Un'alternativa di classe è possibile. Ma va perseguita da subito, e in modo coerente.
In Rifondazione, nella Fiom, nei Cobas, etc., ci sono compagni e lavoratori che non considerano l’eventuale governo Prodi un "governo amico" e non hanno intenzione di legarsi mani e piedi ad esso. Anzi, sono pronti ad affermare: "Se un nuovo governo dell’Unione attuerà il programma che voi avete delineato, sapremo rilanciare la mobilitazione di piazza senza sconti per nessuno". "Falce e martello" si spinge oltre fino a prevedere che "ogni lotta è destinata a scontrarsi con l’esecutivo di centro-sinistra", chiamando a prepararsi fin da oggi a parteciparvi ed a sostenerle.
Nessun dubbio sul fatto che questa volontà ci sia e ci sarà. Il problema è che domani sarà difficile mettere in campo una efficace risposta di lotta di massa se oggi si accetta di conformarsi ai vincoli richiesti dall’alleanza e dalla vittoria elettorale di Prodi; se si accetta di continuare a subìre le conseguenze negative di questi vincoli sul "tono muscolare" che la mobilitazione proletaria e di "movimento" ha (molto) parzialmente cominciato a ritrovare in questi ultimi anni attraverso le lotte messe in campo.
Per "vincere" le elezioni, bisogna svuotare le piazze.
Non inventiamo niente.Prendiamo dalle ultime cronache le dichiarazioni dei dirigenti dell’Unione di fronte alla significativa partecipazione proletaria alla manifestazione di Milano del 14 gennaio contro l’attacco alla 194: perché Prodi e Fassino hanno detto, certo con toni diversi, che era fuori luogo una simile scesa in piazza? perché hanno criticato proprio l’elemento che ha saputo mettere un alt alle intenzioni del governo? Prendiamo gli scioperi e i blocchi stradali compiuti dai metalmeccanici nelle scorse settimane per la stipula del contratto: perché i dirigenti ulivisti ne sono rimasti preoccupati e hanno "consigliato" di non esagerare, quando invece sono state proprio quelle iniziative di lotta ad aver indotto gli industriali a non esagerare (per il momento)? O ancora, prendiamo il "rimprovero" di Epifani al congresso della Fiom che aveva dichiarato che "non esistono governi amici": perché una simile critica? perché tutto ciò?
Perché le regole della "competizione elettorale" (truccata quanto nessun’altra) sono che per "vincere", per conquistare la maggioranza al cartello di centro-sinistra, è indispensabile attrarre i voti del "centro" sociale e politico, la qual cosa –a sua volta– richiede che i ceti borghesi da "affascinare" non siano spaventati, richiede cioè moderazione nelle rivendicazioni e nelle forme di lotta dei lavoratori, esige che questi ultimi introiettino l’idea che quel tanto di buono che il proletariato può ottenere dal governo Prodi, lo possa ottenere soltanto se mette da parte ogni caratterizzazione di classe, nelle sue rivendicazioni e nella sua presenza politica organizzata nella società. E la stessa regola vale per i movimenti: stop alle istanze e alle modalità di lotta più radicali e, soprattutto, ad ogni istanza di generalizzazione delle lotte in senso anti-capitalistico.
Gli effetti dell’accettazione di tali regole sono già tangibili, come mostra la caduta dell’iniziativa di base. Quanto più la campagna elettorale va avanti, tanto più si vanno svuotando le piazze, tanto più il dibattito politico si trasferisce dal "paese reale" –dove avevano cominciato a riportarlo le iniziative di lotta– ai passivizzanti confronti televisivi, tanto più le "ragioni" dei poteri forti capitalistici, dei suggeritori della Bolkestein, della Tav, del Mose… oscurano quelle dei lavoratori. Sta andando avanti, cioè, il disarmo dal terreno decisivo nello stabilire il peso degli interessi delle varie classi nella politica generale del paese. Prova ne è anche la passività in cui è passato il siluramento da parte dei vertici del centro-sinistra della candidatura di Ferrando. Di cosa è stato colpevole il dirigente di Rifondazione? Semplicemente di avere manifestato una (generica) simpatia per la lotta del popolo iracheno contro l’occupazione del suo paese da parte delle truppe statunitensi e italiane, per effetto di una guerra a cui si sono opposti anche masse di proletari e giovani in Italia, e rispetto alla quale, almeno a parole, tutte le componenti dell’Unione avevano espresso contrarietà. Questo la dice lunga tanto sullo scarto esistente tra "proclamazioni" di intenzioni pre-elettorali dell’Unione e politiche effettive che il futuribile governo Prodi metterà in atto una volta spente le luminarie elettorali, quanto sulla disciplina che esso "chiederà" ai suoi elettori e seguaci.
Le lezioni del recente passato, da non dimenticare.
