Per sconfiggere il governo che ci ha sfidati, dobbiamo incrementare la forza del movimento. Servono forme di lotta più decise, come si è già detto, ma serve anche coerenza piena tra quanto si dichiara sull’art. 18 e quanto si pratica altrove. Non si possono negare al governo quegli sconti che poi si concedono al padronato con la contrattazione categoriale e aziendale. Non si può dichiarare di voler difendere l’art. 18 e poi, come fa la Cgil, firmare accordi di mobilità o licenziamenti per migliaia di lavoratori, inclusi quelli che l’azienda considera scomodi per la combattività.
Salario diretto e indiretto
La lotta per un recupero salariale serio e generale va ripresa con forza, e con forza va data una lotta per impedire lo smantellamento di pensioni, scuola e sanità. I lavoratori hanno già sperimentato come la gestione "pubblica" dei "servizi" non fornisce di per sé un migliore rispetto delle esigenze di chi lavora, anzi è fonte di malversazioni, sprechi, parassitismi e arricchimenti individuali. Su questo piano, "pubblico" e "privato" si equivalgono. Entrambi, in ultima istanza, favoriscono il profitto. La certezza che sanità e scuola siano uguali per tutti, che le pensioni non diventino costosissime, che tutti gli altri servizi sociali siano garantiti può darla solo una lotta generale che imponga ai gestori, pubblici e privati, il completo rispetto delle esigenze dei lavoratori. Ciò vuol dire che i lavoratori debbono organizzarsi per esercitare in prima persona il controllo sulla gestione, che può essere più agevole se anche i lavoratori di quei settori si sentono fino in fondo partecipi di un movimento generale, fino al punto di percepire che la difesa dei loro interessi specifici è protetta dalla forza generale del movimento e non deve subordinarsi alla redditività delle aziende o degli enti da cui dipendono. A loro volta essi debbono dare al movimento generale la certezza d’essere i primi controllori di ogni spreco e privilegio.
Lotta a fondo alla precarietà
Un altro compito di fondamentale importanza è cementare l’unità del fronte di lotta tra "garantiti" e non garantiti. A questo scopo è assolutamente indispensabile rivendicare l’estensione a tutti delle tutele esistenti ed è imprescindibile una campagna costante che si ponga questo obiettivo. (Battersi per una legge contro la precarietà può essere utile, ma, come tutte le leggi in materia di rapporti di lavoro, anch’essa potrà avere un certo valore solo se sarà accompagnata da vertenze diffuse per riscattare dalla precarietà il maggior numero di lavoratori.) In questo modo i giovani precari potrebbero dare corpo al loro bisogno di sindacato, non semplicemente prendendo una tessera e aspettando che il sindacato agisca dall’"esterno", o ottenga una legge un po’ più favorevole per loro, ma impegnandosi in prima persona per organizzarsi, per intrecciare la loro lotta con quella dei lavoratori "garantiti", per creare strutture e organizzazioni unitarie (come ad esempio le "Camere dei lavori precari"), per portare nel movimento il loro decisivo contributo d’iniziativa.
A fianco dei lavoratori immigrati
Altro tema centrale è che la lotta dei lavoratori immigrati contro la Bossi-Fini diventi tutt’uno con la lotta dei proletari italiani contro Berlusconi. Non bastano gli appelli; quello che serve è una battaglia seria, vera anche contro il razzismo dei lavoratori italiani. Le forme che questo razzismo assume sono, principalmente, due. La prima, propugnata dalla destra, rifiuta qualunque rapporto con loro e contribuisce a creare un clima sociale e politico che rinchiude gli immigrati nella prigione del permesso di soggiorno, li priva della libertà di organizzazione sindacale e politica e li confina in quel mercato del lavoro parallelo che è uno degli strumenti che il padronato adopera per demolire le tutele dei lavoratori italiani. La seconda, diffusa dalla sinistra, propone di "accettare" i lavoratori immigrati perché essi "servono alla nostra economia". Il punto è che all’"economia", cioè ai padroni, servono lavoratori immigrati così "deboli" e privi di diritti da non potersi ribellare alle condizioni differenziate di sfruttamento… L’eliminazione del "doppio mercato del lavoro" si può avere solo se ai lavoratori immigrati viene riconosciuto il pieno diritto di organizzarsi liberamente sul piano sindacale, politico, culturale, religioso, senza che gli penda di continuo sulla testa la minaccia di perdere il permesso di soggiorno. Bisogna intrecciare con loro una profonda solidarietà di lotta, dare pieno appoggio e partecipare alle mobilitazioni che già da soli stanno organizzando, condurre insieme ai popoli da cui provengono una lotta internazionale contro la globalizzazione capitalista e contro l’aggressione continua cui sono sottoposti, e che è la vera causa che li costringe ad emigrare.
