Cosa promette Prodi,
e cosa possiamo aspettarci realisticamente dal suo governo.
La gran parte dei nostri più ravvicinati interlocutori, lo sappiamo, ha già scelto: senza l’entusiasmo di altre elezioni, ma con convinzione, andrà a votare per Prodi, o in ogni caso per una delle formazioni del centro-sinistra. A noi che a votare, invece, non ci andremo perché siamo convinti che la sorte dei lavoratori, della società italiana, del mondo intero si decide da almeno un secolo fuori dai giochi elettorali, non interessa oggi "strapparli" alle urne per accrescere di uno 0, la percentuale di quanti non votano. Ci interessa, invece, e molto!, discutere con loro se la prospettiva politica che indica Prodi è realmente in grado di produrre un cambiamento vero, non solo formale o nominalistico, della situazione politica; se è realmente in grado, o meno, di costituire una svolta, di inaugurare una fase di risalita del movimento dei lavoratori. Andiamo dunque a vedere che cosa promette Prodi ai lavoratori, e cosa dovrà necessariamente fare in ragione delle priorità a cui si è già vincolato in modo inequivoco.
Il leader dell’Unione promette una serie di provvedimenti in grado a suo dire, da un lato, di rilanciare la competitività dell’industria italiana, e dall’altro di far crescere i salari e, in prospettiva, garantire un futuro meno precario per la nuova generazione proletaria, stretta tra un oggi di lavori a termine e un orizzonte di vita a dir poco nuvoloso. Tra questi provvedimenti, nelle ultime settimane Prodi ha sottolineato con particolare enfasi la riduzione del cuneo fiscale, finanziato con il recupero dell’evasione fiscale e una razionalizzazione della spesa per la pubblica amministrazione, e la riduzione delle forme di lavoro atipico e precario introdotte dalla legge Biagi.
In tempi di vacche magre, è normale che anche un piccolo aumento dei salari derivante da una loro parziale detassazione o una modesta limitazione della selva dei contratti a termine appaiano ai lavoratori qualcosa di appetibile, tanto più se finanziati attraverso il taglio di un apparato statale elefantiaco e quanto mai scadente nell’erogare i servizi pubblici relativi a sanità, pensioni, asili nido, ecc. Non abbiamo alcuna difficoltà ad ammettere che questo progetto non è la stessa cosa della prassi fiscale instaurata da Berlusconi, coi suoi condoni a go-go per i grandi evasori e il suo incoraggiamento all’evasione generalizzata dei ceti medi accumulatori; è qualcosa, in sé e preso a sé, di "meno peggio". Ma con ciò il problema è lungi dall’essere risolto, perché bisogna chiedersi: 1) quale posto avranno nell’azione del governo Prodi queste (ipotetiche) concessioni e, 2) quale sarà il prezzo che i lavoratori dovranno pagare per esse sul piano politico generale.
Cosa c’è al primo posto? È quello che conta.
Le risposte le suggerisce lo stesso Prodi, cui va riconosciuto di non abusare in demagogia, quando nel suo programma mette al primo posto il rilancio dell’Italia, della competitività delle aziende italiane. Con ciò egli subordina il riconoscimento degli interessi immediati, anche minimi, dei proletari al recupero delle quote di mercato perdute dall’azienda-Italia a livello mondiale, e al "risanamento del paese" e dei suoi dissestati bilanci da realizzare in un’Europa "risanata". Ma cosa comporterà in concreto una simile operazione? Comporterà una ulteriore intensificazione dello sfruttamento del lavoro insieme con l’attiva compartecipazione dell’Italia al lancio di una super-potenza europea capace di contendere agli Stati Uniti e ai paesi capitalistici emergenti il dominio sul mercato mondiale. Una politica del genere richiederà ai lavoratori non solo altro sudore, ma anche sangue, in quanto richiederà loro di assumersi il ruolo di aguzzini dei loro fratelli di classe del Sud e dell’Est del mondo. Prodi, ammettiamolo pure per assurdo, può, come "individuo", non volere questo risultato. Conta poco. Esso è implicato comunque dal fondamento di riferimento del suo programma che, come per Berlusconi e il Polo, è il mercato (il capitale), per quanto con una spolveratina di "equità" sopra per renderlo un po’ zuccherino in superficie, appetibile per quelli (i lavoratori) a cui andrà comunque di traverso. Ha detto bene, in proposito, Gino Strada al congresso della Fiom: "Nelle elezioni si decide la barca e l’equipaggio, ma la rotta è già stabilita, da altri...". Questi "altri" che decidono la rotta dell’intera società, se a decidere non sono i lavoratori organizzati nel proprio partito di classe, sono i capitalisti, è il capitale come "potenza sociale". Che ha già "votato" e torna a "votare" ogni istante, 24 ore su 24, per sé, per l’inesausto rilancio della accumulazione di profitti costi quel che costi in termini di sacrifici umani, a cominciare da quelli dei lavoratori.
