La risposta di lotta del proletariato,
e non solo (no global, girotondi, etc.)
è stata ampia,
ma non è ancora sufficiente
in intensità e forza.
Contro la politica di Berlusconi e di Confindustria c’è stata fin dall’autunno scorso una ampia reazione di massa. Dagli scioperi della Fiom alla grande manifestazione del 23 marzo della Cgil, allo sciopero generale unitario del 16 aprile, ai nuovi scioperi regionali indetti dalla sola Cgil, agli scioperi e alle manifestazioni dei sindacati extra-confederali, agli scioperi e ai cortei dei lavoratori immigrati, la mobilitazione è andata crescendo e coinvolgendo milioni di lavoratori.
Il suo elemento trainante è nel fatto che la gran massa dei lavoratori avverte che la situazione comincia a diventare insostenibile. Le condizioni di lavoro peggiorano di continuo, i salari diventano più magri e la situazione sociale, l’esistenza quotidiana si fa sempre più difficile. Niente più appare garantito, e la speranza che il futuro riservi ai figli una vita migliore dei padri si va dissolvendo sotto l’incedere di crisi economiche, guerre e politiche padronali e governative.
I proletari più "tutelati" hanno avvertito istintivamente che gli si vuol sottrarre molto più di un articolo di legge. Per i meno tutelati, la questione è più complessa. Alle promesse del dopo-’89 essi avevano generalmente creduto. Un mercato senza vincoli gli prometteva di mettere a frutto le loro capacità e di affermarsi in un lavoro gratificante, ben remunerato, libero da diktat e costrizioni di varia natura. Nel volgere di poco tempo la promessa si è rivelata falsa, e tantissimi giovani si sono ritrovati schiavi del dispotismo padronale, di un lavoro che gli aspira fino all’ultimo alito di vita senza dargli in cambio neanche un briciolo di sicurezza economica. Oggi si ritrovano quasi a invidiare i lavoratori protetti dalle "rigidità", che magari qualche anno fa beffeggiavano per il loro "tranquillo tran-tran" sempre nello stesso luogo, sempre allo stesso lavoro, inebetiti dalla ripetitività ossessiva degli orari, dei ritmi di vita, appiattiti in una vita grigia senza scosse, senza mai mettersi alla prova per cogliere le opportunità che il mercato offrirebbe ai più "capaci" e "intelligenti". Per loro, lottare in difesa dell’art. 18 significa cercare di conquistare un futuro meno precario del presente, di passare prima o poi dall’attuale precarietà almeno alla relativa "sicurezza" dei propri padri.
Nel movimento contro l’abolizione dell’art. 18, dunque, non si è raccolta un’istanza di mera conservazione dell’esistente, si è espressa, sia pur in modo ancora molto timido, anche l’attesa di un primo "recupero" di diritti, di salario, di forza dopo anni e anni di arretramenti. È questa una importante differenza rispetto alle lotte del 1994. Molti tra i vecchi e i giovani, i tutelati e i non tutelati, proletari della old economy e della net economy (tutti unificati nella stress economy) cominciano a diffidare delle aziende e del mercato, e a voler difendersi da essi. Questa diffidenza, che nasce dall’amara esperienza diretta degli ultimi anni, è cresciuta anche in seguito ad una serie di fatti quali i clamorosi falsi in bilancio statunitensi che hanno portato alla luce che chi detiene le redini del mercato non è altro che un’accozzaglia di istituzioni e di parassiti individui che pur di accumulare profitti non esita a ricorrere ai mezzi più infami (anche il modo in cui Bush e i suoi soci in affari, e in crimini di guerra, delle compagnie petrolifere stanno preparando l’aggressione all’Iraq va nello stesso senso). Tutto ciò non produce, per ora, una coscienza di massa contro il mercato, ma sicuramente sollecita molti a non fidarsene più ciecamente. Meglio, dunque, pensa un numero crescente di lavoratori, avere qualche strumento collettivo di difesa, e collettivamente opporsi con la lotta allo smantellamento di pensioni, sanità, scuola pubblica e all’attuazione del "Libro bianco". Di qui la grande partecipazione agli scioperi.