Per il protagonismo delle donne
La quantità di donne presenti alle manifestazioni e il contributo da loro dato alla riuscita degli scioperi mostrano come sia già grande la loro voglia di stare in campo. La loro "specifica" condizione rimane, però, complessivamente fuori dagli obiettivi dichiarati delle lotte. È, invece, necessario che vi prenda un posto centrale. Questo governo punta molto sulla sottomissione delle donne sul posto di lavoro, nella famiglia, nella società, per realizzare la sua politica anti-proletaria e di generale disciplinamento sociale. Il movimento contro di esso non ne può, di conseguenza prescindere. A maggior ragione per le donne non è possibile separare la condizione di lavoro da quella che vivono nella famiglia e nella società, né possono dimenticare tutti gli aspetti che rendono la propria situazione lavorativa peggiore di quella dei lavoratori maschi. Come e forse più d’ogni altra questione, anche questa abbisogna di un’iniziativa politica di denuncia, di rivendicazioni e d’organizzazione che non può essere delegata a nessuno, ma deve vedere il protagonismo diretto anzitutto delle donne quale componente integrante di un più generale ritrovato protagonismo di tutti gli strati oppressi della società.
Lavoratori, stiamo attenti a non ripetere gli errori del 1994.
Non dobbiamo moderare la lotta, dobbiamo intensificarla!
La grande maggioranza dei lavoratori in lotta è consapevole che la cosa migliore è disfarsi di questo governo, ma punta finora le proprie carte -purtroppo- su un numero che non può uscire sulla ruota della… fortuna: la speranza che alle future elezioni del 2006 vinca un centro-sinistra meno compromesso con i programmi dei mercati e di Confindustria.
Per i lavoratori una prospettiva del genere, lo diciamo senza giri di parole, è suicìda. Quale vantaggio possa venire ad essi nel mantenere in vita, per altri 4 anni!, il governo Berlusconi ci è impossibile capirlo. Lasciarlo in vita significa anzitutto consentirgli di continuare a demolire l’organizzazione dei lavoratori; e pur ammesso che il movimento riesca a imporgli qualche modifica di dettaglio, tra 4 anni avremo un governo più forte e un movimento più logoro. Secondariamente, la "rigenerazione" dell’Ulivo presuppone l’inseguimento di tutta una congerie d’elementi "moderati" che nella coalizione rimarrebbero solo a condizione che il movimento moderi, cioè, a ben vedere, tradisca e svenda i propri obiettivi.
Rinunciare a battere il governo con la mobilitazione di scioperi e di piazza, e puntare a sconfiggerlo invece per via elettorale, significa ripetere esattamente l’esperienza del ’94, cioè auto-moderare i propri obiettivi (nel ’94 si passò dal "le pensioni non si toccano" della piazza alla "riforma delle pensioni" contrattata con quel bel campione di Dini), smobilitare la piazza, lasciare piena libertà a governi "amici" (che bel tipo di amici!) come quelli di Dini, Prodi e D’Alema di fare le loro "riforme", che saranno state pure più leggere di quelle di Berlusconi, ma si sono mosse lungo la stessa logica di sottomissione ai mercati e alle aziende (a proposito: è un caso che l’ex-ministro diessino Bersani e il presidente di Confindustria D’Amato vadano tributandosi riconoscimenti di critiche comuni alla "politica economica" di Berlusconi? possibile sfugga a un Bersani che Confindustria critica il governo da destra per ottenere misure ancora più anti-operaie?).
Il piano elettorale per i lavoratori è sempre perdente. Lo è anche per quanto riguarda il referendum, perché nessuna legge è mai definitivamente approvata, e pure se dovessero perderlo, com’è improbabile, i padroni e il governo tornerebbero di nuovo all’attacco, e per i lavoratori si riproporrebbe lo stesso problema di ora: come costruire i rapporti di forza necessari a imporre il rispetto delle regole sottoscritte.
Il 1994 ci consegna una lezione da non dimenticare: è solo la mobilitazione costante dei lavoratori che può impedire che un governo capitalistico adotti politiche contrarie ai loro interessi, almeno fino a quando la massa dei lavoratori, che è la grande maggioranza della società che produce tutta la ricchezza sociale, e permette col proprio lavoro a tutta l’umanità di sopravvivere, non avrà le forze sufficienti per imporre il proprio "governo". Ne passerà ancora di tempo finchè il proletariato abbia la forza politica per imporre il "governo", il potere, della propria classe? È probabile. Ma il punto essenziale è: come deve trascorrere questo tempo? Appoggiando governi "meno nemici", che di bastonate ce ne danno, e come!, tra una carota e l’altra, o lavorando ad accumulare le nostre forze? E come si possono accumulare le forze della nostra classe se non dando vita a una mobilitazione continua su tutti i piani?