L’era dello "sviluppo e benessere per tutti" è finita…
La nostra critica al programma di Prodi, alla sua subordinazione agli imperativi del mercato, e agli stretti legami esistenti tra l’Unione e i potentati capitalistici italiani ed esteri (v. il riquadro a fianco) può essere considerata pre-concetta, "ideologica". Dopotutto, ci viene obiettato, l’esperienza del secondo dopo-guerra (e anche quella precedente) ha dimostrato che l’approccio di Prodi, al di là di alti e bassi provvisori, al fondo ha pagato. Chi l’ha detto che padroni e lavoratori debbano essere necessariamente gli uni contro gli altri? Se l’economia nazionale va bene, se le imprese sono in attivo, può esserci un po’ di grasso che cola anche per i salariati. Perché abbandonare una via che, dopotutto, ha pagato?
Ora, è vero che nell’arco di un secolo e mezzo i lavoratori italiani ed europei sono riusciti a sottrarsi alla giornata lavorativa di tredici-quindici ore, a conquistare il diritto di organizzazione sindacale, il diritto di voto, la copertura sanitaria e pensionistica, l’istruzione obbligatoria, una casa decente, e spesso di proprietà, ecc., ma quali sono state le condizioni che hanno reso possibile tutto ciò?
La loro lotta e la loro organizzazione, anzitutto. Una lotta e un’organizzazione –"piccolo" fatto da tutti dimenticato- che hanno pagato anche perché per un dato periodo videro al loro interno una componente rivoluzionaria che spinse la borghesia italiana (e occidentale) a concedere qualcosa per non perdere tutto (vedi anche la politica in campo sociale del fascismo e del nazismo). Ma si deve aggiungere che questi miglioramenti sono stati possibili anche perché la classe dei capitalisti aveva le risorse materiali per aprire, sotto la pressione proletaria, i cordoni della borsa. Le aveva perché il ciclo dell’economia capitalistica era sul piano storico ascendente, e perché in America Latina, in Africa e in Asia i capitalisti italiani e occidentali avevano a disposizione una massa sterminata di oppressi dal cui supersfruttamento vetero-coloniale trarre un guadagno supplementare rispetto a quello "normale". Da qualche tempo queste due condizioni sono entrate in crisi.
Dalla metà degli anni ’70 l’economia capitalistica si sta lentamente impantanando in una crisi sempre più inestricabile, affetta da un’asma che l’enorme boccata di ossigeno della crescita cinese e asiatica non ha affatto guarito (anzi…). E ciò accade non perché si siano introdotti di soppiatto nella cabina di comando del capitalismo i Fiorucci o i Fiorani, speculatori d’assalto o manager incapaci di far girare a dovere l’industria. Ma perché –come Marx aveva previsto alla lontana- le forze produttive generate dal capitalismo pienamente mondializzato, che hanno nelle borse, nelle società multinazionali e nel Fmi i loro perni, sono diventate troppo potenti e troppo socializzate per poter essere assoggettate agli interessi sempre e comunque "privati" del profitto (industriale, commerciale o finanziario che sia), dietro cui vi è una frazione ultraminoritaria della società. Per questa ragione, per il contrasto sempre più esplosivo tra la natura collettiva, universale delle forze di produzione, e l’appropriazione "individuale" e "nazionale" dei loro frutti, la capacità di produzione della società e, tanto più, i bisogni della grandissima maggioranza sono entrati in conflitto con la necessità di aumentare all’infinito l’accumulazione del capitale, causando quel crescente disordine globale in cui l’economia mondiale e la politica mondiale stanno avviluppandosi. (Detto tra parentesi: è in questo irresolubile contrasto storico, non nella nostra immaginazione di irriducibili marxisti, che sta la necessità di una nuova forma socialista di organizzazione della vita sociale.)
Nello stesso tempo, gli sfruttati del Sud e dell’Est del mondo sono sempre meno disposti a subire in silenzio la rapina e il supersfruttamento, che la "civiltà superiore" esportata nei loro paesi dai nostri capitalisti impone loro. Lo vediamo con la resistenza dei palestinesi, con quella in Iraq, con le lotte in America Latina, con le crescenti rivolte –sebbene isolate, per ora- operaie e contadine in Cina, con la stessa presenza attiva dei lavoratori immigrati e dei loro figli in Occidente (chiedere ai Sarkozy e Chirac, ma qualcosina ne sa anche Pisanu…). Da Haiti 1794 a Saigon 1973 la sollevazione dei popoli di colore ha spedito in archivio il colonialismo storico. Ma da alcuni decenni, da Baghdad 1958 a Caracas e Gaza 2006, questi medesimi popoli (più "proletarizzati") stanno dando tanto, ma tanto filo da torcere anche al neo-colonialismo, limitandone i sovrapprofitti, costringendolo a costi militari crescenti uniti, e causando così un crescente svergognamento della sua immagine.
