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Tfr e fondi pensioni: due generazioni di lavoratori, due condizioni diverse da riunificare

Il governo Prodi ha fatto sostanzialmente propria la cosiddetta "riforma del Tfr" varata dal precedente esecutivo di centrodestra, addirittura anticipandola: entro il 30 giugno i dipendenti del settore privato (per i pubblici c’è ancora qualche punto interrogativo) dovranno scegliere cosa fare della loro "liquidazione maturanda". Secondo la propaganda governativa, sposata in pieno dai vertici sindacali, tale riforma viene incontro agli interessi dei lavoratori e costituisce un anello fondamentale per garantire pensioni adeguate soprattutto a chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il ’95.

I lavoratori si stanno chiedendo cosa fare. I più giovani, che sempre più spesso guardano alla pensione come ad un obiettivo irraggiungibile, o sono indifferenti al problema oppure considerano inevitabile optare per i fondi pensione come unica "concreta" possibilità (tipo: o la va, o la spacca) per "garantirsi un futuro". I meno giovani sono preoccupati soprattutto dello scalone, e sperano che il governo Prodi lo addolcisca, come ha promesso più volte. Tra essi prevale la convinzione che il Tfr convenga lasciarlo nelle casse dell’azienda o dell’Inps per averlo sempre a disposizione e non sottoporlo al rischio dei vortici borsistici.

Nell’uno e nell’altro caso, la scelta non sembra ridursi a un semplice calcolo ragionieristico. In realtà, per stabilire quale sia il passo più conveniente o il meno dannoso, occorre partire da un punto che viene sistematicamente eluso dal governo e dai vertici sindacali: come e perché si è giunti ad una situazione in cui i lavoratori si ritrovano sempre più scoperti sul piano pensionistico? Ed è proprio vero che questo è l’inevitabile scotto da pagare per l’allungamento della vita dei lavoratori?

Dini manomette le pensioni pubbliche.

La copertura pensionistica è stata il frutto di un pluridecennale percorso di lotta del movimento operaio nel novecento. Negli anni settanta, essa arrivava a garantire il 70-80% dell’ultimo salario. Ed era basata su un sistema, quello retributivo, che stabiliva un legame d’unità tra la generazione lavoratrice in attività e quella pensionata.

A partire dagli interventi del governo Amato, questo istituto ha cominciato ad essere sgretolato. L’affondo arrivò con l’attacco frontale del primo governo Berlusconi al sistema pensionistico pubblico. La lotta dei lavoratori lo bloccò. Di lì a poco, anche grazie a quella mobilitazione, il cavaliere abbandonava una prima volta palazzo Chigi, lasciando il posto al primo governo "amico": quello guidato da Dini. L’esecutivo era cambiato, ma le pensioni restarono nel mirino. Nel nome della "concreta e realistica", in realtà illusoria e rovinosa, politica del "meno peggio", si concesse al nuovo governo ciò che era stato giustamente negato al centrodestra: manomettere la previdenza pubblica.

Con la riforma Dini del ’95, il calcolo delle pensioni è passato per le nuove generazioni dal cosiddetto metodo retributivo a quello contributivo. Tradotto in soldoni: con il retributivo dopo 35 anni di versamenti si riusciva ad andare in pensione con più del 70% dello stipendio; con il contributivo, dopo 35 anni, si oscilla tra il 50 ed il 60% (ormai vi sono addirittura strati di giovani lavoratori "atipici" o "semi-atipici" per cui la copertura è anche al di sotto del 40%). Inoltre è prevista una periodica riparametrazione al ribasso dei coefficienti di calcolo che, se applicata (fino ad ora non lo è stata), porterebbe ad un ulteriore taglio della copertura pensionistica.

Giova ricordare che all’epoca (epoca poi non tanto remota) i dirigenti sindacali difesero a spada tratta nelle assemblee e sui giornali la "riforma" previdenziale, sostenendo che solo per tale via si sarebbe potuta garantire una pensione dignitosa alle nuove e future leve del lavoro.

I risultati? Un drastico e secco taglio alle pensioni per tutti i "neoassunti" e, soprattutto, una frattura materiale e normativa tra vecchie e nuove generazioni operaie. Frattura prodotta intenzionalmente con il passaggio dal "retributivo" al "contributivo" compiuto dal "governo amico" capitanato da Dini, che mise in opera il criterio spacca-proletariato contenuto nella riforma Berlusconi.

