Perché la Cgil si è posta alla testa del movimento di lotta.

 E con quale prospettiva

 

La Cgil ha preso la testa del movimento di lotta contro il governo di centro-destra. Si può dire che, in buona misura, lo ha essa stessa "impulsato dall’alto", raccogliendo le insoddisfazioni e preoccupazioni della massa dei salariati. Essa si trova di fronte ad una prova decisiva, in quanto le viene richiesto di abbandonare anche la più pallida pretesa di "autonomia" dalle aziende e dallo stato e di trasformarsi in una semplice appendice delle une e dell’altro. Ciò che Cisl e Uil mostrano invece di voler fare senza patemi: divenire succursali dello stato, per sedere negli "enti bilaterali" a co-gestire formazione e collocazione della forza-lavoro, co-distribuire quel che rimane degli "ammortizzatori sociali", sottoscrivere accordi che legittimino le politiche del governo, venendone, a loro volta, legittimate (e foraggiate) in quanto "rappresentanti dei lavoratori". Cosa trattiene la Cgil dal compiere lo stesso passo (al di là del fatto che anche in Cgil più d’uno sarebbe disposto a farlo…)?

La Cgil è il sindacato che più degli altri conserva uno strato numeroso di lavoratori-delegati-attivisti (e si è ben visto, con la grande riuscita degli scioperi, come una struttura di militanti possa controbilanciare anche le campagne mediatiche anti-sciopero, quando, naturalmente, la sua attività si sposa con reali e profondi bisogni di massa!). Questo strato svolge una funzione di mediazione tra le esigenze dei lavoratori e quelle di aziende e governi, e si è storicamente presentato, agli occhi dei lavoratori, come dotato di una propria autonomia di posizioni rispetto a quella delle controparti. Con il passare degli anni una tale "diversità" si è progressivamente stemperata, ma non si è del tutto annullata e sembra tuttora resistere, se non addirittura rilanciarsi, proprio nel momento in cui l’attacco di parte padronal-governativa si fa più duro. Se tale progetto venisse attuato, il tipo di sindacato che è stato finora la Cgil non potrebbe sopravvivere.

A questo si aggiunge il resto della manovra del governo che vuole demolire tutto l’assetto di "garanzie sociali" conquistate con decenni di lotte in cui la Cgil ha svolto un ruolo di primo piano. Tutto ciò che costituiva il pacchetto di garanzie aggiuntive ai salari per assicurare una vita dignitosa, minaccia di scomparire assieme al cosiddetto "fisco equo", a cui si pagava formalmente in misura dei propri guadagni (quando si pagava!, visto che lavoro "autonomo", redditi professionali, d’impresa e finanziari hanno potuto beneficiare di molteplici meccanismi per auto-ridursi le tasse e le imposte anche quando al Tesoro non c’era Tremonti ma un ministro ulivista).

Queste misure costituiscono una vera e propria rottura del "patto sociale" tra sfruttatori e sfruttati a cui la Cgil è legata fin dalla sua ricostituzione ufficiale avvenuta nel 1944; un quadro di rapporti in cui il padronato accettava di contrattare le sue pretese, lo stato si occupava di alleviare alcune preoccupazioni proletarie (sanità, pensioni, scuola, ecc.), e da parte sua il proletariato si limitava a lottare per imporre di volta in volta le riforme di suo interesse e a difendere i propri salari, ma sempre solo entro i ferrei limiti delle compatibilità nazionali e aziendali. Con l’aperta dichiarazione di guerra fatta da Berlusconi e da Confindustria tutto questo mondo rischia ora di franare, e la conflittualità sociale e politica appare destinata a inasprirsi in modo esponenziale. La Cgil vorrebbe evitare questa precipitazione. In gioco è, per l’appunto, la sua stessa esistenza. È per questo che si è mossa e continua (un po’ meno, in verità) a muoversi con una certa decisione e compattezza.

