Risposta di massa
alle intimidazioni e alla repressione!
In questi mesi di mobilitazione i lavoratori e i protagonisti delle lotte hanno registrato con preoccupazione l’intensificarsi di interventi da parte degli apparati "d’ordine" nei confronti di chi si è attivato contro le misure governative: l’accusa di "complicità col terrorismo" lanciata da Berlusconi contro chi è sceso in piazza il 23 marzo, le intrusioni e le manomissioni in sedi Cgil, la richiesta di liste di iscritti al sindacato, i tentativi di schedatura degli scioperanti, il divieto di assemblea (come alla Fiat Mirafiori e all’Iveco Foggia) e la presenza sempre più frequente della polizia ai cancelli delle fabbriche in occasione di scioperi e anche solo di semplici volantinaggi, i provvedimenti giudiziari contro militanti di alcuni centri sociali e l’incredibile accusa di "associazione sovversiva" per alcuni militanti sindacali Cobas di Taranto. Tutto questo mentre sono varati sfacciati provvedimenti come la legge Cirami o, prima, quella che abolisce il falso in bilancio che svelano il senso della cosiddetta imparzialità dello stato.
L’obiettivo di questi interventi è di intimidire e contrastare la scesa in campo della massa di lavoratori, giovani, donne, proletari immigrati, anche quando questi episodi coinvolgono solo alcuni militanti. Si colpisce una parte per dare un chiaro segnale a tutti, sia agli ampi settori che già si sono attivizzati sia a quelli che, egualmente toccati dalla politica governativa, possono scendere in campo. Non è infatti solo l’intimidazione pura e semplice lo scopo degli interventi delle forze dell’"ordine": è anche quello di costringere ad "abbassare i toni", contenere le richieste, moderare la critica e la lotta al governo, ovvero di togliere al movimento proprio la sua arma politica principale, l’approfondimento delle ragioni della propria lotta e la sua radicalizzazione che soli possono permettergli di reggere lo scontro e di lavorare al coinvolgimento della più ampia massa proletaria.
È un film già visto, in grande, a Genova lo scorso anno con la repressione (insieme a velenose offerte di "dialogo") di un movimento di lotta ai suoi primi passi, ma ampio per composizione e per contenuti e con la presenza di molti lavoratori, soprattutto giovani e precari. Non si tratta di una particolarità italiana. Basta guardare a quanto sta succedendo negli Stati Uniti dove col pretesto dell’11 settembre si sta varando una legislazione emergenziale che restringe i diritti civili, sindacali e di associazione. O nel resto d’Europa dove -col pieno avallo della Commissione Europea di Prodi- la magistratura e il governo spagnoli stanno mettendo fuori legge il partito basco Batasuna "reo" solo di non essere completamente omogeneo allo stato (all’indomani dello sciopero generale dei lavoratori) dove, in tutti i paesi, si stringono le maglie della legislazione anti-immigrati.
Il punto è che la restrizione dei diritti dei lavoratori -condizione ed effetto della spremitura sui posti di lavoro- richiama uno stato sempre più autoritario, un esecutivo sempre più concentrato, apparati repressivi sempre più mastodontici per il disciplinamento dei lavoratori e della società nel suo insieme agli imperativi del profitto e del mercato. Come rispondere?
Innanzi tutto reagendo al disorientamento per un tipo di azione dello stato che anni di relativa "calma" sembravano aver relegato al passato (e contro le sole "frange estremiste") e che invece torna ad essere strumento "normale" contro chi lotta. Gli episodi di intimidazione vanno portati a conoscenza della massa dei lavoratori, ne va svelato il significato. Se l’obiettivo della repressione statale è di frenare il movimento di massa contro l’art. 18, la risposta più efficace è lavorare alla crescita, all’estensione e alla radicalizzazione di questo movimento portando al suo interno la battaglia specifica contro gli interventi repressivi. La limitazione degli "spazi" di agibilità politica e sindacale è frutto del tendenziale venir meno dei margini di compromesso fra lavoratori e quanti vivono del lavoro altrui. Questa limitazione e l’attacco all’organizzazione dei lavoratori attraverso l’eliminazione dell’art. 18 e degli altri diritti sono due facce della stessa medaglia e vanno combattute insieme. È questo il modo migliore per far pagar salato al governo e agli apparati statali il conto delle loro azioni, facendone un boomerang che ne indebolisca il consenso popolare e che a date condizioni può anche incrinare l’arroganza e la compattezza di parte degli stessi apparati repressivi. Un movimento di massa forte e ampio -lo dimostra la sollevazione popolare in Argentina- è la migliore difesa anche dai colpi della repressione.
Un altro elemento essenziale è aver chiaro che non siamo di fronte a episodi "contingenti" o per conto del solo governo di destra (a Napoli, un anno fa, la repressione brutale della piazza no-global fu gestita direttamente dal governo di centro-sinistra). Anche se a tutt’oggi limitati, essi indicano che l’apparato statale sta scaldando i motori per ri-attrezzarsi di fronte al ri-aprirsi di uno scontro di classe profondo e a tutto campo. Non si tratta di un piano architettato a tavolino dal Fini di turno, ma dello "spontaneo" adeguarsi alle necessità della fase che si è aperta: le necessità di una classe, quella che detiene i mezzi per sfruttare il lavoro altrui, e di un sistema, il mercato, di fare un salto nella spremitura dei lavoratori mettendo in conto di dover intervenire anche con la forza concentrata dello stato a contrastare o prevenire la loro reazione. Per questo è solo controproducente richiamarsi alla presunta imparzialità dello stato, magari chiedendogli di intervenire a raddrizzare presunti "corpi deviati". Non si tratta di deviazione, ma al limite di anticipazione! I fatti dimostreranno con sempre più evidenza che lo stato in quanto tale serve gli interessi di una parte della società, una parte minoritaria sfruttatrice. La difesa dei lavoratori non può essere delegata o surrogata da nessuno che non siano i lavoratori stessi, il cui unico vero presidio è l’organizzazione, il protagonismo, l’unità, le ragioni dei propri esclusivi interessi di classe produttrice di tutta la ricchezza sociale.