Incatenati al mercato

Versare il Tfr nei fondi negoziali di categoria o aziendali per "costruirsi" una previdenza integrativa (una volta, più onestamente, si sarebbe detto privata): ecco la ricetta che adesso ci viene propinata in tutte le salse di fronte all’evidente, ed ormai innegabile e pesante, assottigliarsi del grado di copertura del sistema pensionistico pubblico. In fior di seminari sindacali, organizzati da tutte le categorie e dalle camere del lavoro, si spiega con dovizia di particolari degni dei migliori commercialisti come e quanto "convenga", innanzitutto ai più giovani, l’operazione. Si spiega come e quanto il fondo X offra rendimenti superiori a quello Y e, al più, si mette in guardia dal fare scelte "individuali" invitando ad aderire ai fondi negoziali di categoria o d’azienda.

Insomma si parla di tutto, ma non si dice una (dicesi una) parola su come e perché si è giunti ad una simile situazione. Su quali e di chi sono le responsabilità politiche, per cui i lavoratori sono oggi chiamati a rischiare in borsa (gira che ti rigira, di questo si tratta) la propria liquidazione per tentare di garantirsi una pensione minimamente dignitosa. Già: rischiare. Infatti è vero che, all’immediato e basandosi su calcoli puramente ragionieristici, i fondi sembrano offrire rendimenti un po’ superiori alla classica rivalutazione della liquidazione, ma è altrettanto vero che essi sono pur sempre esposti al "rischio di mercato", e che dunque va messa nel conto anche l’eventualità di un loro parziale o totale fallimento. Negli Stati Uniti vi sono già stati casi di lavoratori ultrasessantenni costretti a tornare sul mercato del lavoro a causa dei pessimi risultati dei propri fondi previdenziali.

È vero che i fondi negoziali (come Cometa dei metalmeccanici) contrattati dai sindacati presentano alcune clausole di salvaguardia dell’investimento del lavoratore rispetto al puro investimento di rischio. Nonostante ciò, rimane il fatto che un pezzo del salario della classe lavoratrice viene a dipendere dal buon andamento della borsa, ovvero dalla crescita dello sfruttamento di altri lavoratori.

Primo ritornello

Due sono le motivazioni per sostenere l’inevitabilità di una nuova contro-riforma delle pensioni. Si tratta di due ritornelli.

Il primo: si è detto e si dice che le riforme al ribasso della previdenza pubblica sono oggettivamente inevitabili a causa del deficit e dei conti in squilibrio dell’Inps. Questa tesi, accettata a modo proprio anche dei vertici sindacali, sembrerebbe (sembrerebbe!) essere inattaccabile. I dati dicono infatti che nel corso degli ultimi decenni la quantità e la percentuale dei pensionati rispetto ai lavoratori attivi è fortemente aumentata e continua ad aumentare. Quindi – proseguono gli "esperti" – o si allunga l’età lavorativa e si tagliano le pensioni, o le nuove generazioni avranno a che fare con le casse dell’Inps vuote. Da un puro punto di vista ragionieristico il discorso può apparire lineare, ma ci si permettano due "obiezioni" che hanno più a che fare con la lotta di classe che con la ragioneria. Per prima cosa la base dei lavoratori attivi che "versano" i contributi tende a restringersi anche in virtù del dilagare del lavoro nero e della precarietà: una seria lotta contro queste moderne (moderne, altro che vecchie e residuali) forme di super-sfruttamento assesterebbe, tra l’altro, anche un bel colpo a tutte le fandonie contabili sui conti Inps.

In secondo luogo, quando si parla del rapporto percentuale tra occupati e pensionati si dimentica (si fa per dire) di tenere conto di quanto sia enormemente cresciuta nell’ultimo quarantennio la produttività del lavoro. Un singolo operaio oggi arriva a produrre anche il 900% in più (sì, avete letto bene) di quanto produceva negli anni ’60. Il fatto è che questo imponente incremento della ricchezza sociale permesso dallo sviluppo della produttività del lavoro, invece che rifluire verso la sua fonte, viene fatto proprio ed incamerato direttamente dalle classi borghesi e parassitarie della società e viene assorbito in quantità crescente dalle attività più anti-sociali del capitalismo come le guerre ed il militarismo. Se dunque il proletariato (cioè la classe che produce tutta la ricchezza sociale), a fronte di un aumento esponenziale dei beni prodotti, è costretto a nuotare in crescenti ristrettezze, ciò non dipende dalla contabilità dell’Inps, ma dai meccanismi di funzionamento del sistema capitalistico e dai rapporti di forza tra le classi.

