No all'invio della forza multinazionale di "pace" in Libano! Viva la resistenza delle masse lavoratrici in Palestina e in Libano!  Il nostro volantino alla Marcia di Assisi

del 26 agosto 2006

 

Viva la resistenza delle masse lavoratrici

in Palestina e in Libano!

No all'invio di una forza multinazionale

di "pace" occidentale in Libano-Palestina!

 

L’appello che convoca la manifestazione di oggi plaude all’invio della missione internazionale in Libano. Molti tra coloro che negli anni scorsi hanno marciato per la pace “senza se e senza ma” guardano con favore a questa missione. Finalmente, si dice, siamo riusciti a fermare l’avventurismo degli Stati Uniti e di Israele, finalmente l’Italia sta recuperando un suo ruolo autonomo per stabilire una convivenza pacifica, nell’interesse di tutti, tra Israele e Libano e, forse domani, tra Israele e palestinesi.

Noi comunisti dell’OCI non neghiamo che ci sia un mutamento nella politica dell’Italia in Medioriente e che esso sia sgradito agli Stati Uniti. Gli amanti della “pace con giustizia” non possono, però, fermarsi a questa rilevazione. Occorre chiedersi: questo mutamento a cosa mira? porta davvero a favorire la creazione di una “pace con giustizia” in Medioriente?

I sostenitori della missione multinazionale dicono: essa serve per “separare i contendenti” e favorire un “accordo equo tra loro”.

Bene, ma chi sono i contendenti da pacificare, e per quali motivi si stanno combattendo?

Da un lato, abbiamo lo stato d’Israele, la cui politica mira a continuare l’espropriazione delle terre abitate dal popolo palestinese, a bombardare i popoli circostanti che, come la popolazione lavoratrice del Libano, manifestano solidarietà con la lotta dei palestinesi e lottano per i propri diritti sindacali contro le politiche d’austerità dei rispettivi governi. Israele non porta avanti questa politica solo per i suoi interessi di dominio capitalistico e colonialistico in Palestina. Lo fa anche per coadiuvare la politica delle grandi potenze capitalistiche d’Occidente finalizzata al mantenimento del saccheggio del petrolio e della manodopera dell’intera regione. Anche l’Italia, l’Italia dei re della finanza e dell’industria, è interessata al mantenimento di quest’ordine neo-coloniale, che costringe, tra l’altro, milioni di persone ad emigrare dall’Egitto, dalla Giordania, dal Kurdistan per cercare un lavoro a qualche euro l’ora nei cantieri, nei campi e nelle fabbriche dell’Europa per la gioia dei padroni e dei padroncini europei.

Dall’altro lato, abbiamo i lavoratori e i diseredati della Palestina, del Libano e della regione mediorientale, i quali si stanno battendo, come possono, contro questo bulldozer israeliano e imperialista, e contro la politica di capitolazione accettata così spesso dalle loro “classi dirigenti”, come nel caso di Abu Mazen per i palestinesi. Il fatto che questo secondo “contendente” trovi sempre più la propria bandiera nel radicalismo islamico esprime proprio questa volontà indomabile di lotta. Lo ha riconosciuto anche il ministro degli esteri D’Alema, che in un’intervista a La Repubblica (13 agosto) ha dichiarato:La gente nelle strade arabe simpatizza per i fondamentalisti, perché li vede come gli unici capaci di vendicarli, di ripagarli per le umiliazioni sofferte”. Dall’Occidente imperialista e dalle loro stesse vendute “classi dirigenti” oltre che da Israele!

 Da questa seconda parte della barricata, c’è inoltre da registrare quanto sta succedendo entro i confini d’Israele. Un settore della popolazione lavoratrice ebrea sta cominciando a comprendere che la costituzione dello stato d’Israele non ha rappresentato la soluzione del dramma vissuto dagli ebrei per le persecuzioni subìte in Europa (non nel mondo islamico!). Sta iniziando a comprendere che questa falsa soluzione ha implicato un costo enorme per le popolazioni della Palestina e che essa implicherà costi crescenti anche per la popolazione ebrea.

 

Parla un ebreo israeliano...

 

“Israele come stato ebraico costituisce un pericolo non solo per sé stesso e per i suoi abitanti, ma per tutti gli ebrei e per tutti gli altri popoli e stati del Medio Oriente e anche altrove”: a scrivere queste sagge parole non è un qualche orrido “anti-semita”, bensì Israel Shahak, un ebreo israeliano “nato in Polonia, deportato a Belsen e residente in Israele da oltre quarant’anni”, dunque “un sopravvissuto dell’olocausto”, che lo scrittore statunitense Gore Vidal definisce “l’ultimo dei grandi profeti” (il suo testo si intitola Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni, Centro Librario Sodalitium, 1997).