Se non troverà un’immediata opposizione organizzata anche solo in una minoranza decisa di lavoratori, questa smobilitazione della piazza in corso sarà pagata a caro prezzo davanti agli inevitabili rintocchi di campana del futuro governo (tanto più se si dovesse trattare di un nuovo governo Berlusconi…) perché renderà più difficile far ripartire nei posti di lavoro e nelle piazze una lotta difensiva di massa per la quale ci si è andati disattrezzando. Nello scontro sociale e politico, infatti, non è che si possa a proprio piacimento e in un batter d’occhio invertire il senso di marcia dopo che ci si è fatti trascinare lungo un piano inclinato. L’esperienza c’insegna, semmai, che la delusione e la rabbia dei lavoratori e dei disoccupati, soprattutto dei più giovani, in questi casi rischia di trovare il suo referente nelle organizzazioni di estrema destra o nelle "leghe territoriali", nel loro apparente radicalismo "anti-sistema" e nella loro demagogia populistica. Lo abbiamo già sperimentato nel 2001, quando il 50% dei lavoratori (con una percentuale anche maggiore tra i giovani) votò per il polo delle Libertà, e torneremo a sperimentarlo in futuro, e non soltanto sul semplice piano della conta dei voti, se si lascerà alle forze della "destra sociale" (con cui non a caso il Cavaliere ha ritessuto i legami) la critica "radicale" "al sistema" e ai poteri forti che lo dirigono (dagli Stati Uniti al capitale finanzario), e la "simpatia" verso le lotte contro l’imperialismo dei palestinesi e del popolo iracheno.
Se guardiamo indietro, alla lotta contro i licenziamenti di massa alla Fiat nel 1981, alla lotta contro il taglio dei quattro punti di contingenza, alla lotta contro i provvedimenti del governo Amato nei primi anni novanta e poi a quella contro il primo Berlusconi, vediamo che non è mancata certo la disponibilità dei lavoratori ad opporsi con la lotta all’attacco capitalistico. Quello che è mancato è un indirizzo politico per estendere e radicalizzare questa lotta. In conseguenza di ciò, l’attacco alle condizioni dei lavoratori è stato rallentato ma non bloccato, e soprattutto sono andate via via disperse le potenzialità dell’organizzazione di lotta dei lavoratori, la sua capacità di rispondere alla crescente concorrenza tra lavoratori indotta dal mercato capitalistico e dai poteri padronali e governativi. Il che ha permesso ai capitalisti e ai governi in carica, dopo una provvisoria frenata dovuta alle mobilitazioni di piazza, di far ripartire l’affondo. È quello che è tornato a succedere anche con le iniziative di lotta degli ultimi cinque anni contro i diversi aspetti della politica del governo Berlusconi.
Se unificate e radicalizzate, esse avrebbero potuto dimissionare dalla piazza il governo Berlusconi, avrebbero potuto bloccare prima che giungessero a bersaglio alcuni colpi, dalla legge Biagi sul "nuovo" mercato del lavoro alla partecipazione alla guerra contro l’Iraq. Non vi sono riuscite non perché non avessero in sé la forza potenziale per imporre con una Melfi a scala nazionale l’uscita di scena del governo di Berlusconi-Bossi-Fini, come è riuscito a fare il movimento popolare in Argentina nell’inverno 2001-2002 e in Bolivia nell’autunno 2003. Non vi sono riuscite perché i lavoratori e la "nostra gente" che le hanno animate, hanno disgraziatamente accettato di subordinarle alla prospettiva indicata da Prodi, Fassino, D’Alema e Bertinotti di un cambio elettorale di governo nell’allora lontano 2006.
Esageriamo? Ritorniamo con la mente alla davvero imponente (numericamente) mobilitazione del 2002 in difesa dell’"articolo 18". Cosa avvenne? Davanti alla piazza stracolma, il governo fece un parziale passo indietro. E noi? Anche per non incrinare il blocco sociale moderato di una futura e "vincente" alleanza elettorale, ci siamo "realisticamente accontentati" e, invece di spingere a fondo per cacciare con la lotta Berlusconi, abbiamo smobilitato. Risultato? L’ "articolo18" è restato in piedi, è vero... ma anche il governo. E quest’ultimo, nel prosieguo, ha approfittato della smobilitazione per far passare altri provvedimenti dello stesso segno senza che noi si sia riusciti a rimettere in campo le nostre forze per porre un argine ad essi, dalla riforma Biagi del mercato del lavoro alla devolution.
