La sola via di uscita,
per i lavoratori
Come hanno reagito i lavoratori al crack della Parmalat?
Il primo sentimento di molti è stato lo schifo per l’incredibile ampiezza e per le modalità del furto continuato e aggravato messo in atto da questa irreprensibile e cattolicissima "famiglia-modello" del capitalismo nostrano, o meglio: padano (nevvero, Bossi?). A questo sentimento, però, è via via subentrato un senso di preoccupazione per ciò che il disastro Parmalat rappresenta per l’intera economia italiana, per le conseguenze che l’evidente declino dell’industria nazionale (Italsider, Sir, Ferruzzi, Olivetti, Fiat, Cirio, Alitalia...) ha sul futuro dei lavoratori. Se ne è fatto portavoce il segretario della Cgil Epifani col dire: "Il paese è in ginocchio". "Fino a 10 anni fa -ha aggiunto- il rischio era quello di avere un terzo di esclusi. Oggi non è più così. Oggi sembra che questa piramide si sia rovesciata e che ci sia soltanto un terzo della popolazione che sta bene, mentre un altro terzo è povero e la parte restante rischia" (la Repubblica, 2 febbraio 2004).
Non ci interessa qui ricordare che per anni, con tenacia, sbeffeggiati per il nostro "catastrofismo", abbiamo continuato a ripetere che si stava andando esattamente (e non soltanto in Italia) in questa direzione, mentre ora perfino Scalfari nota un rischio-proletarizzazione per i ceti medi. Ci interessa, invece, la conclusione politica del discorso di Epifani: poiché il nostro sistema industriale versa in gravi condizioni e poiché il governo Berlusconi non sa arrestare questo degrado, "tocca a noi [al movimento dei lavoratori, cioè] sostenere la rinascita del paese" (l’Unità, 21 febbraio 2004). Come? Con "una politica industriale degna di questo nome" e, al contempo, con un’"agenda delle priorità sociali" sentite dai lavoratori, rilanciando, anche con gli scioperi, se necessario, la concertazione tra sindacati, imprese e governo.
A fronte di un continuo taglieggiamento dei salari, del dilagare della precarietà e di un governo Berlusconi che sta mettendo in cantiere il trasferimento sull’intera massa dei lavoratori delle perdite subìte da Parmalat e dalle banche, è possibile che una parte significativa della classe lavoratrice aderisca alle iniziative che la Cgil assumerà nei prossimi mesi. Specie se, come forse avverrà, anche il duo Pezzotta-Angeletti, preso a pedate da Tremonti e soci dopo la firma del "patto per l’Italia", non potrà fare a meno di essere della partita. In queste iniziative ci saremo anche noi in totale solidarietà con le aspettative di operai e salariati di incominciare a riprendersi qualcosa del tanto maltolto; ci saremo, però, anche per invitarli a discutere a fondo sulla prospettiva che i vertici dei sindacati e dell’Ulivo propongono loro come alternativa al berlusconismo. Una "alternativa" che è tale solo sulla carta, mentre non è assolutamente in grado di consentire ai lavoratori di risalire la china.
Che cosa comporta, oggi, in uno stato di crisi dell’economia italiana più grave che nel 1993, il rilancio della concertazione?
Comporta anzitutto (lode a Valentino Parlato per averlo detto senza peli sulla lingua!) "difendere il sistema bancario così com’è", ad iniziare da Bankitalia (il manifesto, 22 febbraio 2004). Perché se noi sinistra, se noi lavoratori non lo difendessimo, se contribuissimo a delegittimarlo, ci esporremmo ad "una serie di crisi, fallimenti e disoccupazione". Dunque, occorre "difendere il vizio per salvare il lavoro", come a dire: occorre difendere il boia (proprio quella "autorità" che da tre decenni guida l’attacco al mondo del lavoro) per... salvare la pelle. E occorre farlo avendo a riferimento (leggete l’articolo, se non ci credete) l’Iri del duce e di Beneduce, ovvero la socializzazione delle perdite del capitale in una prospettiva di rilancio dell’economia nazionale a guida statuale, che fu un rilancio bellico -non crediamo si possa dimenticare questo piccolo particolare- di essa (lasciamo stare come poi andò a finire). Viceversa, se si continua a "massacrare il sistema bancario", si fa solo dell’auto-lesionismo. Questo, detto da quella che fu un tempo la "estrema" sinistra! Ma la difesa di Bankitalia e del sistema bancario in genere è un motivo centrale di tutti gli esponenti dell’Ulivo, a cui un Rutelli, e non solo lui, aggiunge la difesa delle imprese e dei risparmiatori, proponendo un "patto" tra questi due soggetti e i lavoratori.