Le scrive in quanto considera lo stato di Israele uno stato fondato sull’apartheid nei confronti della popolazione araba, uno stato razzista e discriminatorio nei confronti dei non ebrei in generale come pure degli ebrei che non si riconoscono nello “sciovinismo ebraico”, uno stato fondamentalmente confessionale che ha nella “ideologia della Terra Redenta” un’ideologia utile ad espellere tutti i non ebrei dalla terra destinata a far nascere la “Grande Israele” entro non meglio precisati “confini biblici”; uno stato proteso, perciò, ad un indefinito processo di espansione e di colonizzazione.

La sua severa conclusione è la seguente: “il corpo sociale ebraico-israeliano ha solo due possibilità di scelta: diventare tutto un ghetto chiuso in guerra perpetua, una Sparta ebraica, fondata sul lavoro degli iloti arabi e mantenuto in vita dalla condizione di poter contare sull’appoggio economico-militare dell’establishment politico degli Stati Uniti e dalla costante minaccia delle armi nucleari, oppure diventare una società aperta” (pp. 31-2).

Ecco chi sono i contendenti:

da un lato i grandi poteri capitalistici,

dall’altro lato una parte del mondo del lavoro planetario.

A nostro avviso, non si può trovare un accordo tra gli interessi di questi due fronti contrapposti. Questa affermazione può sembrare pre-concetta e contraddetta dal fatto che l’intervento dell’Onu, anche per l’attivismo della diplomazia italiana, ha già messo un alt al tentativo di Israele e degli Stati Uniti di sbranare la resistenza della popolazione lavoratrice del Libano. Ora, è vero che Israele e gli Stati Uniti non hanno potuto “finire il lavoro”. Ma perché è successo questo? Perché, come ha scritto Caracciolo, “dopo settimane di polemiche intestine il governo Olmert ha preso atto che non poteva farcela da solo” (La Repubblica, 15 agosto). Perché ha incontrato un’inaspettata resistenza delle masse lavoratrici libanesi. Perché ha cominciato a vedere che il “fronte interno” si stava incrinando. Perché l’offensiva militare di Tel Aviv stava creando un movimento di solidarietà con il popolo libanese e palestinese nel resto del mondo arabo-islamico, molto pericoloso per la tutela degli interessi di saccheggio neo-coloniale di Israele e del capitale occidentale nell’area. Nella sola Baghdad, il 5 agosto c’è stata una marcia di un milione di persone contro l’occupazione occidentale del paese e contro l’intervento israeliano in Libano.

 Il governo Prodi-D’Alema vuole seguire una strada diversa da quella del duo Bush-Olmert ma per raggiungere lo stesso obiettivo.

Esagerazioni?

 Leggiamo con attenzione le dichiarazioni del neo-ministro degli esteri italiano.

 Egli afferma che occorre arrivare a disarmare gli Hezbollah, a sminare il radicalismo di Hamas, a sconfiggere il radicalismo islamico. Cosa vogliono dire queste parole? Che anche l’Italia vuole disarmare la resistenza delle masse lavoratrici che sono organizzate in queste formazioni politiche. La differenza con il metodo degli Stati Uniti e di Israele sta nel fatto che l’Italia intende arrivare a questo risultato con le “buone maniere”. Con il contenimento (a proprio favore) degli appetiti della borghesia d’Israele e con il rilancio dell’azione moderata e smobilitante dei settori borghesi libanesi, egiziani, palestinesi: abbiamo già sotto gli occhi il tentativo dei “pacificatori italiani” di coinvolgere le direzioni di Hezbollah o parte di esse nel “piano di pace”, di spingerle progressivamente dalle piazze nelle istituzioni, dalla resistenza alla desistenza, puntando a farne col tempo una banda di corrotti come l’Olp di Arafat. L’altra carta del piano di “pace” italo-europeo sarà, inoltre, la semina di discordie e rivalità tra le popolazioni del Libano e dell’area. Sarà l’applicazione nel Vicino Oriente del modello in corso di sperimentazione in Iraq e già sperimentato nella “ex”-Jugoslavia. Un modello di cui D’Alema è un gran intenditore...

Ammettiamo, quindi, che il piano di D’Alema-Prodi riesca. Sarebbe la pace?

Sì, sarebbe la pace della “ex”-Jugoslavia, sulla pelle dei lavoratori e dei diseredati libanesi e palestinesi, messi gli uni contro gli altri secondo le linee di divisione nazionale e religiosa di cui la storia del Libano è piena e che la resistenza di queste settimane attorno agli Hezbollah ha parzialmente cicatrizzato. Sarebbe la pace perché le masse lavoratrici del Libano sarebbero “convinte” a rassegnarsi ad un destino di miseria e di competizione reciproca con gli intrighi e le blandizie piuttosto che con le bombe all’uranio e al fosforo. Sicuramente, vista la debolezza dell’Italia nella competizione militare con gli Usa, una pace simile conseguita con “mezzi consensuali” darebbe ai grandi poteri capitalistici italiani (non ai lavoratori italiani) una fetta maggiore del bottino neo-coloniale tratto dall’Occidente in Medioriente.

