Un militante di Rifondazione e la crisi del suo partito
La vicenda della esclusione di Marco Ferrando dalle liste elettorali di Rifondazione Comunista, oltre ad essere obiettivamente un fatto assolutamente antidemocratico nella vita del partito (Ferrando infatti ha solamente ripetuto in pubblico quello che tutti gli appartenenti al partito dicono e pensano in migliaia di riunioni interne), ha anche mostrato, perfino a chi si rifiuta di vedere, quanto grave sia ormai la crisi interna di questo partito; crisi ideologica innanzitutto, ma anche di fiducia, di coesione interna, oltre che, ovviamente, politica. (...)
Il partito non ha mai voluto affrontare in maniera decisa il problema della propria identità ideologica, ed ormai, da questo punto di vista, la confusione, all’interno del partito stesso, è massima. Purtroppo, Rifondazione Comunista ha dimostrato di essere la formazione politica italiana meno interessata a darsi una base culturale strategica che giustifichi quel nobile nome di "comunista", e che dovrebbe consistere nel chiedersi con radicalità che cosa significhi veramente essere comunisti oggi, e quali siano le prospettive storiche del comunismo, non a breve termine (che, sinceramente, non ne vedo proprio) ma sicuramente a medio e lungo termine; per questo infatti questa formazione politica è nata nel 1991; il che non vuol ovviamente dire un abbandono del marxismo come ha fatto Bertinotti ad esempio nel documento costitutivo della Sinistra Europea.
(...) In questa fase storica di dominio totale del capitalismo, quando i comunisti veri hanno il solo ed ineludibile compito storico di ricostruire, a livello locale e mondiale, le basi per una nuova forza politica con caratteristiche alternative di classe, e per questo, appunto, partì l’esperienza di questo partito, tanti dirigenti invece di tentare un nuovo approccio teorico partendo ad esempio dal confronto tra la centralità della teoria del valore e l’analisi della teoria del modo di produzione capitalistico (...), si fanno vanto di non aver mai letto Carlo Marx e di non sentirne il bisogno. Dirigenti con incarichi istituzionali dichiarano durante le riunioni del partito di sentirsi non comunisti ma dei buoni socialdemocratici, e così via. Sul giornale del partito i marxisti vengono ignorati mentre ampio spazio trovano i Folena della Bolognina, Cossiga, Luxuria e così via, e Luxuria, tutto sommato (o come diavolo si chiama lui/lei) in tutta questa vicenda è quello che nel complesso fa meno danni di tutti.
L’unica cosa, dunque, che interessa a questi dirigenti è l’alleanza da realizzare a qualunque costo e senza alcuna vera garanzia con il Prodi promotore della direttiva Bolkestein nella prima stesura ed, a livello locale, con il confindustriale liberista padron Illy, che si permette di disprezzare pubblicamente il partito ed il comunismo durante lo stesso congresso regionale del partito, senza che nessuno abbia il coraggio di rimbeccarlo. Oggi, purtroppo, il grande capitale finanziario dominante vuole Prodi e non Berlusconi; vuole un personale politico fidato alle dipendenze, e non un insieme di parvenus non del tutto affidabili. I comunisti, però, debbono essere da un’altra parte. Un partito comunista non potrà mai essere una propaggine massimalistica e populistica del progressismo borghese cosiddetto di sinistra. (...)
Si può ancora porre rimedio a tale situazione e per questo si rimane, vedremo ancora fino a quando, dentro questo partito che abbiamo contribuito a creare e che vorremmo salvare, se vi sarà una presa di responsabilità da parte della base marxista che voglia impedire che un vertice che non appartiene alla tradizione comunista continui nella Bolognina occulta che è in atto. Vedremo come andranno le cose nel prossimo immediato futuro. Stando così le cose odierne, i compagni del partito spero comprenderanno che non me la sento, questa volta, di fare quello che ho sempre fatto, e cioè lavorare per la buona riuscita della prossima campagna elettorale.
Chi mi conosce sa che in questi anni ho lavorato profondamente e con totale disinteresse dentro il partito, rifiutando sistematicamente ogni tipo di candidatura. A chi volesse accusarmi di estremismo rispondo che, almeno questa volta, ritengo di avere diritto ad obiezioni più serie.
Lettera firmata (da Trieste)
Il malessere della lettera che ci è stata inviata da un compagno di Rifondazione tocca non pochi militanti di base di questo partito. Noi sentiamo come nostra la loro volontà di non ingurgitare questa ennesima "svolta" della direzione di Rifondazione. E crediamo che, per tradursi in una fruttuosa spinta alla preparazione di un vero partito comunista (quella per cui impegniamo le nostre stesse -ridotte- energie), essa sia chiamata a risalire alle basi di questo approdo. Che non stanno nel tradimento operato da alcuni dirigenti, ma nel patrimonio genetico da cui prese avvio nel 1991 l’esperienza di Rifondazione Comunista.
Non ci si faccia paralizzare dalla possibile rottura organizzativa e dall’isolamento dalla "base proletaria di un partito di massa" a cui potrebbe portare la critica radicale della politica della direzione bertinottiana. Capiamo bene quanto una simile eventualità faccia esitare i militanti proletari di Rifondazione e condividiamo in pieno la loro preoccupazione di non volersi ridurre all’anima bella che le canta in fila per andarsene individualmente sbattendo la porta. Non si può, tuttavia, evitare di rilevare che è l’esperienza stessa di Rifondazione e quella precedente dell’ex-Pci ad insegnare che l’assenza di questa critica porta alla dispersione dell’esistente tessuto organizzato di classe e alla rottura con la difesa degli interessi generali dei lavoratori. Per opporsi a questa dispersione e a questa rottura, per mettere in grado le energie proletarie rimaste in Rifondazione di lavorare alla preparazione di un vero partito dei lavoratori, per radicare questo lavoro tra le nuove generazioni proletarie, occorre ingaggiare (già in questa campagna elettorale) una battaglia politica che sarebbe sterilizzata se venisse subordinata alle paralizzanti compatibilità richieste dalla salvaguardia dell’unità organizzativa di Rifondazione.
L’eventuale separazione formale (a seguito di una ben organizzata scissione) dai lavoratori tuttora convinti della bontà della politica di Bertinotti e dell’Unione (e sono tanti), sarebbe un provvisorio scotto da pagare (e da combinare con un’acconcio intervento politico verso di essi e la massa più ampia dei proletari) proprio per rimanere legati ai loro interessi generali e per ricongiungersi domani con i proletari più attivi, quelli che oggi sono probabilmente estranei all’impegno politico e che il deflagrare dell’antagonismo di classe al di fuori dell’alveo riformista sospingerà in campo.