Un nostro volantino
Il centro-sinistra è di nuovo al governo: e ora?
Berlusconi ha lasciato la presidenza del consiglio. Due ex sindacalisti (Bertinotti e Marini) guidano Camera e Senato. Napolitano, proveniente dal vecchio PCI, è presidente della repubblica. Vari neo-ministri si lasciano andare a dichiarazioni “di sinistra”. Pur se di nuovo ai punti, l’Unione vince anche alle amministrative... A prima vista, può sembrare che le elezioni abbiano modificato a fondo il “quadro politico” e che il peggio, per i lavoratori, sia finalmente alle spalle. Ma le cose stanno davvero così? Noi pensiamo di no, per due ragioni. La prima ragione è che, nel paese reale,
c’è un blocco sociale, tutt’altro che sconfitto,
che intende dare continuità alla politica anti-proletaria portata avanti da Berlusconi.
Questo blocco sociale è costituito dai tanti padroni e padroncini, uomini d’affari, commercianti, faccendieri, liberi professionisti e parassiti d’ogni risma che nelle ultime elezioni si sono schierati con il Cavaliere. È vero che il voto di aprile ha sancito la vittoria dell’Unione. È altrettanto vero, però, che esso ha evidenziato anche una tenuta elettorale e soprattutto sociale del berlusconismo tra questi ceti sfruttatori e parassiti. Si tratta di quei ceti, in Italia molto vasti, che hanno tratto grande beneficio dalle politiche del governo di centrodestra e che dal 2001 hanno ingrassato il loro portafoglio grazie al supersfruttamento della manodopera immigrata, all’aumento dei carichi lavorativi e dei ritmi in fabbrica, al dilagare del lavoro precario e nero, ad una serie di misure fiscali e tariffarie volte integralmente a favorire le aziende e le classi possidenti. Essi formano un “blocco sociale” fortemente anti-operaio che vuole continuare su questa strada. Mano libera contro i lavoratori, meno tasse per le aziende, difesa della proprietà ed abbattimento delle spese sociali: questo, all’osso, il programma che queste classi sfruttatrici e parassite chiedono e su cui Berlusconi ha basato la sua rimonta finale nello sprint della campagna elettorale. Esse sanno che a contare davvero non sono le schede elettorale, ma i rapporti di forza stabiliti nei posti di lavoro e nella società. E su questa base, sono determinati a far pesare le loro esigenze sul nuovo governo. Lo hanno mostrato di nuovo, l’altro giorno, attraverso la contestazione ad Epifani degli industriali di Varese.
Il secondo fatto che dovrebbe tenere in allerta i lavoratori è che i grandi poteri capitalistici (Confindustria&C.) che si sono orientati a favore dell’Ulivo,
stanno già passando all’incasso.
Nelle elezioni di aprile, i vertici della Confindustria e della grande finanza, in contrasto con la “base” del mondo imprenditoriale, hanno di fatto appoggiato la campagna elettorale del centrosinistra. Ma perché hanno preso le distanze dal Cavaliere? Non certo per la politica di attacco ai lavoratori portata avanti dal governo di centro-destra, né a causa della compartecipazione dell’Italia all’aggressione contro l’Iraq. Il rimprovero a Berlusconi dei re della finanza e dell’industria è di aver favorito troppo alcuni interessi “corporativi” e “puramente speculativi” del capitalismo italiano (i Ricucci vari, per fare un nome) e di aver invece “trascurato” di sostenere in modo adeguato i settori direttamente sottoposti alla concorrenza internazionale. Adesso a Prodi si chiede (o, meglio, si ordina) di sanare questa “stortura”. Ma attraverso quale politica? Qual è la condizione che può permettere il rilancio del capitalismo italiano? Lo ha chiarito Montezemolo: per rilanciare la competitività delle aziende italiane sul mercato mondiale, occorre mantenere e inasprire la torchiatura del mondo del lavoro, occorre avere a disposizione dei lavoratori soli e disorganizzati davanti al dispotismo aziendale. Nessuna abolizione della legge Biagi o della Bossi-Fini, quindi. Al contrario, Montezemolo sta chiedendo che si allunghi l’orario di lavoro, che le direzioni aziendali possano disporre liberamente del tempo di vita e di lavoro dei lavoratori in funzione delle altaleanti esigenze di mercato. Al governo Prodi i grandi poteri capitalistici italiani, supportati da quelli internazionali, chiedono di realizzare queste misure e, per farle passare, di far smobilitare la embrionale ripresa di lotta realizzata dai lavoratori negli anni scorsi.
E il nuovo governo come risponde al duplice “pressing”?
Sin da subito Prodi si è dato da fare per rassicurare i “mercati” e gli investitori nazionali ed esteri.
Al ministero dell’economia (uno dei dicasteri chiave) è stato messo Padoa-Schioppa, un “tecnico” legato a triplo filo con la grande finanza internazionale. Nello stesso tempo, a più riprese, Prodi e i ministri “che contano” hanno ribadito di voler apportare alla politica economica del precedente esecutivo solo alcune modifiche, ma di non avere affatto l’intenzione di stravolgerne gli assi portanti. Provvedimenti come la legge Biagi sulla precarizzazione del mercato del lavoro o come la Bossi-Fini sull’immigrazione potranno anche essere modificate e mitigate nei loro aspetti più pesanti, ma ne verrà tutelata e mantenuta la sostanza di fondo. Ci potrà, inoltre, essere anche –forse- qualche piccolo (e transitorio) vantaggio fiscale per i lavoratori, ma... accompagnato da ben più rilevanti (e permanenti) misure a favore delle imprese e del loro comando dispotico sul tempo, i salari e la vita dei lavoratori.