L’idea del "patto" tra capitale e lavoro è l’architrave anche di quella concertazione che Epifani vorrebbe rilanciare. Ma se siamo arrivati a questo punto (un terzo di lavoratori poveri e un terzo a rischio di povertà, secondo lo stesso segretario della Cgil, in un paese che, comunque, è tra i più ricchi del mondo), lo si deve anche, e non poco, alla "concertazione" a cui per più di un decennio si è piegata auto-lesionisticamente la classe lavoratrice. L’intesa del luglio ’93 (era in sella il governo Ciampi) ha prodotto la "sistematica compressione dei salari reali" attraverso uno strumento molto semplice: il riferimento dei salari monetari al tasso di inflazione programmata, un tasso posto per decreto al di sotto di quello effettivo. La scala mobile rovesciata. Risultato? A stare agli stessi dati di Bankitalia, i salari netti si sono ridotti tra il 1993 e il 2000 del 5,2%, mentre la quota del pil destinata ai lavoratori, nel frattempo cresciuti di numero, si è ridotta dal 72,7% al 68,1%. Certo, in questi ultimi due-tre anni il calo dei salari è stato ancora più sensibile, ma questo è stato il risultato di un decennio di auto-contenimento delle rivendicazioni e delle lotte dei lavoratori; un decennio in cui la classe lavoratrice ha accettato di subordinare i propri interessi (salario, orario, salute, istruzione, libertà di organizzazione) a quelli delle imprese, del mercato, della nazione. E ne abbiamo pagato un prezzo salato, sia in termini di condizioni di lavoro e di vita che in termini di rapporti di forza con la classe sfruttatrice.
Oggi i lavoratori italiani non sono solo più a corto di soldi e più sovraccarichi di fatica che nel 1993; sono anche più divisi (le divisioni tra Nord e Sud sono cresciute in ogni campo) e più deboli. Ecco il bilancio tutto in negativo di un decennio abbondante di "concertazione" con padroni e governo, il cui rilancio si presenta oggi ancora più "a perdere", per i lavoratori, di ieri.
Non è un caso, crediamo, che tutte le iniziative sindacali "generali" degli ultimi tempi, nonostante il trionfalismo delle cifre ufficiali, siano state piuttosto fiacche per numero di partecipanti e più ancora per il loro grado di convinzione e di combattività. Come se in molti aderissero all’invito dei vertici senza crederci però più di tanto. Una sorte toccata, nel tempo, anche alle giornate di lotta indette dalla Fiom, il cui vertice ha chiamato alla mobilitazione per la riconquista del contratto nazionale e per un primo recupero salariale una base reattiva, ma sempre più perplessa dinanzi alla mancanza di una chiara prospettiva di lotta e della necessaria determinazione. Non può bastare, infatti, evocare, come fa Rinaldini, "una nuova linea di piena autonomia rivendicativa del sindacato, sostenuta da un progetto economico e sociale radicalmente alternativo al liberismo", se poi di un simile "progetto" non ce n’è neppure l’ombra e se tutta l’azione della Cgil, Fiom inclusa, continua ad avere a suo riferimento "la rinascita del Paese", ovvero la maggiore competitività del capitalismo "nazionale". Poiché, se è questo il quadro entro cui muoversi, lo spazio per affermare le "priorità sociali" sentite dai lavoratori è ridotto al lumicino.
Il prezzo della rinascita nazionale
Ecco il nocciolo della questione. In un mercato mondiale sul quale infuria una feroce competizione senza esclusione di colpi tra mega-imprese e mega-stati, il "vaso di coccio" del capitalismo italiano ha una sola possibilità di non essere ridotto in frantumi dall’urto con i vasi di ferro: torchiare senza pietà la propria forza-lavoro, autoctona e immigrata. Si ricordi il discorso fatto qualche mese fa da Berlusconi a New York: "venite in Italia tranquilli, investitori internazionali; l’Italia è un paese di seri lavoratori e di belle segretarie senza più comunisti", cioè senza più diritti per i lavoratori. Detto tra il serio e il faceto com’è nello stile dell’uomo, è questo il programma di tutto l’establishment imprenditoriale e bancario italiano, con Bankitalia in testa: è ben per questo che l’Italia si è dotata di leggi anti-immigrati che producono "clandestinità", e dunque lavoratori ultra-ricattabili, e di leggi anti-operaie "di altri tempi" quali la Biagi. Il declino del capitalismo italiano può essere arrestato ed invertito solo ed esclusivamente per mezzo dell’affossamento dell’organizzazione dei lavoratori e partecipando alle guerre contro i "popoli canaglia" ribelli all’ordine internazionale vigente (ancora una volta è il cavaliere a dirlo con maggiore chiarezza). Questa è la lezione dei fatti, e i lavoratori più energici e lungimiranti non possono tardare ulteriormente a riconoscerla.
