Scheda |
Negli anni Novanta il proletariato ha conosciuto in Italia un sensibile mutamento sul piano strutturale. Nelle fabbriche e nel settore dei servizi c’è stato l’ingresso di centinaia di migliaia di lavoratori immigrati, di donne (dal ’98 al 2001 l’occupazione tra le donne è passata dal 35,8 al 41,1%) e di giovani. Non si è trattato solo di occupazione sostitutiva, ma anche di nuova occupazione. Il tasso di attività generale, infatti, è passato negli ultimi tre anni dal 57,8 al 60,4%. Il proletariato è, come dimensione generale, cresciuto, e la sua condizione è enormemente peggiorata.
Innanzitutto, è aumentata la quota di lavoratori che sono privi delle tutele classiche: si tratta del 15% della forza-lavoro impiegata "al nero", ma si tratta anche di tutti gli addetti nei "lavori atipici". Una stima prudenziale dell’Istat li valuta ormai in tre milioni nell’industria e nei servizi privati (il 23% della forza-lavoro). La loro quota è in continua crescita: dal ’96 al 2000 gli occupati a tempo indeterminato sono aumentati dell’1%, quelli a tempo determinato del 40,5%. Nel 2001 ben il 50,8% dei nuovi assunti lo era per un tempo inferiore a un anno e tra il ’98 e il ’99 solo il 2,7% delle assunzioni a tempo determinato sono stati trasformate in "posti fissi".
Nella propaganda ufficiale (cui i teorici delle "moltitudini" felicemente abboccano) il "lavoratore atipico" è la prova provata della scomparsa del proletario, in quanto non è legato per la vita a un padrone, ma contratta "liberamente" la vendita delle sue capacità professionali senza la "schiavitù" delle rigidità dei contratti collettivi, e ha nei confronti del lavoro non il mero ruolo di esecutore, bensì del lavoratore creativo.
Un rapido sguardo alle condizioni reali dimostra l’esatto contrario.
A Rassegna sindacale (agosto 2002) Alessandro Gilioli dichiara: "Oggi le aziende ti chiedono un investimento emotivo senza fine. Vogliono il tuo tempo libero, dettano i ritmi della tua vita sociale, annullano il tuo mondo privato. E sono sempre di più i lavoratori della cosiddetta new economy che accusano problemi fisici e psichici…". Gilioli ha raccolto nel suo libro (Stress economy. Conoscere e vincere il nuovo mal di lavoro, ora negli Oscar Mondadori) storie di ordinaria precarietà e soprusi. Per esempio quella di Paolo "un giovane che lavora per una notissima azienda di abbigliamento dove tutti sono creativi, sono amici, vestono casual, dove dirigenti e dipendenti magari si fanno pure uno spinello insieme in giardino. Ma quando arriva il periodo di crisi, per una fusione societaria non riuscita, allora tornano le vecchie dinamiche del capitalismo fordista: vieni licenziato e scopri che era tutto falso, che eri soltanto un numero." Oppure quella dei crews (ragazzi factotum della ristorazione veloce): "Sottoposti a regole inaccettabili, come lavare i pavimenti con il busto ben diritto, in una posizione assurda, per non dare ai clienti l’impressione di fatica. Costretti a tempi esattamente cronometrati, a gesti meccanici e ripetitivi. A una flessibilità selvaggia: solo l’ultimo giorno conosci i turni della settimana seguente, se fai 18 ore o 40, se lavori il sabato e la domenica. Organizzarsi la vita diventa impossibile, il tempo libero è a disposizione del tuo superiore. Un sistema che si regge su una falsa familiarità, dove tutti sorridono e si chiamano per nome, e su una rigida politica di premi e punizioni, dove i premi sono un buono-benzina o due biglietti per il cinema, e le punizioni essere sbattuti a pulire la cella frigorifera senza un maglione addosso".
Quanto alla "creatività" la lettera dei lavoratori dei call centers aderenti al Cobas telecomunicazioni (di cui pubblichiamo altrove alcuni stralci) dimostra alla perfezione cosa sia e come l’azienda se ne appropri gratis. Il furto dell’intelligenza proletaria da parte del capitalismo (ai propri fini di profitto) non è una novità. Nuova è -se così si può dire- la brutalità con cui lo esercita.
Il furto dell’intelligenza e della forza-lavoro fisica è, d’altra parte, in crescita esponenziale. Un’indagine dell’Eurispes ("New worker: tra precarietà, superlavoro e stress", Rassegna sindacale, agosto 2002) è pervenuta alla conclusione che un italiano su quattro lavora troppo. I "superlavoratori sono 6 milioni e mezzo" calcolati per parametri oggettivi (superamento dell’orario ordinario) e soggettivi (carico di attività avvertito come eccessivo, con il conseguente rischio psicofisico); per alcuni è "libera" scelta di puntare sulla carriera, per altri è il micidiale risultato di precarietà, flessibilità e riemergere dei cosiddetti crummy jobs, i nuovi e tanti lavori scadenti. "Il superlavoro riguarda più del 40% degli autonomi e il 30% degli interinali, mentre tra i lavoratori dipendenti regolari la percentuale (circa il 10%) è più bassa grazie a norme e tutele precise. Nel mondo delle collaborazioni uno su due lavora oltre misura. Le punte più alte sono nel "sommerso" (70%) e tra i manager (66%), due tipologie mosse da flessibilità differenti (per i primi assoggettamento e precarietà, per i secondi dinamismo sociale e carriera)".
