Dopo i risultati delle elezioni

di medio-termine negli Usa

La “guerra infinita” è forse già finita?

 

I risultati elettorali di medio-termine negli Stati Uniti e la sostituzione di Rumsfeld alla guida del Pentagono hanno suscitato la speranza che la classe dirigente statunitense stia per accantonare la “guerra infinita” proclamata da Bush&C. all’indomani dell’11 settembre 2001. Questa speranza ne nutre a sua volta un’altra: che una gestione “multilaterale” delle vicende mondiali possa allontanare il rischio di nuove guerre a catena, e che tutto ciò possa andare a vantaggio, in un modo o nell’altro, dei lavoratori di ogni parte del mondo, a cominciare da quelli quotidianamente sotto le bombe.

Entrambe le speranze sono infondate.

Certo, il piano “unilateralista” e a marce accelerate di Bush-Rumsfeld segna provvisoriamente il passo. Davanti alla inattesa forza della resistenza irachena, afghana, libanese, e di fronte ai primi scricchiolii del consenso interno negli Stati Uniti generati, in parte, da questa resistenza, la classe dirigente yankee si è resa conto di dover aggiustare il tiro. Di dover fare, se necessario, anche un passo indietro per poi spiccare meglio il salto. E’ quindi possibile, non lo daremmo –però- per certo, che nell’immediato non ci saranno nuove escalation sul tipo dell’ultima aggressione di Israele al Libano. Ma le ragioni profonde della “guerra infinita” restano tutte in piedi.

Tali ragioni non sono legate alla famiglia Bush o alle lobbies petrolifere, e neppure ai soli Stati Uniti o al solo Occidente. Esse hanno radici nelle contraddizioni del capitalismo mondiale preso nel suo insieme avviluppato da trent’anni in una crisi irrisolta. Nonostante lo sfondamento ad Est del dopo-1989; nonostante l’ossigeno arrivato dall’impetuoso sviluppo dei giovani capitalismi asiatici (la Cina in testa); nonostante gli arretramenti a cui il proletariato dei paesi più ricchi è stato costretto; il sistema del capitale fatica sempre più a produrre la massa dei profitti di cui ha bisogno per rilanciare alla grande il suo processo di accumulazione globale, che è da anni e anni ansimante. E a rischio, in quanto si fonda da un lato sul crescente indebitamento delle famiglie e degli stati, dall’altro sulla crescente attività speculativa di imprese, banche e fondi d’investimento. La proclamazione a Washington e da Washington della “guerra infinita” è stata la presa d’atto che per sbloccare la situazione i metodi “pacifici”, il cappio del debito estero, il WTO e le misure neo-liberiste, non sono più sufficienti. Per forzare i limiti dello “sviluppo” servono i vecchi-nuovi metodi della guerra aperta e senza limiti del capitale globale contro il lavoro mondiale (e dei capitalismi “nazionali” gli uni contro gli altri).

Infatti, all’ordine del giorno, oggi e in prospettiva, non c’è solo il rafforzamento del monopolio occidentale sulle risorse energetiche e petrolifere del mondo musulmano. Non c’è solo la messa sotto controllo dello sviluppo cinese e asiatico, e la sua funzionalizzazione a quello delle potenze occidentali. Non c’è “soltanto” lo schiacciamento delle masse arabo-islamiche resistenti e del proletariato cinese e asiatico desideroso di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Ci sono gli stessi lavoratori dell’Occidente su cui i re della finanza mondiale contano di far pesare, più di quanto già non sia, il ricatto dell’enorme esercito di riserva delle “periferie”. Chiunque sieda al governo di Washington, di Berlino, di Roma, di questo si tratta.

Ecco perché i risultati elettorali di novembre non porteranno alcun cambiamento sostanziale di rotta né nella politica estera statunitense né nell’evoluzione della situazione internazionale. Semmai, la battuta d’arresto subìta da Bush&C., al di là dell’inevitabile confusione e incertezza del presente, può fucinare politiche ancor più aggressive. Sul versante Iraq, dove i McCain e i Giuliani sono per una guerra più risoluta agli iracheni. Sul versante del militarismo globale, dove il Pentagono e la Nasa hanno già elaborato piani di spesa (e di scontro) apocalittici. Sul versante israeliano, dove la sconfitta per mano di Hezbollah non ha certo moderato l’azione del governo; anzi, lo ha indotto prima a martellare Gaza e poi a imbarcare Lieberman, che è il massimo fautore della “soluzione finale” anti-palestinese. O sul versante italiano, dove una destra più aggressiva esalta in piazza come eroi i militari italiani morti a Nassiriya per mano della resistenza, e chiede a gran voce provvedimenti anti-islamici, preparando così il suo “popolo” alle guerre a venire.