Secondo ritornello

Il lavoratore che ambisce a poter andare in pensione dopo 35 o 40 anni di attività viene sempre più spesso presentato come un profittatore, un aspirante parassita che mira a campare a pancia all’aria a spese della società senza capire come e quanto sia bello e nobilitante continuare a restare in attività. Già: "il lavoro nobilita l’uomo". È dai tempi antichi che a dirlo sono sempre quelli che non hanno mai versato una sola goccia di sudore in vita loro, ma… lasciamo perdere e veniamo ad altro.

Noi comunisti siamo i primi ad affermare che in una società davvero a misura d’uomo, dove i mezzi di produzione, la scienza e la tecnica saranno gestiti e governati dall’intera umanità lavoratrice fraternamente associata e finalizzati al reale e pieno soddisfacimento dei bisogni della specie, il lavoro diverrà davvero una delle principali forme di attività attraverso cui l’uomo potrà realizzarsi individualmente e collettivamente.

In una tale società (che chiamiamo comunismo) i tempi dello studio, del lavoro e delle altre attività sociali non saranno più separati dai rigidi muri divisori eretti dal capitalismo, ma tenderanno a fondersi e a vivificarsi reciprocamente. L’uomo non sarà più costretto nel corso della sua esistenza a periodi di attività coatta e a periodi di altrettanto coatta inattività. Per dirla parafrasando Marx: ognuno per l’intero arco della sua esistenza contribuirà al benessere sociale in base alle sue capacità e riceverà dalla società in base ai suoi bisogni.

Ma oggi non siamo in una società a misura d’uomo. Siamo in una organizzazione sociale a misura del capitale, del profitto e del mercato. Siamo in una società che combattiamo e chiamiamo a combattere. Qui il lavoro non "nobilita" l’operaio o il salariato. Lo spreme, lo torchia, gli succhia tutte le energie fisiche e psichiche, lo uccide. Voler andare in pensione dignitosamente dopo 35 anni passati a sudare e a schiattare alla catena di montaggio, sulle impalcature, tra le vernici, in una corsia d’ospedale o alla guida di un tir, è troppo? Sì, ma solo per i borghesi, per i padroni e per i parassiti che su quel sudore giorno dopo giorno continuano ad arricchirsi.

In quale direzione muoversi

Di fronte a tutto ciò, per combattere la "riforma" del Tfr e ogni nuovo affondo contro le pensioni, il punto fondamentale di resistenza non può essere la denuncia della "truffa del silenzio/assenso" in difesa della "libera scelta individuale", né tanto l’ipotizzare (impossibili) fondi "realmente sganciati dalle logiche del profitto". Né si potrà, certo, puntare su una pretesa (ed assurda) vicinanza dell’Inps agli interessi dei lavoratori.

Va portata tra i lavoratori una critica globale e radicale ai presupposti e alle conseguenze politiche della riforma del Tfr. Bisogna battersi affinché nelle fabbriche e nelle aziende vengano fatte assemblee in cui a partire da questa questione, ed anche se da posizioni di minoranza, si evidenzi come la politica del "meno peggio" e la fiducia nei governi "amici" (tanto cara ai vertici sindacali) conducano il mondo del lavoro all’arretramento economico ed allo scompaginamento politico. E, insieme alla critica a tale politica, promuovere la nascita di iniziative e di organismi di lavoratori per una battaglia finalizzata al ripristino del sistema pubblico e retributivo per tutti a prescindere e contro le compatibilità capitalistiche e dei mercati.

Una simile lotta deve riguardare in prima persona anche la folta schiera di giovani (e meno giovani) assunti a part-time o con uno dei mille contratti "atipici". In questo caso, l’investimento in un fondo pensione sembra inevitabile per "garantirsi un futuro". In realtà anche qui l’unica carta davvero realistica da giocare è quella della discussione e della mobilitazione collettiva. È, infatti, solo con questi strumenti che, anche se non si riuscirà a centrare il traguardo principale, si potranno quanto meno strappare e imporre ai fondi condizioni di "garanzia" e di "rendimento" non indecenti. Sarebbe un primo passo, soprattutto per costruire l’unica garanzia per la tutela della parte della classe lavoratrice in pensione: l’organizzazione e la ricomposizione dell’unità di lotta della classe proletaria.

Insomma, la "riforma" del Tfr chiama con urgenza l’intero mondo del lavoro ad una battaglia certamente difficile. Ma è una battaglia da dare innanzitutto per cominciare a ricucire le fratture generazionali, territoriali e categoriali prodottesi lungo tutti questi anni e per ricostruire quella forza di classe che sola (e in un certo qual senso anche a prescindere dal pieno e immediato raggiungimento dell’obbiettivo formalmente datosi) può davvero garantire la condizione operaia anche sul versante pensionistico.