Senonché lo scontro è già assai duro. Uno sciopero generale non è stato sufficiente per bloccare il governo; e neanche un secondo lo sarà. Per opporsi efficacemente al governo sarebbe necessario accompagnare gli scioperi generali con mobilitazioni diffuse, scioperi di categoria, di azienda, e con forme di lotta più incisive di quelle adottate finora. Servirebbero l’estensione e la radicalizzazione della lotta. Potenzialmente le forze sociali per una tale battaglia ci sono. Si tratta di raccoglierle in un unico fronte. Come? Presentando una piattaforma unificante e una prospettiva politica coerenti con l’affermazione integrale degli interessi e dei bisogni più profondi del proletariato e delle masse non sfruttatrici della società.

Ma ad una prospettiva, e ad uno scontro di classe, del genere la direzione della Cgil è del tutto indisponibile. Un periodo d’acuta conflittualità e una piattaforma che tenga conto solo dei bisogni dei lavoratori (anziani e giovani, tutelati e precari, donne e immigrati) verrebbe a cozzare duramente con le esigenze delle aziende. E metterebbe a rischio la loro competitività ostacolando l’ulteriore diffusione della flessibilità della forza-lavoro, che è l’alfa e l’omega di Berlusconi, come del resto dell’intero centro-sinistra (perché altrimenti Rutelli e Fassino insisterebbero tanto sulla ricucitura con le direzioni di Cisl e Uil?). Anche per la direzione della Cgil la competitività è un bene primario da salvaguardare.

Berlusconi afferma chiaro e tondo che per garantire tale competitività, bisogna ridurre i diritti dei lavoratori. Cofferati, da parte sua, obietta che diritti dei lavoratori e competitività delle imprese possono convivere gli uni accanto all’altra, ma è proprio per questo che non lancerebbe mai uno scontro prolungato e duro, così come non farebbe mai suo il completo rifiuto della flessibilità pretesa dal capitale; tuttalpiù continuerebbe sulla linea di concederla previa contrattazione con il sindacato. Il suo "sogno" è quello di un buona intesa tra capitale e lavoro e il suo sempre più evidente impegno è di tradurlo in realtà costruendo uno schieramento politico che se ne faccia carico in Italia e in Europa.

In Italia l’orizzonte di questa battaglia sono ovviamente gli attuali partiti del centro-sinistra. Non però con la loro scomposizione e la formazione del "partito del lavoro", ma con un percorso di lotta interna ai Ds e all’Ulivo per spostarli più "a sinistra" e accumulare forze in grado di sconfiggere alle prossime elezioni il centro-destra. Di qui la proposta di fare ancora uno sciopero generale, ma se questo non fermerà il governo sull’art. 18, come è probabile, non si dovrà continuare la lotta di piazza contro il governo Berlusconi-Bossi-Fini, si dovrà passare al referendum abrogativo e a preparare le agognate elezioni del 1996.

Quanto al livello europeo, alcune iniziative e dichiarazioni di Cofferati, come la partecipazione allo sciopero generale spagnolo del 20 giugno e il tema, qua e là accennato, dei diritti dei lavoratori nel quadro di una politica europea, sembrano indicare il percorso che ha in mente. Il suo nocciolo? Il richiamo al vertice UE di Lisbona (che, però, con i diritti dei lavoratori non era affatto tenero…) e al "Libro bianco" di Delors, il documento che difendeva più organicamente di ogni altro l’idea di una "Europa sociale", quindi l’inizio di una discussione sullo sciopero europeo. L’intervento su un’area più vasta dovrebbe rendere più "credibile" la possibilità di porre alcuni correttivi reali alle più selvagge leggi del mercato, e ottenere che la competitività delle imprese europee si realizzi senza peggiorare le condizioni dei lavoratori.

Sappiamo bene che a pensarla così non è il solo Cofferati; sono anche i molti lavoratori di antiche simpatie pciiste (un po’ meno quelli di Rifondazione che temono di vedere il loro partito spiazzato da un più marcato attivismo politico di Cofferati); sono molti giovani lavoratori, tra i quali c’è chi si impegnerebbe volentieri in un partito da lui guidato. È da credere che non siano attratti solo dalla persona, ma dall’insieme del programma proposto da Cofferati e dal gruppo dirigente della Cgil: ottenere un maggiore rispetto dei lavoratori in quanto esseri umani, entro un quadro generale che si propone di combinare "ragionevolmente" le esigenze del mercato e le esigenze di chi lavora.