La condizione proletaria, cioè il trarre il reddito dalla vendita delle proprie braccia e dei propri cervelli assieme al senso di incertezza che domina sulla propria esistenza, è, dunque, in crescita, in un quadro di generale peggioramento che sta bruciando le illusioni del 1989 persino nei settori dove il lavoro "piace".
Il lavoro diventa pesante per la lunghezza e intensità, ma anche per la solitudine in cui tutto questo si subisce. La solitudine più drammatica non è quella dovuta all’estrema parcellizzazione del lavoro, ma soprattutto quella prodotta dall’assenza di una comunità di lotta. Il nuovo proletariato è assunto con condizioni che lo tengono programmaticamente fuori dalla comunità che il vecchio proletariato aveva costituito, e questo fatto viene utilizzato anche per disgregare la vecchia comunità. Valentina Cappelletti (Fiom Milano): "I precari sono utilizzati dalle aziende anche per frenare l’attività sindacale degli altri, Quando si fa il blocco degli straordinari, molti irregolari sono disposti a sostituire chi sciopera". L’uso dei lavoratori precari permette di abbassare, inoltre, il numero dei dipendenti e le aziende riescono a mantenersi in modo fittizio sotto i 15 dipendenti.
Il mutamento del proletariato sul piano strutturale è il prodotto di una politica finalizzata a comprimere e deprimere la soggettività politica della classe. Non si tratta di una soggettività che aggredisce i fondamenti del sistema capitalista, ha però la caratteristica di tenere alto il grado di contrattazione collettiva, di classe, anche se come classe "in sé", del capitale, e non classe "per sé", autonoma e antagonista ad esso. Questa caratteristica è stata sopportabile fino a quando il sistema capitalista ha potuto, nel suo complesso, beneficiare della spinta alla crescita dei mercati successiva alle distruzioni post-belliche. È divenuta insopportabile allorquando quella spinta, per le leggi stesse di funzionamento del capitalismo, ha lasciato il posto a una nuova fase di convulsioni, crisi e guerre, che ha costretto il sistema a mettere in atto l’unico mezzo che conosce per sopravvivere: aumentare lo sfruttamento del proletariato (nelle metropoli, come nelle sterminate periferie).
A quest’opera di distruzione della soggettività di classe, cominciano, ora, a intravedersi delle prime risposte, il cui significato va al di là delle sorti immediate di questo o quel movimento. Risposte da parte della "vecchia" comunità di lotta, che in un sussulto di vitalità è costretta a confrontarsi anche con i nuovi proletari, e risposte da parte anche di questi. La presenza di giovani proletari si era fatta già notare nei movimenti anti-globalizzazione, ora comincia a manifestarsi anche sul piano della più classica lotta sindacale. La scoperta dell’utilità di un’organizzazione collettiva costituisce un enorme passo avanti rispetto alle illusioni del dopo-’89 sulle possibilità di affermazione individuale, lo dimostra efficacemente la massiccia partecipazione di giovani (lavoratori di fabbrica e della new economy) alle manifestazioni sindacali (sopra tutte quella del 23 marzo) e agli scioperi. A quest’organizzazione essi rivolgono una domanda che non è di pura assistenza, ma che rimanda, in ultima istanza, alla necessità di costituire una vera comunità di lotta per affrontare i problemi della loro condizione di lavoro, e tutti gli altri di cui divengono, sotto la spinta anche del movimento no-global, consapevoli. Questo giovane proletariato, tra le tanti difficoltà ha qualche notevole vantaggio, come quello indicato da un delegato Fiom (Pino Viola, 45 anni, da 28 alla Bertone): "Quasi il 90% degli operai sulla linea sono giovani; l’età media è sotto i 30 anni. I giovani non hanno vissuto la sconfitta e quindi non danno per scontato nulla. Non danno gran peso alla rottura sindacale e dicono: se siamo d’accordo tra noi si va avanti lo stesso".
Quella dei meccanici è la categoria dove questa realtà è più visibile. Zipponi (Fiom Lombardia) ha scritto dopo l’assemblea dei delegati metalmeccanici di Bologna (maggio-giugno 2001): "L’assemblea ha ben rappresentato ciò che è la categoria in questo momento. Negli ultimi cinque anni abbiamo avuto un ricambio del 60%. Questo è importante per stabilire lo spessore della critica alla concertazione. I giovani sanno solo che quell’accordo taglia i salari. Non stanno lì a perdersi in inconcludenti discorsi sulla giustezza o meno di quel sistema di contrattazione. Sono giovani molto concreti."
Sì, non hanno vissuto la sconfitta e sono molto concreti. Sono obbligati a scoprire l’impegno sindacale e politico, sentono la necessità di costituire una comunità di lotta e vanno a ricercarla in quella che già esiste, sottoponendola a verifica rispetto alle proprie esigenze. Sulla loro strada trovano un determinato sindacato e una determinata politica. Con entrambi dovranno fare i conti. Inizia, con ciò, un percorso che non può limitarsi alla semplice delega, ma che richiede (pur con inevitabili delusioni e rinculi) un crescente impegno proprio, diretto, organizzato, per un "nuovo" sindacato e una "nuova" politica.
La soggettività politica del proletariato non scompare, anzi, sotto l’attacco del sistema capitalista, è costretta a ricercare nuovo slancio e iniziare a interrogarsi sul suo stesso passato di compromissione e di concertazione con il capitale. Dovrà (e potrà con l’apporto decisivo dell’azione dei comunisti) superarlo in avanti, riproponendosi, alfine, come "classe per sé", che lotta esclusivamente per il suo bisogno di liberarsi dalla schiavitù del salario, liberando l’intera umanità dalla schiavitù del capitale.