In questa sua scesa in campo -ecco una seconda importante differenza rispetto al ‘94- la massa dei proletari non si è ritrovata sola, ma ha catalizzato le esigenze di altri soggetti sociali e politici.
Ne sono stati attratti anzitutto quanti si erano già mobilitati sulle varie questioni legate alla globalizzazione capitalista. Pur se tra non poche resistenze, il settore più avvertito dei no global inizia a vedere che la scesa in campo del movimento dei lavoratori può costituire un vero salto nei rapporti di forza con i grandi poteri del capitale globale, proprio perché esso ha tutti i motivi per farsi carico anche della lotta contro gli effetti della globalizzazione capitalista.
Attirati verso questo movimento sono anche quanti avvertono che tutto il quadro generale di "compromesso sociale" è ormai messo in discussione. A una società che sembrava (in apparenza) contemperare l’ansia di profitto della classe proprietaria dei mezzi di produzione con i limiti "sociali e solidaristici" posti a presidio di quelli che possono mettere sul mercato solo la propria forza-lavoro, viene chiesto ora di abbandonare tutti gli scrupoli e di impegnarsi a viva forza nell’unico obiettivo di accrescere il profitto dei capitalisti, non curandosi dei danni che questo provoca ai popoli di altri continenti o ai lavoratori autoctoni. Privatizzare e rendere funzionali al profitto i "servizi sociali", prima considerati "diritti" egualitari per tutti, opprimere ancora di più le donne in casa e fuori, approfondire le diseguaglianze tra le classi dinanzi alla legge riformando la giustizia nel senso più favorevole a chi ha i soldi per salvarsi dai processi, stringere ulteriormente il cappio intorno ad un apparato mediatico già di suo servile verso il potere economico e politico nazionale e mondiale del capitalismo, ricorrere alle intimidazioni contro chi lotta (liste degli scioperanti, campagne di equiparazione tra il movimento di lotta e il terrorismo, etc)… tutto ciò suscita malumori profondi in ambiti non puramente proletari (quale è, ad esempio, una quota non indifferente dei partecipanti ai girotondi, e di sicuro tutta la sua leadership), sui quali il movimento di lotta dei lavoratori esercita un’inevitabile attrazione. E nei quali può trovare una riserva di simpatia e d’appoggio.
Si aggiunga a ciò l’inizio, anch’esso pallido e -per la carità- ben lontano da quello che dovrebbe divenire, di una mobilitazione contro la nuova aggressione all’Iraq, una mobilitazione che per la prima volta dal 1990 avrà un qualche apporto effettivo (invece che indifferenza o ostilità) anche dalla Cgil, e si vedrà come il movimento nato "contro l’abolizione" dell’art. 18 può usufruire, se saprà e vorrà farlo con gli indirizzi di azione adeguati, di uno scontento e di una agitazione sociale di molto eccedenti le sue già ampie fila. E che una finanziaria di nuovi secchi tagli via regioni e comuni, e la ripresa dell’inflazione stanno allargando in misura tale da spingere il Polo a più di un’avance di "dialogo" verso l’Ulivo.
C’è infine, ma non certo per ultimo, ne parliamo in un apposito articolo di questo speciale-autunno, un quadro internazionale non proprio freddo, in America Latina, in Palestina, in Sud-Africa, in Cina, ma anche in Europa. Nel ’94 la grande mobilitazione contro il primo governo Berlusconi rimase isolata sul piano europeo. Questa volta, invece, sono diversi i paesi europei teatro, nel corso di questo anno, di scioperi generali dai contenuti non dissimili da quelli di "casa nostra", e non è per caso se lo stesso Cofferati sia andato a parlare a Siviglia, così come abbiano parlato in varie piazze italiane rappresentanti di sindacati spagnoli, tedeschi, etc.
Insomma: ci sono tutte le condizioni di partenza perché il movimento di lotta, sviluppando in positivo le grandi potenzialità presenti nella attuale situazione, batta e abbatta in piazza il governo Berlusconi. Ma l’attuale direzione del movimento, composta dai vertici della Cgil, esclude con nettezza un simile sbocco. Vediamo perché, e per andare dove.