La riconquista del terreno perduto negli ultimi anni, la ripresa, il rilancio, la rinascita, la riorganizzazione della classe lavoratrice può darsi solo con la totale contrapposizione di lotta al programma ed alle politiche di rilancio dell’economia nazionale. Una prospettiva impossibile? Non lo crediamo. Da qualche mese a Scanzano, tra gli autoferrotranvieri, all’aeroporto di Roma, a Terni, a Genova è cominciato a soffiare un vento nuovo, un inizio -niente più di questo- di autentiche lotte condotte con una determinazione diversa dal solito, fisse all’obiettivo (ancorché si trattasse di obiettivi limitati), realmente partecipate, non irregimentate dalle norme strozza-sciopero, e che proprio per queste loro caratteristiche hanno raccolto intorno a sé la simpatia di larghi strati di lavoratori non direttamente coinvolti e perfino -in apparenza- "danneggiati" da esse. Nessuna di queste lotte si è coscientemente contrapposta alla logica disastrosa della concertazione, ma in esse si è manifestata una nuova fiducia degli sfruttati nella propria forza e nell’efficacia dell’azione diretta e improvvisa. Questa fiducia può essere, se si generalizzerà, una buona premessa per gli scontri a venire, il caso Parmalat incluso.
Ma essa da sola non basta.
Occorre reagire alla frammentazione localistica del movimento di lotta, verificatasi anche nel corso della agitazione degli autoferrotranvieri. Occorre respingere ogni forma di contrapposizione tra le genti del Sud e del Nord, pericolo non proprio assente nelle reazioni alla lotta di Scanzano e molto presente in tutta la vicenda Fiat. Occorre immunizzarsi dai veleni "anti-stranieri", visibilissimi con orridi slogan contro "lu tedescu" (e i tedeschi) nella imponente mobilitazione di Terni, e seminati all’impazzata contro "i cinesi" dall’ennesima fangosa campagna leghista. Occorre fare di tutto per integrare a pieno nel movimento di classe la forza fresca, potenzialmente assai grande, dei lavoratori immigrati, in prima linea nella ripresa della sindacalizzazione, e che stiamo nondimeno lasciando soli sia davanti all’incrudimento delle prassi di controllo e di repressione, che davanti alle sirene di Fini&C. Occorre prendere atto che il nemico che ci attacca è, come è, internazionale (pensate allo schieramento bancario che vuol rivalersi delle perdite Parmalat, o alle decisioni anti-operaie in materia di pensioni e di normative repressive prese a Bruxelles da Prodi e soci), e che quindi anche la nostra risposta, per difficile che sia il costruirla a questo livello, non può che essere internazionale. Occorre svincolarci dalle catene delle "compatibilità nazionali" e "aziendali" che ci soffocano, relegando in soffitta l’impossibile e perdente concertazione per riscoprire, invece, il senso, il valore, la necessità della lotta di classe organizzata in modo autonomo dal capitale. Occorre che il fulcro operaio e proletario di questa autentica ripresa della lotta si ponga, come e più che nel ’68, quale riferimento dello scontento e delle paure che stanno maturando nel processo di "proletarizzazione" che coinvolge parte delle classi medie, evitando che essi divengano nuovamente la benzina con cui il capitale possa appiccare il fuoco alle postazioni del movimento operaio. Occorre convincersi che per poter assolvere a questi compiti abbiamo bisogno, come lavoratori, di riorganizzarci in partito, un partito di classe vero, non una palestra per arrampicatori sociali (sulle spalle dei lavoratori) quali sono gli attuali partiti della "sinistra".
Occorre, occorre, occorre... Sì, inutile girare intorno alle cose, c’è un gran lavoro da fare e sarebbe il caso di darsi una mossa!
Sul tema del declino dell’Italia e del capitalismo mondiale rimandiamo i lettori al dossier pubblicato nel n. 29 del che fare (gennaio-febbraio 1994) dal titolo: "Dove va l’Italia? Crisi ‘italiana’, crisi mondiale del capitalismo: il proletariato può uscirne in un solo modo, "uscendo" dal capitalismo". Il dossier può essere scaricato dal sito o richiesto direttamente nelle nostre sedi. |