In politica estera la continuità del nuovo governo sarà ancora più completa. Parola di D’Alema, colui che nel 1999, insieme con la Nato, guidò da presidente del consiglio i bombardamenti su Belgrado e la Serbia. Nel confermare, infatti, la decisione di “ritirare” entro l’anno le truppe dall’Iraq e di mantenerle, invece, in Afghanistan e nei Balcani (decisione peraltro già presa dal governo Berlusconi), D’Alema ha tenuto a precisare che l’Italia resterà comunque “un affidabile e leale alleato” degli Usa.
Si potrebbe obiettare: i Diliberto, i Pecoraro Scanio, i Bertinotti possono, grazie alle loro posizioni “radicali”, rappresentare un’assicurazione sull’azione di governo. È così?
Il loro passato comportamento induce a pensare tutto il contrario: tra il 1996 e il 2001 essi e i loro partiti accettarono sia il “pacchetto Treu” che la legge Turco-Napolitano, il “papà” dell’attuale legge Biagi e la “mamma” della Bossi Fini (i Verdi e il Pdci accettarono pure la guerra alla Jugoslavia…). Ma se per caso –è difficile, non impossibile in assoluto– questi partiti dovessero fare una qualche seria resistenza, riceverebbero dagli “azionisti di maggioranza” del governo (i Prodi, i Rutelli, i Fassino e, dietro e sopra di loro, i grandi potentati finanziari) un benservito immediato e senza alcun riguardo.
Come iniziare a voltare davvero pagina
Innanzitutto guardando bene in faccia la realtà e non riponendo alcuna fiducia, tanto più se passiva, nell’azione del nuovo governo.
Va respinto il ricatto, veicolato anche dai vertici sindacali, secondo cui nei luoghi di lavoro sarebbe necessario evitare ogni mobilitazione e mettere la sordina alle rivendicazioni dei lavoratori perché ciò metterebbe in difficoltà il governo Prodi e contribuirebbe così a riaprire le porte alla destra. Anche la storia degli anni più recenti ci racconta una verità opposta: è stata proprio l’azione dei governi di centrosinistra e, soprattutto, la contestuale smobilitazione della lotta e della forza dei lavoratori a preparare il terreno al ritorno di Berlusconi in grande stile nel 2001, dopo la sua cacciata nel 1994. Le conseguenze nefaste della logica sponsorizzata dai vertici sindacali si stanno vedendo già nei rinnovi contrattuali firmati di recente (ad esempio quello dei chimici), i quali, senza incontrare purtroppo una grossa opposizione tra i lavoratori, segnano punti a vantaggio del padronato nello sfibramento dell’unitarietà della contrattazione nazionale di categoria, che è uno dei pilastri del programma della destra e del padronato.
Ai lavoratori non conviene “non disturbare il manovratore”. La situazione li chiama, all’opposto, ad aprire bene gli occhi sui pericoli incombenti e a prepararsi ad organizzare un’opposizione politica di piazza alle “scelte” del nuovo governo. A preparasi a rifiutare con la lotta la richiesta di “sacrifici giusti ed equi per il bene del paese”, siano essi contenuti in una “manovra finanziaria correttiva” o proposti in altre salse.
Negli anni scorsi i lavoratori e i giovani senza santi in paradiso hanno dato vita ad una serie di mobilitazioni e di lotte per tentare di fermare i colpi del governo Berlusconi e del padronato. La manifestazione del 2002 contro l’attacco all’articolo 18, lo sciopero di Melfi, le manifestazioni contro la guerra, le lotte di Scansano e della val di Susa, la manifestazione di Milano contro l’attacco alla 194, le lotte contrattuali dei metalmeccanici hanno fatto intravvedere, pur con tutte le difficoltà,la forza potenziale di cui dispone la classe lavoratrice. Questa forza ora non va congelata. Va invece resa ancor più organizzata, oltre i limiti con cui è stata mobilitata negli anni scorsi e va dispiegata in una lotta di massa più estesa. E a tal fine, occorre anche porre all’ordine del giorno la costituzione di una nuova organizzazione politica, dei lavoratori e per i lavoratori: il contrario del partito democratico che Rutelli e Fassino stanno costruendo e che si preannuncia come una formazione politica in cui i lavoratori potranno far sentire la loro voce e la loro pressione ancor meno di quanto (pochissimo) già non avvenga oggi. Ci sia d’insegnamento quello che riserva ai lavoratori il partito democratico preso a modello dall’Unione, quello degli Stati Uniti. Serve, invece, un partito di classe, che abbia al centro del suo programma la difesa intransigente degli interessi dei lavoratori e che sappia farla pesare in piena autonomia dal quadro politico ufficiale. È questa l’unica via, non elettorale, non istituzionale, a disposizione dei lavoratori per far valere i loro interessi sul nuovo governo e sul padronato.
Salario, diritti, occupazione, lotta alla precarietà, lotta contro la guerra, tessitura di rapporti politici ed organizzativi con gli operai delle altre nazioni e tra lavoratori italiani e i lavoratori immigrati: è solo costruendo organizzazione e lotta nelle piazze e nei luoghi di lavoro su tutto ciò e a prescindere e contro le compatibilità e le necessità delle aziende, dei mercati e del “sistema Italia”, che si potrà davvero iniziare a voltare pagina.