Ma sarebbe una pace con giustizia?

I lavoratori del Libano e della Palestina dovranno difendersi da questa missione multinazionale, dalle sue manovre politiche di moderazione e di divisione prima ancora che dai suoi proiettili. Sappiamo che la gente comune del Libano sta, invece, considerando positivamente tale missione e soprattutto la forte presenza italiana. Ma questo accade solo perché essi, malvisti come sono dai governi arabi filo-occidentali e privi della solidarietà derivante dall’unificazione delle resistenze e lotte -ancora separate- in corso in Medioriente, vedono nella missione Onu un sollievo rispetto ai bombardamenti delle settimane scorse. È vero, dunque, che i popoli del Libano e della Palestina “ci” chiedono di andare. Spetta, però, ai lavoratori d’Italia e a coloro che vogliono lottare davvero contro la guerra denunciare, in modo inequivocabile, le reali finalità imperialiste della missione multinazionale e promuovere la mobilitazione di massa contro di essa.

Senza contare, poi, che il piano craxiano-andreottiano portato avanti da D’Alema-Prodi sarà di difficilissima realizzazione, perché gli interessi delle multinazionali e della finanza occidentali, anche italiani, non possono offrire altro che promesse ai lavoratori del Libano e dell’area mediorientale, e quindi non potranno arrivare a tacitarne l’insubordinazione e le lotte. Ci sarà bisogno allora di tornare alla guerra vera, quella voluta oggi soprattutto dagli Stati Uniti e da Israele. E, questa volta, a scala più ampia, almeno fin verso l’Iran. La missione Onu in Libano, nel frattempo, sarà servita ottimamente per illudere le masse lavoratrici mediorientali e farne smobilitare la carica di lotta.

Il problema da affrontare non è, quindi, quali siano le migliori regole d’ingaggio per realizzare il piano di “pace” di D’Alema-Prodi, se mandare un contingente armato oppure disarmato. Il problema è che i lavoratori d’Italia hanno interesse a schierarsi con le ragioni di uno dei contendenti, come si è cominciato ad affermare alla enorme manifestazione multi-nazionale di Londra del 5 agosto. Nella capitale inglese, oltre centomila manifestanti non hanno detto solo “Basta con i bombardamenti sul Libano!” ma anche Sosteniamo la resistenza palestinese e libanese! La loro lotta è la nostra stessa lotta!. È la “nostra stessa lotta” perché gli sfruttati mediorientali e i lavoratori d’Occidente sono attaccati dallo stesso nemico, l’ordine economico voluto dai mercati finanziarii e dalle multinazionali su tutto il pianeta, in Medioriente e in Occidente. È la “nostra stessa lotta” perché in entrambi i casi c’è il comune interesse ad un “altro mondo”, diverso dal (dis)ordine capitalistico che ci attanaglia.

L’aspirazione che ha animato la gente protagonista delle giornate di Seattle e di Genova, e dei Social Forum è più che mai attuale, ed essa richiede, però, la costruzione di quell’unità di lotta tra lavoratori d’Occidente e sfruttati e popoli del mondo islamico e del Sud del mondo che finora non siamo riusciti a portare avanti. Non ci siamo riusciti per le incoerenze che presentano le politiche delle direzioni antimperialiste del Sud del mondo, da quelle degli Hezbollah a quelle “chaviste”? Sicuramente, anche se tali incoerenze sono interne ad una lotta vera e ammirevole, che, da ultimo nel caso degli Hezbollah, ha saputo legare l’azione di solidarietà verso i palestinesi aggrediti a Gaza, la resistenza eroica per oltre un mese alla macchina da guerra israeliana e l’organizzazione di una rete solidaristica tra gli sfruttati libanesi. Ma non ci siamo riusciti soprattutto perché qui in Occidente ci si è ritratti dalla mobilitazione degli anni scorsi, in primo luogo quella contro la guerra di aggressione al mondo arabo-islamico. E perché, nello stesso tempo,  si stenta a dotarsi, anche in un nucleo di lavoratori, di un programma e di un’organizzazione in grado di lavorare coerentemente per la costituzione del fronte internazionale dei lavoratori contro il capitale globalizzato. Delegare alla missione Onu e al governo Prodi-D’Alema il nostro intervento in Medioriente è un ulteriore passo indietro su questa strada, l’unica che permetterà di costruire, contro il capitalismo, un nuovo mondo possibile.

È urgente riprendere il confronto su questi temi e rilanciare una mobilitazione di massa contro la missione di “pace” in Libano e contro la guerra dei trent’anni dichiarata dall’imperialismo al mondo islamico, anche in preparazione di una futura resa dei conti con la Cina. Questo confronto e questa mobilitazione, inoltre, non possono rimandare di assumere il compito altrettanto urgente di denunciare e opporsi al volto interno della “guerra dei trent’anni”, la campagna d’odio in corso contro i lavoratori immigrati in Europa, soprattutto contro quelli di fede islamica.

25 agosto 2006