Per questi lavoratori, soprattutto per i più giovani, condividere oppure solo discutere di una simile prospettiva può essere, è un passo avanti rispetto all’apatìa e all’individualismo imperanti negli scorsi anni, od al puro e semplice limitarsi all’esercizio del voto. Avviene su queste basi una ripresa di attività politica da parte di proletari in carne ed ossa, che da destra a sinistra si fa il possibile per scoraggiare, ricacciando i lavoratori al "loro posto", a obbedire a capo chino ai comandi dell’azienda, dei mercati e dello stato, tenendosi al di fuori di un campo, quello politico, che non competerebbe loro, bensì ai professionisti della politica.

Questa ripresa di attività politica va, a nostro parere, incoraggiata e sostenuta. Con una battaglia che ne raccolga e ne espliciti tutta la positività (in quanto a forza dinamica), la spinga a muoversi lungo una linea di coerenza con le aspettative di fondo, e ne discuta con franchezza i non pochi e tutt’altro che secondari limiti e contraddizioni.

A questi militanti del movimento anti-Berlusconi quanto diremo in proposito, soprattutto circa la prospettiva politica indicata dalla Cgil, può suonare stonato, fuori luogo, perfino dannoso. Potrà sembrare che vogliamo dividere un mondo del lavoro che invece sta finalmente raccogliendosi intorno ad una sinistra che pare in via di rigenerazione. Tuttavia l’esperienza passata, lontana e vicina, del movimento proletario e le condizioni attuali dello scontro in atto dimostrano che la prospettiva indicata da Cofferati non è in grado di soddisfare nessuna esigenza dei lavoratori in lotta, e finirà per disperdere, anzi sta già disperdendo, l’energia di lotta sprigionatasi negli ultimi tempi.

 

Dopo il nuovo sciopero generale,

il referendum e le elezioni del 2006...

Su questa via nessuna esigenza dei lavoratori

verrà soddisfatta, e la forza

 raccolta in questo anno si frantumerà!

 

Il problema non riguarda tanto gli obiettivi immediati proposti dalla Cgil. Resistere all’attacco del governo, conservare ed estendere l’art. 18, fermare la diffusione della precarietà e cercare di riportarne una prima parte nell’alveo di una maggiore sicurezza, opporsi alle contro-riforme di sanità, scuola e pensioni. Tutto ciò può ben essere un insieme di obiettivi di lotta anche da noi condivisibili, salvo andare a specificare cosa c’è dietro realmente queste parole d’ordine (e qui comincerebbero certamente i guai). Il problema, o meglio il primo problema, sta nel piano di lotta che la Cgil propone per raggiungerli, che si può condensare nei seguenti punti:

1. fare ricorso ad alcune mobilitazioni di lotta, molto scaglionate nel tempo, evitando una conflittualità più diffusa, continua, radicale;

2. cercare di allargare il fronte di lotta con proposte legislative e con l’eventuale referendum abrogativo;

3. accompagnare questo minimo di scioperi con un percorso di "rigenerazione" dell’Ulivo;

4. mandare a casa il governo attraverso il meccanismo elettorale.

Senonché un po’ di scioperi diluiti (sia pure generali e ben partecipati) non smuoveranno di un millimetro Berlusconi e soci. Per bloccare la politica del governo c’è bisogno di una conflittualità più incisiva; di aumentare le ore di sciopero, di estendere la conflittualità fin dentro le aziende, di dare vita a manifestazioni che non si riducano a delle pur affollatissime sfilate, ma diano il segnale deciso di voler puntare davvero a bloccare tutta la produzione, i servizi, il commercio, i trasporti, ricorrendo alle armi classiche dei picchetti, dei blocchi stradali, dello sciopero generale e generalizzato per 24 ore.

