazionali. E si è intravisto quali enormi potenzialità per la lotta all’imperialismo siano racchiuse nelle masse lavoratrici del mondo arabo-islamico. La tragica esperienza del Baath iracheno mostra che la piena espressione di tali potenzialità richiede che i proletari e i diseredati del mondo arabo-islamico contino solo sulle proprie forze, senza affidare le loro istanze e la loro lotta alla direzione o alla collaborazione con le proprie classi borghesi (anche quelle capaci di una certa fierezza nazionale), richiede che essi si aprano la strada verso la conquista di una politica in grado di mettere nel mirino le basi della dominazione imperialista, i rapporti sociali capitalistici. Proprio per questo, lo scontro in corso in Medioriente sollecita le masse lavoratrici a superare i limiti delle organizzazioni che si fanno all’oggi portavoce delle loro istanze, da quella degli Hezbollah a quella di Moqtada al Sadr, da quella di Hamas alla stessa Al-Qaeda, tutte accomunate, pur nelle loro differenze reciproche, dalla condivisione dell’impianto nazional-borghese della lotta all’imperialismo caratteristico del Baath iracheno.

Questo compito chiama direttamente in causa i lavoratori occidentali, perché riguarda la loro stessa lotta di difesa dall’attacco capitalistico di cui sono anch’essi bersaglio, la loro stessa lotta di emancipazione sociale. L’aggressione bellica occidentale in Medio oriente e l’aggressione, incruenta per ora, alle condizioni e ai “diritti” dei salariati nei paesi occidentali sono due facce della stessa medaglia, e vanno respinte insieme. E possono essere respinte, a condizione però che non vi sia qui, da parte dei lavoratori, alcun sostegno al “punto di vista” dei governi occidentali, falchi o finte colombe che siano; a condizione che ci si scrolli di dosso finalmente l’indifferenza verso la resistenza di popoli che nelle più tremende difficoltà stanno combattendo anche per noi, stanno combattendo contro i nostri comuni nemici; a condizione che ci si torni a battere per il ritiro immediatosenza se e senza ma” delle truppe di occupazione occidentali dall’intero mondo arabo-islamico.

Negli anni scorsi tanti lavoratori e tanti giovani hanno manifestato contro la “guerra infinita” e gli altri effetti del capitalismo mondializzato. Si tratta ora di riprendere e rilanciare con ben maggiore convinzione e forza quella spinta vitale, superando "i se e i ma” che l’hanno frenata e devitalizzata dall’interno e che hanno permesso alle direzioni del centro-sinistra e alle loro appendici “radicali” di cavalcarla e di deviarla verso il sostegno della politica imperialista dell’attuale governo Prodi. Che spettacolo, quello offerto dai dirigenti del movimento no-global e no-war con la loro più o meno esplicita approvazione della posizione del governo Prodi sull’esecuzione di Saddam o, al più, con la loro “critica” per l’insufficiente autonomia, anche militare, dell’Italia e dell’Europa dagli Stati Uniti! Si tratta, al contrario, di denunciare e lottare contro la politica di oppressione portata avanti dal governo Prodi in Medioriente sotto le ingannevoli insegne della “interposizione tra i contendenti” e della “pace”. Si tratta di compiere un crudo bilancio delle ragioni che hanno portato il movimento no war e no global all'attuale deriva o all'attuale impotenza, di sviluppare l'analisi delle cause profonde della "guerra infinita" e di enucleare la coerente prospettiva richiesta dalla lotta contro di essa. Si tratta di appoggiare le lotte antimperialiste dei lavoratori e dei diseredati arabo-islamici -qualunque sia la loro attuale direzione- per aiutarle a superare il rischio mortale di una loro implosione e di avviare una discussione politica tra le due “sponde proletarie” del Mediterraneo sulla strategia con cui affrontare efficacemente il comune nemico imperialista e capitalista.

 1° gennaio 2007