Nel ’94 si sbagliò proprio perché la lotta fu smobilitata e si consegnarono le proprie sorti nelle mani del parlamento e di forze politiche subordinate ai mercati. Questa strada non va ripercorsa. Ecco perché non bisogna avere alcuna esitazione a dichiarare di volere costringere Berlusconi a dimettersi con la lotta. Per "bloccare" davvero la politica di Berlusconi in campo politico-sindacale, sociale, dell’informazione, della giustizia e della guerra l’unica è di buttarlo giù con una battaglia aperta di piazza e di scioperi, sostenuti da una solida unità tra tutti i movimenti "specifici" suscitati dalla necessità di opporsi alle politiche del centro-destra. Nessun movimento potrà realizzare le sue rivendicazioni (si tratti del blocco della riforma della giustizia, della blindatura dell’informazione, dell’abolizione dell’art. 18 o dell’aggressione all’Iraq) senza cacciare Berlusconi con la lotta extra-parlamentare; e quanto più il governo verrà costretto a dimettersi per mano di un movimento di lotta forte e determinato, tanto più sarà difficile per il governo che lo sostituirà riprendere a tessere la tela della politica anti-proletaria.
In Argentina la lotta proletaria ha costretto alle dimissioni più di un governo e la resistenza che le masse in lotta continuano ad opporre alle politiche di Duhalde e del Fmi impedisce a questi ultimi di riprendere a scaricare le conseguenze della crisi economica e finanziaria sulla massa lavoratrice. La partita non è chiusa a vantaggio delle masse lavoratrici, ma non è chiusa nemmeno a vantaggio delle politiche di rapina del Fmi e della borghesia locale. Non c’è dubbio che per risolverla definitivamente a suo vantaggio il proletariato dovrà compiere un salto politico e organizzativo, darsi la strategia e gli strumenti necessari ad instaurare il proprio potere, estendere la mobilitazione (almeno) all’intero continente latino-americano, dotarsi di un proprio partito. Ma questo salto sarà possibile solo se non sospenderà neanche per un minuto la lotta contro i tentativi di Duhalde, o di chiunque lo sostituirà, di far pagare alla massa lavoratrice il conto della crisi capitalistica.
Ogni passo in avanti del movimento si scontra dunque con un nodo essenzialmente politico. Questo vale anche per l’internazionalizzazione dello scontro.
Internazionalizzare la lotta,
anche contro l’imperialismo europeo, le sue "paci" e le sue guerre!
Internazionalizzare, estendere la mobilitazione (almeno) a livello europeo è un’esigenza che inizia ad essere avvertita anche in qualche (piccolo) settore della massa dei lavoratori ed è profondamente giusta. Il percorso per costruirla non è semplice, né scontato. Implica dei passaggi obbligati sul piano sindacale, in quanto è necessario dare vita a lotte comuni e con comuni obiettivi tra i lavoratori d’Italia, Spagna, Gran Bretagna, Germania, ecc. (per questo è fondamentale che l’iniziativa per uno sciopero europeo, di cui si comincia a parlare in ambienti sindacali, non rimanga confinata nelle direzioni sindacali, ma veda il protagonismo diretto di delegati e lavoratori). Ma implica anche dei passaggi obbligati sul piano politico che, ancora una volta, rimandano alla questione della competitività, e, in ultima istanza, all’autonomia del movimento proletario dalle leggi di mercato e dalle aggressioni ai popoli di colore di cui il mercato, il capitale imperialista vive.
Si prenda l’esempio della Fiat. Dinanzi ai massicci licenziamenti richiesti dall’azienda per affrontare la crisi, la Fiom-Cgil ha opposto la necessità di "un piano industriale" che rilanci l’azienda sul mercato, quale unica garanzia per conservare i posti di lavoro. Un rilancio dell’azienda Fiat avrebbe la conseguenza diretta di scaricare la crisi su altre aziende (molto probabilmente proprio europee). In questo modo, invece di favorire la costruzione di vincoli di solidarietà e di lotta tra i lavoratori europei, tutti -dal più al meno- alle prese con problemi analoghi, si favorisce lo scontro fratricida tra loro.
Per evitare che le crisi dei mercati si trasformino in guerra tra lavoratori occorre sbarazzarci della pratica e della logica aziendalista, e rafforzare la solidarietà di classe tra i lavoratori di diverse aziende e paesi, come potrebbe fare, in questo caso, una lotta a scala europea per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario. Un obiettivo nient’affatto illusorio se sostenuto da un movimento di lotta che lo rivendichi almeno per l’intera Europa.