Questo sarebbe il minimo indispensabile, eppure non lo si fa. Certo, il governo è contestato, ma non lo si mette per davvero alle corde, e così la demolizione dell’art. 18 va avanti e il governo può varare una nuova finanziaria fatta di tagli alla spesa, cioè di nuovi colpi ai lavoratori. Alla luce di quello che sta avvenendo, il piano-Cofferati che pretende di essere il migliore possibile per ottenere il massimo dei risultati con l’impiego della minor quantità di energie, si rivela invece incapace di costringere il governo a fare un passo indietro, e la sua attuazione, invece di logorare il governo, finirà, inevitabilmente, per logorare e sfiduciare le forze del movimento.

Una delle giustificazioni addotte per motivare la "moderazione" delle forme di lotta è che attraverso di essa si può allargare il fronte di lotta, ma è una circostanza smentita dall’esperienza che stiamo facendo. A chi si può allargare il movimento a queste condizioni? Non certo, per esempio, ai milioni di giovani precari. Essi sono stati attratti in gran numero alle lotte svolte finora. Ma per sentirsi davvero partecipi del movimento, c’è bisogno che lo vedano determinato a farsi carico della loro necessità di riscattarsi dalle condizioni semi-schiavistiche in cui sono tenuti. La loro partecipazione va favorita con mobilitazioni che li coinvolgano in prima persona. Gli scioperi regionali ultimi senza cortei gli hanno invece negato l’unica possibilità di partecipare attivamente, di portare il loro contributo numerico, di denunciare al movimento proletario tutto la propria situazione, di chiedere solidarietà attiva agli altri lavoratori e di proporre loro una lotta decisa contro la flessibilità, la precarietà e la totale assenza di tutele sindacali.

Una lotta poco incisiva può conquistare, forse, la solidarietà compassionevole di qualche "moderato", ma di sicuro respinge ai margini i settori già emarginati del proletariato della net economy e delle piccole aziende. E alla lunga, invece di attrarre, disperde anche il patrimonio di attenzione dei settori sociali non proletari che vivono con disagio i passaggi focali della politica berlusconiana. Data la collocazione sociale, questi non hanno di proprio alcuna forza reale per fermare il governo; la loro protesta non può andare oltre le sfilate e le petizioni ai partiti d’opposizione. Nello sciopero e nella mobilitazione proletaria vedono manifestarsi quella forza di cui sono privi. Ma se il proletariato non esercita la sua forza, o la trasforma in debolezza andando a rimorchio di una conduzione incerta e inefficace della lotta, allora le loro simpatie si traducono in delusione e, facilmente, anche in contrapposizione.

Perché la Cgil non si impegna in un lavoro di questo tipo? Per ottusità tattica? Assolutamente no. La ragione l’abbiamo già detta: la Cgil è contro l’innalzamento del livello dello scontro perché questo provocherebbe delle grosse difficoltà alle imprese e all’economia nazionale (leggi: padronale). E la Cgil è molto sensibile a questi richiami, che sono in profonda contraddizione con gli interessi dei lavoratori. Lo è al punto tale che, nel ’92, segretario Trentin, non esitò a sottoscrivere la scomparsa della scala mobile e la sospensione della contrattazione pur di evitare all’economia nazionale il disastro che incombeva per la super-svalutazione della lira. Quel disastro, con la Cgil concorde, fu pagato dai lavoratori con la finanziaria "lacrime e sangue" del governo Amato (uno dei leader del centro-sinistra odierno e futuro…), che oltre a rinunce materiali, impose anche la sospensione dei diritti contrattuali. Alla minaccia di un nuovo disastro finanzario dell’azienda-Italia (la contabilità dello stato ne preannuncia uno in questi giorni) la Cgil risponderebbe con la identica "ragionevolezza" di allora…Il nodo è, insomma, tutto politico.

