La ricetta di Limes per il rilancio della potenza capitalistica italiana
Ai tempi della prima repubblica, si afferma nell’editoriale del numero 2-2006 di Limes intitolato "L’Italia presa sul serio", all’Italia conveniva acquattarsi all’ombra dei protettori statunitensi, salvo prendersi ogni tanto qualche libertà. Le conveniva perché in quel modo gli Stati Uniti e l’alleanza atlantica garantivano una sorta di assicurazione sulla vita ai capitalisti nostrani contro le "pretese" del più forte movimento operaio dei paesi occidentali, e permettevano all’Italia di valorizzare in termini di spazi economici nel Medioriente e nell’Est europeo la sua collocazione geografica al confine tra Est ed Ovest e Nord e Sud. Con il crollo dei muri, con la mondializzazione capitalistica, con lo spostamento sul versante militare dell’aggressione degli stati occidentali al Sud del mondo, con l’ascesa della concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione dell’Estremo Oriente in alcuni settori produttivi tipici del capitalismo italiano, con la fine, in una parola, della "stagione di pace, benessere e sviluppo" succeduta alla seconda guerra mondiale, la forza dell’Italia sulla scena internazionale è via via decresciuta. Nei teatri di maggiore insediamento dell’Italia la parola è passata alle armi o a bruschi tracolli economici, e la politica di doppiezza e furbizia del pavone italiano ha mostrato la corda. "Dalla fine della guerra fredda –scrive Limes– scontiamo la nostra riduzione da media potenza in un mondo piccolo e regolato a piccola potenza in un mondo molto più vasto ed anarchico", con una vera e propria "ritirata da aree e mercati in cui contavamo qualcosa, dall’America Latina (Argentina compresa) all’Africa (incluse le ex-colonie)", alla Cina, ai Balcani (entrati –a parte alcune "isolette"– nell’orbita degli Stati Uniti e della Germania) allo spazio mediterraneo e mediorientale, dove l’"unilateralismo" statunitense, dalla prima guerra all’Iraq del 1991, ha via via sottratto spazi di mercato alle imprese e alla diplomazia italiana.
Questo declino non è, però, un destino, sostiene Limes. A patto che si volti pagina rispetto alla politica piattamente filo-statunitense seguita dal governo Berlusconi. E che, in parallelo al varo di una politica di rigore sul piano economico interno, si "rilanci la nostra politica estera", a partire dalla spazio mediterraneo, "nostra area di elezione". Sia per assicurare il fabbisogno energetico del paese, sia per fare dell’Italia la porta d’ingresso delle merci dell’Estremo Oriente in Europa, sia per difendere e tornare ad allargare gli investimenti e le esportazioni italiane in Medioriente e verso l’Asia. Poiché l’Italia non ha la "massa critica geopolitica ed economica per tornare a contare nel mondo in gestazione", deve "partecipare alla costruzione di un soggetto europeo in grado di rinsaldare su basi meno diseguali la nostra alleanza con gli Stati Uniti" e "convincere gli Stati Uniti che l’Europa non può essere né un loro feudo né una loro succursale e neppure il loro mercenario".
Non è in questione, quindi, il distacco dall’alleanza con gli Stati Uniti e dalla Nato. L’Italia e le altre potenze capitalistiche europee non hanno (almeno per il momento) la forza e la volontà di costituire un polo imperialistico autonomo. All’ordine del giorno è solo il modo di stare dentro l’Alleanza Atlantica. Di cui vanno rafforzate le strutture militari, come accade con la base di Vicenza, di cui vanno portate avanti –laddove possibile e necessario– iniziative comuni come accade in Afghanistan, di cui va rinsaldato in Medioriente il bastione israeliano con i trattati di cooperazione economica della Ue e, come accade con l’Italia, con accordi di cooperazione militare. Ma affinché l’Europa possa stare dentro l’Alleanza con un più ampi margini di autonomia, cioè con una più ampia della capacità di arraffamento del bottino neo-coloniale ammassato dal capitale finanziario internazionale sulla pelle degli sfruttati mediorientali e del Sud del mondo, occorre che all’unificazione monetaria faccia corrispondere una politica estera più autonoma e che ogni paese si dia da fare in tal senso. Per l’Italia questo significa ripartire dal ruolo specifico che essa ricopre nel Mediterraneo. Se non riuscirà in questa impresa, se aspetterà passivamente che anche con l’Iran, dove sono presenti consistenti interessi economici italiani, si arrivi allo scontro militare, come accaduto con l’Iraq e la Jugoslavia, "l’Italia sarà la prima vittima dello scontro di civiltà", conoscerà un netto tracollo nella sua forza economica e statale sulla scena internazionale, con la possibilità di (già conosciute) derive jugoslave. Il Mediterraneo deve diventare, conclude Limes, da faglia privilegiata dello scontro di civiltà in area di convivenza tra mondo occidentale e mondo islamico, in fattore di costruzione del mondo multipolare che "anche la Cina, la Russia e il mondo islamico vogliono".
Altro che portaborracce degli Stati Uniti e di Israele! Il "multilateralismo" e la promozione della stabilità nel Medioriente è il modo in cui il governo italiano cerca di promuovere gli interessi del paese, cioè del capitale italiano, nel mondo! La missione militare in Libano, l’aumento delle spese militari previsto dalla finanziaria, il "sì" alla nuova base Usa a Vicenza, l’allargamento delle iniziative di "cooperazione civile" italiane in Afghanistan, la proposta di D’Alema sulla Palestina sono i tasselli di un’unica politica. Per lottare efficacemente anche solo contro uno di tali tasselli, è necessario lo sviluppo di una lotta che affronti lo scopo complessivo di tale politica, che evidenzi come ogni singola iniziativa del governo italiano concorra a questo scopo (anche quando si presenta sotto la veste "accattivante" della cooperazione civile) e ne mostri gli effetti sia sui popoli mediorientali che sui lavoratori italiani.