Oppure, si pensi al movimento contro la guerra all’Iraq e per il ritiro delle truppe italiane. Si è scesi in campo in tanti, ma di fatto sempre di più si è puntato non a costituirlo come movimento di lotta per il ritiro immediato delle truppe italiane e occidentali dall’Iraq, ma come un movimento di pressione su un futuro governo "amico" per "convincerlo" a far propria una politica "di disimpegno bellico". Spesso ci si è inoltrati per questa strada anche senza fidarsi troppo di un futuro governo ulivista, e dicendosi (e sentendosi) pronti a tornare in piazza casomai l’Unione avesse tradito le aspettative. Una delega abbastanza guardinga, insomma. Ma guardiamo ai risultati: il movimento si è quasi completamente svuotato non solo dei suoi grandi numeri originari, ma di ogni sua capacità di mobilitazione militante seppur con numeri più ridotti, limitandosi negli ultimi anni (proprio quelli di più intensa resistenza in Iraq…) a rituali appuntamenti annuali, fino a dimostrarsi negli ultimi mesi assolutamente incapace di reagire alle dichiarazioni programmatiche tutt’altro che "pacifiste" dei massimi leader del centrosinistra contro la resistenza del popolo palestinese, contro l’Iran...
La stessa cosa è successa anche nella seconda fase del governo Berlusconi, con lo sciopero di Melfi e poi, nelle scorse settimane, con la lotta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. I vertici del "centro-sinistra" hanno mostrato "comprensione" con esse, ma nei fatti hanno avuto ben cura di contribuire a circoscriverle, delimitarle territorialmente e socialmente per evitare ogni rischio di generalizzazione dello scontro e di convogliamento in esso di altre vertenze aperte, come ad esempio la lotta in val di Susa contro la Tav. Come mai questa "ritrosia"? Perché il centrosinistra ha temuto come la peste l’eventualità che Berlusconi andasse in crisi sotto la spinta di piazza, perché poi, a questa stessa piazza, avrebbero dovuto comunque render conto anche Prodi, Rutelli, Fassino e Bertinotti e allora addio "conquista del centro"...
Rilancio della mobilitazione e dell’autonomia di classe
E dunque è di primaria importanza riprendere subito la mobilitazione di massa tanto sul terreno sindacale che nei confronti delle guerre in corso e in preparazione, e fare ogni sforzo perché convergano ad unità le proteste dei diversi embrioni di movimento. Ciò che possiamo proporci "oggi" come sbocco politico realistico, adeguato ai rapporti di forza esistenti tra il fronte borghese e un "fronte unito proletario" tutto da organizzare, non è certo la nascita di un governo dei lavoratori. Se sapremo rimettere in campo e riorganizzare la nostra forza, l’obiettivo da perseguire è quello di contenere la capacità di ricatto e sopraffazione nei nostri confronti del futuro esecutivo borghese, si tratti di un (improbabile ma non impossibile) Berlusconi ter o di un (probabile) Prodi bis. Non un governo ‘migliore’ da sostenere o su cui sospendere il giudizio, ma condizioni migliori per noi nel lavoro che ci si prospetta e, in conseguenza di ciò, anche la capacità di imporre al futuro governo, dall’esterno, le richieste dei lavoratori nell’unico modo possibile: con un’azione di lotta organizzata indipendente.
Ma anche "solo" per realizzare un simile risultato, tutt’altro che facile e da poco!, è necessario che almeno i lavoratori più avanzati inizino a fare i conti con la stessa impostazione del progetto Prodi, con le sue radici materiali, teoriche e politiche; e si facciano carico di enucleare, nella ripresa della mobilitazione immediata, un programma e un’organizzazione politica autonomi dalle esigenze di competitività delle aziende e aventi come finalità una globale e radicale alternativa di sistema sociale. Questa istanza, questa necessità di guardare in prospettiva e alla prospettiva nasce non dalla nostra testa, ma dal fatto che la difesa dei salari operai, la riduzione della precarietà, l’abbattimento delle oppressioni differenziali gravanti sui lavoratori immigrati e sulle donne, si stanno aggrovigliando con l’insieme delle contraddizioni di un sistema sociale, quello capitalistico, che fa acqua da tutte le parti, e non sono quindi risolubili in modo indipendente dall’instaurazione di una nuova, internazionale, organizzazione sociale. Senza questo orizzonte più ampio, enucleato da un’avanguardia e da essa fatto vivere nelle iniziative di lotta e tra la massa dei lavoratori, la stessa lotta di resistenza immediata ha il fiato corto già in partenza.
Ci stacchiamo dal concreto e dall’oggi? Al contrario: una vera, profonda aderenza all’oggi e al "concreto" dei processi in atto nel turbo-capitalismo globalizzato deve indurci ad aprire gli occhi e vedere verso quale burrone ci sta sospingendo a scala planetaria il capitalismo.
Il lavoro è sempre più torchiato e spremuto, ovunque le "vecchie" conquiste e i diritti che si pensavano intoccabili vengono spazzati via, mentre la concorrenza mondiale getta inesorabilmente i proletari di tutti i paesi in una reciproca e ostile rincorsa al ribasso senza fine.