Perciò: nessuna illusione di essere scampati al pericolo! La “guerra infinita” non solo non è finita, non è neppure sospesa. Il ritorno elettorale dei Prodi o dei democratici statunitensi non rappresenta alcuna vera svolta. In campo internazionale il “multilateralismo” dell’Italia di Prodi e di D’Alema vuole arrivare allo stesso obiettivo dell’“unilateralismo” di Bush e Cheney. L’Italia è altrettanto avida di bottino, ma non essendo adeguatamente attrezzata sul piano militare, preferisce, per ora, una via un po’ meno cruenta, più appropriata alle sue forze e all’intento di arruolare dietro il proprio carro imperialista i lavoratori italiani attraverso quell’ingannevole retorica della “pace” e della convivenza tra le nazioni che conduce immancabilmente alla guerra tra esse.

No. Nessuna illusione di essere scampati al pericolo! Massimo allarme, invece, verso le politiche di divisione e di contrapposizione tra sfruttati che in questo confuso intermezzo sono in netto rialzo alla borsa del capitale a stellestrisce e europeo, così come nelle classi sfruttatrici di tutte le aree del mondo. Queste politiche puntano, in Iraq, allo scontro frontale tra sunniti e sciiti, tra arabi e curdi. In Libano, sotto la copertura della missione Unifil II, a ri-accendere la guerra civile tra “comunità”. In Palestina, attraverso l’affamamento del popolo palestinese, a scatenare lo scontro fratricida tra la gente di Hamas e quella che segue ancora la corrottissima Olp. In Iran, a far “impazzire la maionese etnica” di cui è composto il paese. In Africa queste politiche hanno già prodotto effetti devastanti di lungo periodo (si pensi solo al Congo o al Ruanda), e si apprestano a dilaniare il Sudan. 

Massimo allarme per i veleni seminati dai governi occidentali per dividere e contrapporre i lavoratori musulmani dell’Asia centrale e i lavoratori cinesi, questi ultimi con quelli vietnamiti, per seminare zizzania tra i lavoratori centro e sud-americani sempre più affratellati nel comune sentire anti-imperialista, per mettere in concorrenza e lanciare gli uni contro gli altri i lavoratori occidentali e – soprattutto - questi con i lavoratori del Sud del mondo.

È solo su questo terreno che, contando sulla collaborazione delle vili borghesie compradore pronte a tutto pur di salvare i propri privilegi, le potenze capitalistiche occidentali possono far marciare i loro piani di guerra e di ri-spartizione del mercato mondiale. Ed è contro tale prospettiva che i lavoratori dei cinque continenti possono e debbono mobilitarsi lavorando all’unificazione degli sfruttati di tutte le razze e di tutti i colori. È questa l’autentica “bomba nucleare” che il capitale occidentale (e non solo quello occidentale) sta cercando di disinnescare preventivamente! Perché unendo le proprie forze i lavoratori potrebbero difendersi efficacemente dai ricatti del capitale mondializzato, fondati sulla possibilità di spostare impunemente i propri investimenti da una zona all’altra del globo a seconda delle condizioni in cui la manodopera è costretta a lavorare. E perché in questa lotta difensiva essi potrebbero aprirsi all’unico programma, alla sola ed unica via che può consentire l’uscita definitiva da tutti i mali sociali del presente: la riorganizzazione delle forse produttive del lavoro umano associato sulla base di un piano di reale cooperazione comunistica alla scala planetaria che metta fine alla competizione tra lavoratori e tra nazioni.

I centri di comando occidentali sono perseguitati da questo spettro. Comprendono che è lo stesso sistema di sfruttamento con cui terrorizzano il mondo a chiamarlo in vita. E ne vedono i primi lavori di sterro. Nel percorso di convergenza iniziato negli Stati Uniti tra le associazioni dei lavoratori immigrati e le strutture di base delle organizzazioni sindacali. Nelle proteste e nei tentativi di auto-organizzazione dei lavoratori immigrati in Francia e in Italia. Nella marcia comune (benché non certo facile) dei lavoratori britannici e degli immigrati di fede islamica in Gran Bretagna contro l’aggressione occidentale ai popoli mediorientali. Nei sentimenti di simpatia con cui i lavoratori dell’America Latina guardano alle lotte anti-imperialiste delle masse mediorientali, e viceversa.

Questa prospettiva di affratellamento tra i lavoratori dei vari continenti oltre le barriere di religione e di nazionalità non può essere affidata ai Chavez, agli Ahmadinejad, ai Nasrallah, alle borghesie nazionali meno disposte, all’oggi, al cedimento verso i veri dittatori del mondo, perché esse sono incapaci e indisponibili a portarla coerentemente fino in fondo, e spesso neppure a metà. I lavoratori debbono prenderla nelle proprie mani, organizzandosi ovunque in modo distinto e separato dalle rispettive classi borghesi. A questo sono chiamati a lavorare ai quattro angoli del mondo i più lungimiranti militanti della causa anti-imperialista e proletaria.