Il prezzo da pagare per i lavoratori
In questa situazione, che va avanti da un trentennio per quello che concerne l’ingarbugliamento della economia mondiale e da ancor più tempo per quel che riguarda la nuova resistenza dei popoli del Sud del mondo all’imperialismo, la salute delle imprese, il rilancio dei profitti e dei corsi azionari richiedono che si attacchino le conquiste e i diritti dei lavoratori anche in Occidente. In tutto l’Occidente, non solo negli Stati Uniti, dove è ormai di dominio comune che i salari (e gli orari) stiano lentamente convergendo verso quelli del Terzo Mondo –parola di Luttwak, che non è certo un detrattore né del libero mercato né della supernazione-, e dove mega-imprese come la Ford e la General Motors stanno falciando decine di migliaia di posti di lavoro. Anche in Europa i lavoratori sono sotto tiro: prova ne sia quello che accade in Germania, dove la Volkswagen ha annunciato nelle scorse settimane il taglio di 20 mila dei 103mila posti di lavoro in tre anni, e all’annuncio il titolo ha guadagnato di botto il 9%!; questo, dopo che in precedenza i consigli di azienda avevano accettato l’aumento dell’orario di lavoro a parità di salario –e anche altre cose– con l’assicurazione che il posto di lavoro non sarebbe stato toccato e non si sarebbero delocalizzati i posti di lavoro. E lo provano anche le guerre contro i popoli dell’Est e del Sud del mondo, contro la Jugoslavia e l’Iraq, che stanno portando ad un’erosione dei diritti dei lavoratori occidentali, non certo al loro consolidamento. E non siamo che all’inizio di quei "trenta anni di guerre" annunciati dall’amministrazione Bush. D’altronde, quello che dicono i dirigenti dell’Unione sul pericolo-Hamas, sul pericolo-Iran, sul pericolo-Siria, sul pericolo-fondamentalismo islamico, sul pericolo-Cina non fa che confermare che anche essi sono consapevoli che questa (dello scontro a livello mondiale) è la direzione di marcia obbligata, salvo illudersi e, soprattutto, illudere circa la possibilità di poterlo fare ottenendo con mezzi pacifici quella resa degli oppressi in rivolta che Pentagono e suoi complici non riescono ad ottenere neppure con i mezzi bellici più spietati e devastanti…
No: la storia del periodo d’oro dello "stato sociale" in Europa 1945-1975 non potrà ripetersi. Non ci sono le condizioni generali, il che vuol dire mondiali, di una simile ripetizione (e ragionare sull’effettiva possibilità di questa o quella politica in Italia a prescindere dalle tendenze in atto nella economia e nella politica internazionale è privo di senso). La competizione tra i capitali è oramai scatenata a tutto campo. E per questo l’eventuale governo Prodi non potrà mettere in campo una ricetta per rilanciare la competitività, in netto calo, delle aziende italiane diversa da un ulteriore disciplinamento del lavoro salariato. Né potrà assolutamente, pena una ulteriore perdita di peso dell’azienda-Italia in declino, estraniarsi dagli eventi bellici in atto o in preparazione. Questo spiega perché i "poteri forti" stanno, a modo loro, con Prodi (v. riquadro), e perché, anche formalmente, alla testa dell’Unione, come nel Polo, stiano comparendo qua e là nei posti di comando capitalisti di prima fila quali gli Illy, i Soru, i Divella, etc., per ora solo a livello di governo "locale", ma che vedremo presto ben rappresentati anche nel governo nazionale. Ecco perché, un passo dopo l’altro, veniamo a sapere dalla voce dei suoi capi che l’Italia dell’Unione resterebbe in Iraq (seppure sotto vesti, a parole, cambiate), resterà nei Balcani e in Afghanistan, che sarà presente nell’azione anti-Iran, etc. etc.: si annuncia, insomma, tanto che resti Berlusconi quanto che arrivi Prodi, una bella serie di azioni belliche "umanitarie" e "civilizzatrici". La rotta è già stata decisa "da altri" (si è visto quali)… E con ciò il prezzo politico che i lavoratori sarebbero chiamati a pagare da Prodi&C. "in cambio" di un po’ di salario in più e di qualche contratto precario in meno appare in tutta la sua portata.