I venti della "guerra infinita" soffiano sempre più forti. Dopo l’Afghanistan, la Palestina e l’Iraq, adesso incombono sul popolo iraniano, siriano, sudanese, ivoriano, nepalese... Siamo ai primi passi di un percorso che prospetta, se il proletariato internazionale non interverrà drasticamente per sbarrargli la strada, un nuovo generale e mostruoso scontro tra potenze mondiali per la spartizione del globo terrestre.
I disastri ecologici ed ambientali prodotti dallo stupro quotidiano che il profitto opera sulla natura sono all’ordine del giorno. Il razzismo imperversa, la donna continua ad essere oppressa in nuove forme, mentre le vecchie non hanno "voglia" di tramontare… È questo il capitalismo reale, l’unico capitalismo possibile. Prendere o lasciare.
Ma se è questo che ci prepara il sistema capitalistico, e sfidiamo chiunque a dimostrare il contrario, per "lasciare", è necessario cominciare a comprendere la necessità di conquistare una nostra organizzazione politica e partitica di classe capace di affermare la necessità di distruggere la società capitalistica e le sue leggi per via rivoluzionaria in nome di una società (che noi chiamiamo comunismo) non più "regolata" e dominata dalle leggi e dalle esigenze del mercato, della concorrenza e del denaro, in cui l’umanità lavoratrice liberamente e fraternamente associata metta le sue forze, le sue capacità e le conquiste della scienza e della tecnica al servizio dei reali bisogni della specie umana.
Al di fuori della riconquista di un simile programma e di una, ad esso confacente, organizzazione di classe (che non può essere una inesistibile Rifondazione corretta ed emendata, strappata alle spire di Prodi e di D’Alema), non vi sarà alcun risultato conseguibile: né all’immediato, né, tanto più, in prospettiva. Oggi, infatti, in gioco non vi è "soltanto" il mantenimento o meno di qualche diritto o il recupero del salario, ma molto di più. Vi è il futuro della nostra classe e dell’intera umanità. E le conquiste "immediate e concrete" potranno essere solo dei sottoprodotti (di per sé transitori) di un movimento proletario che vuole e sa darsi un proprio programma ed una propria specifica prospettiva di classe. Di un movimento che non si limita nelle sue diverse anime e articolazioni tematiche e territoriali a cercare una rappresentanza politica "così com’è" per evitare di essere contaminato e adulterato dalla "politica", ma che si dota di una sua sintesi programmatica, e che si centralizza attorno alla forza sociale in grado di costituirne la spina dorsale, il proletariato industriale, proprio per dare alle sue differenziate istanze una concreta possibilità di realizzazione unitaria.
Altrimenti, pur animati dalla buona intenzione di non far pesare all’interno dei movimenti dei lavoratori, no war, anti-tav, femminile, ecc. i condizionamenti della politica del palazzo e gli input superiori delle borse che essa trasmette ed esegue, si lascia di fatto il portone spalancato alla piena affermazione di questi ultimi, e di uno dei cardini della loro propaganda a difesa del sistema capitalistico e delle politiche che esso richiede sui salari, sugli orari di lavoro, sull’organizzazione dei servizi sociali, sulla progettazione delle infrastrutture, sulla gestione delle forniture dell’acqua, del gas alle abitazioni: la campagna anti-partito, lo svilimento dell’organizzazione-partito agli occhi dei lavoratori, nel mentre il capitale accentra sempre più il suo potere, in campo economico innanzitutto ma anche con sperimentazioni, in Europa ancora primitive, in campo politico.
Questo indirizzo e quest’azione politici sono l’unica via, tra l’altro, per attrarre dalla nostra parte quanti tra i lavoratori e i giovani guardano ancora alle destre e a Berlusconi. È una sciocca semplificazione pensare al "blocco elettorale" (e sociale) che si riconosce nel Polo, nelle sue diverse articolazioni, come composto solo ed esclusivamente di una massa di irrecuperabili reazionari ultra-privilegiati. No, in esso c’è anche una quota di "nullatenenti" magnetizzati dal messaggio di Berlusconi&C. anche per la nullità dell’alternativa ulivista; e vi sono fasce non proprio piccole di giovani proletari delle periferie metropolitane che vivono in una situazione di disgregazione sociale crescente, a cui "reagiscono" rifugiandosi nell’apatia e nel totale disinteresse verso la "politica", o, al più, ricercando nella "vita da stadio" una qualche forma di aggregazione e socialità. È questa, insomma la sola strada, che ci potrà consentire di recuperare preziose e vitali energie che ad oggi vanno disperse o rischiano di essere risucchiate, per reazione, dalle posizioni della destra più "radicale".