Lo stesso identico nodo emerge sull’atteggiamento generale nei confronti del governo. Cisl e Uil sostengono che con esso si può, anzi si deve, "contrattare", e cioè cedere sul piano dell’organizzazione collettiva dei lavoratori, per ricavarsi un ruolo di sindacato para-statale e para-aziendale. La Cgil sostiene invece che con Berlusconi si può trattare solo costruendo, con la lotta, dei rapporti di forza più favorevoli, e lascia intendere che la cosa migliore sarebbe mandarlo a casa. Esclusivamente, però, per mezzo di un risultato elettorale, non sotto la pressione della piazza. Il che fa sì che, per intanto, il governo la sua politica del "già fatto" continui a portarla avanti...

I programmi dell’Ulivo

vanno riformati o combattuti?

Ciononostante, va riconosciuto che la Cgil fornisce una risposta sbagliata a un problema vero. Il problema vero è che la resistenza dei lavoratori non può essere vincente se si limita al puro piano sindacale. Essa deve necessariamente trovare la sua collocazione su un piano di lotta più generale, politico, e deve darsi gli strumenti adeguati allo scopo. Per la Cgil il piano politico su cui muoversi è rappresentato dai programmi dell’attuale centro-sinistra (inclusa Rifondazione), all’interno dei quali andrebbero accentuati gli elementi "a favore dei lavoratori". Ma è possibile riformare i programmi del centro-sinistra da un punto di vista proletario?

Le politiche uliviste in Italia, come tutte le politiche socialdemocratiche in Europa, sono state e sono orientate a estendere la flessibilità e la precarietà (anche in Francia le 35 ore, laddove sono state attuate realmente, si sono rivelate un ottimo strumento per aumentare la flessibilità dei lavoratori a vantaggio delle aziende, salvo poi, all’arrivo della destra, esser abolite in un quadro, appunto, di accresciuta pesantezza del lavoro); hanno tagliato dovunque le spese sociali per favorire l’accumulo dei capitali da parte della grande finanza e delle multinazionali; hanno contribuito dovunque a porre i lavoratori immigrati in una condizione di emarginazione e di ricatto; hanno sostenuto e applicato dovunque politiche di rapina e di aggressione militare verso i popoli ribelli (la guerra contro la Jugoslavia -è il caso di ricordarlo- è stata condotta da governi in maggioranza di "centro-sinistra").

Si tratta di errori correggibili o di presupposti incorreggibili? D’Alema non perde occasione per ricordare al suo amico Cofferati che non si può essere troppo rigidi nel sostenere la contrattazione collettiva perché bisogna essere aperti alla modernizzazione che avanza, dove modernizzazione significa restituire alla logica del mercato ciò che si era finora cercato di sottrargli. Sarà sufficiente affiancare a D’Alema un Cofferati (o sostituire il primo con il secondo) per cambiare non questo o quel singolo punto del programma ulivista, ma il dogma di fondo che non bisogna opporre troppi ostacoli al mercato?

Per avere risposta a questo interrogativo non bisogna attendere futuri esperimenti perché Cofferati e tutta la Cgil quel dogma (di D’Alema e di tutto l’Ulivo) lo condividono e lo difendono. Ciò che li divide da D’Alema sono solo, tuttalpiù, le modalità con cui metterlo in pratica. Non a caso la politica della Cgil non rifiuta la flessibilità, ma ne chiede la contrattazione; come non rifiutò l’aggressione alla Jugoslavia ma al contrario la giustificò quale "contingente necessità"; come non sta prendendo alcuna iniziativa per unificare nella lotta immigrati e lavoratori italiani (né sta dando battaglia contro il razzismo che si annida tra gli stessi lavoratori bianchi).

Insomma, la giusta necessità di lavorare a una prospettiva politica che raccolga le istanze del movimento dei lavoratori non può certo trovare nelle forze del centro-sinistra la sua soluzione. Deve anzi, gioco forza, passare attraverso un bilancio impietoso e uno scontro aperto con i presupposti della politica ulivista e con quelli, assolutamente identici, della Cgil. Un bilancio di massa (che la massa dei lavoratori può fare nella lotta e con la lotta), che deve iniziare a essere tratto dalle avanguardie, da parte di tutti coloro che militano con passione per il successo del movimento di lotta contro Berlusconi.