Un fronte di lotta unitario dei lavoratori europei dovrebbe essere solo un primo passo verso una completa internazionalizzazione della lotta. Se si lascia infatti che nel resto del mondo la globalizzazione capitalista imperversi, nessun lavoratore in nessuna parte del mondo si potrà sottrarre alle condizioni di concorrenza, più o meno selvaggia. La globalizzazione è imposta con le politiche di ricatto finanziario e di guerra per accaparrarsi le risorse (naturali e umane) del mondo intero onde poterle volgere a profitto degli stati usurai, della loro finanza e delle loro multinazionali, trascinando nella miseria interi popoli e interi continenti. Di questa politica gli stati europei e i loro governi non sono vittime, bensì tra i protagonisti, a fianco (e in concorrenza tra ladroni) con Usa, Giappone, Canada e Australia.
Per bloccare la politica anti-proletaria di Berlusconi, Aznar, Blair, Prodi, ecc. in Europa, è inevitabile dover lottare anche contro le loro politiche di aggressione al Terzo Mondo, di "pace" e di guerra, a cominciare da quelle in atto contro l’Iraq, l’Afghanistan, i palestinesi, in America Latina, che sono l’altra faccia dell’attacco al proletariato "interno". Questo comporta la necessità di intensificare la propaganda contro queste infami guerre dell’Occidente e di inserire già da subito questi "temi" all’interno del prossimo sciopero generale.
Nell’Europa di Bruxelles (e di Prodi, il partner "ideale" di Cofferati a detta di molti…) non troveremo certo un’entità disponibile a raccogliere queste ed altre istanze dei lavoratori; essa, al contrario, fa una politica attiva in favore dei mercati, contro i lavoratori, contro i popoli dominati del Terzo Mondo. Non è un alleato, ma su ogni piano un avversario dei lavoratori. È un avversario anche nel caso delle politiche à la Delors, basate sulla falsissima idea che l’Europa sia identificabile con lo "stato sociale" e che in virtù di ciò debba partecipare con un proprio specifico ruolo "progressista" alla conquista del mondo. Queste politiche mettono oggi i lavoratori europei alla mercé delle mire imperialiste europee, per trascinarli magari, domani, anche allo scontro bellico con gli Usa, cioè con i lavoratori statunitensi.
Una chiara dimostrazione delle conseguenze disastrose per il proletariato di una politica "europea" ci è data proprio da Cofferati in persona. Egli sostiene che Berlusconi e Confindustria si costringono a delle politiche anti-operaie perché hanno scelto di collocare l’Italia sul piano di una "concorrenza bassa", che si gioca tutta sui costi, a partire da quello del lavoro, mentre, secondo lui e la Cgil, l’Italia dovrebbe collocarsi, assieme a tutta l’Europa, su un piano di "concorrenza alta", fondata sull’applicazione delle tecnologie più avanzate, della conoscenza, del sapere, dell’alta professionalità dei "nostri" lavoratori, un piano che potrebbe consentirsi costi del lavoro assai più alti.
Senonché, primo: non esiste al mondo un solo paese (anche tra quelli che fanno "concorrenza alta") in cui i diritti sindacali e politici dei lavoratori non siano sottoposti ad attacchi micidiali; per non parlare degli Usa, paese a "concorrenza altissima", dove l’attacco all’organizzazione sindacale ha raggiunto i picchi più elevati e che non a caso viene oggi preso a esempio dai Berlusconi di tutta Europa. Secondo: questa proposta di Cofferati e della Cgil presuppone una divisione internazionale del lavoro, in cui ci siano paesi (europei) a "concorrenza alta" e diritti garantiti (sulla carta!) e paesi a "concorrenza bassa" evidentemente senza diritti per i lavoratori, o con una blanda gamma di diritti minimi. Come si potrebbe garantire la sopravvivenza di questa divisione del lavoro di stampo neo-coloniale dinanzi alle inevitabili reazioni delle masse super-sfruttate che ne sono schiacciate? In modo diverso da come viene già oggi difesa, con le politiche usurarie dei prestiti internazionali e gli strangolatori "aggiustamenti strutturali" del Fmi, e, in ultima istanza, con la minaccia militare e con le guerre di aggressione ai popoli terzi?
Collegare le lotte proletarie a livello europeo e mondiale, organizzare un fronte di lotta e di resistenza alle politiche che scaricano sui lavoratori le crisi, attraverso l’acutizzazione della concorrenza, deve, quindi, andare di pari passo con una lotta contro l’Europa come potenza mondiale, anche nella sua versione di "Europa sociale". Dovunque posi le sue mire di conquista (di materie prime, di forza-lavoro, di dominio finanziario, politico e militare) quest’Europa del capitale deve trovare la ferma opposizione dei lavoratori europei, e la loro politica attiva per costruire con le classi oppresse (anche degli Usa) e con i popoli oppressi di tutti i continenti un fronte internazionale e internazionalista degli sfruttati di tutto il mondo uniti contro il capitale globale.