Lavoratori / padronato e governo: è tempo di...
Bisogna reagire! Riaprire la lotta, e dotarsi di un programma e di un'organizzazione di classe
E’ tempo, dunque, che i lavoratori si scuotano dalla paralisi. E passino dalla preoccupazione e dal malcontento alla mobilitazione e alla lotta contro il padronato e contro il governo. La paura di far male a Prodi e di ritrovarsi nuovamente Berlusconi a palazzo Chigi non può, non deve paralizzarci. Altrimenti, valga il caso della base di Vicenza, questo ricatto brutale "ci" costringerà ad ingoiare tutta la melma che il padronato pretende di farci mangiare.
E’ vero: Berlusconi e il suo "popolo" si sono rimessi in marcia nelle piazze in modo ancor più aggressivo di dieci anni addietro e del 2001. E non bisogna sottovalutare né il rischio-Berlusconi, né il rischio-destra. Abbiamo una certezza, però, che è corroborata dalla storia: la passività della classe operaia e del proletariato, il restare fermi per timore di danneggiare il governo presuntamente "amico" in sella sarebbe il massimo dei regali possibili a Berlusconi e alla destra in marcia. Bisogna, al contrario, che i lavoratori facciano sentire il proprio peso e la propria voce. La radicalizzazione sociale e politica che si è messa in moto nelle classi medie accumulatrici potrà essere fermata e disorganizzata solo dalla contrapposta mobilitazione operaia e proletaria. Altrimenti potrebbe trovare un ascolto ancora maggiore di quel che già ha nella stessa massa di quanti sono mangiati vivi ogni giorno da padroni e padroncini polisti e leghisti. E sarebbero dolori pesanti.
Il "silenzio" della classe operaia e dei lavoratori non ha mai moderato gli appetiti borghesi. Li ha, all’inverso, stimolati e ingigantiti. Notatelo: proprio mentre il proletariato è fermo per timore del peggio, Draghi mette all’ordine del giorno il peggio, chiedendo uno scatto di "responsabilità" (ossia: di sacrifici per i lavoratori) simile a quello che si ebbe a metà anni ’80 col taglio della scala mobile e nei primi anni ’90 con la finanziaria Amato, la più pesante di tutte, e il (famigerato, per noi) patto-Ciampi.
Non facciamoci illusioni. I margini di un compromesso tra grande capitale e classe lavoratrice si stanno ancora riducendo. Prodi, Montezemolo, Draghi, ciascuno a suo modo, continuano a parlare di "patti" tra le forze sociali (antagoniste). Ma la realtà è ben diversa: lo scontro con il padronato va ad intensificarsi. E in esso il governo in carica agirà ancor più di oggi da cinghia di trasmissione dei poteri forti contro il salariato, sebbene sia prevedibile che al grande padronato la sua "disponibilità" non basterà.
Basta sacrifici
In questo scontro i lavoratori potranno affidarsi solo alla propria mobilitazione e alla propria organizzazione.
Qui si pone ai lavoratori più combattivi un primo nodo da sciogliere: il rapporto con le direzioni dei tre sindacati maggiori e con la loro politica. A Mirafiori, in dicembre, diversi interventi operai hanno battuto sul tasto dell’ascolto: "voi dovete ascoltarci, ascoltare i nostri bisogni, avere presenti le nostre condizioni di lavoro, le nostre pene, e difenderci anche nei confronti del "governo amico", da cui il sindacato deve essere autonomo". Ma il punto è che i vertici dei tre sindacati condividono nella sostanza gli indirizzi di azione del governo Prodi, anche se intenderebbero condizionarli e forzarli "da sinistra". Non soltanto Prodi e i suoi ministri ma anche Epifani, Bonanni e Angeletti hanno "in testa" come priorità lo sviluppo della competitività dell’Italia e la tenuta del governo, a cui gli interessi e le rivendicazioni degli operai e dei salariati debbono, in un modo o nell’altro, subordinarsi. E’ questo che li fa "distratti" e "sordi" a quanto vivono e vogliono i lavoratori. E’ questo ordine di priorità che li porta a scodellare ai lavoratori la minestra già cucinata della finanziaria senza prima averli "consultati", quasi fossero sudditi chiamati per principio a dire di sì ai propri governanti. E, se non si volta pagina, accadrà la medesima cosa anche con il "piano di produttività", con l’ennesima controriforma delle pensioni, etc.
Il problema di fondo è che la politica sindacale è parte di una catena che va dal mercato, quale forza sociale impersonale con le sue ferree leggi anti-proletarie, a Confindustria ai capi dell’Unione ai vertici dei sindacati. E’ la catena costituita dal primato degli interessi aziendali e nazionali, che ha anelli distinti, ma tra loro collegati. I lavoratori debbono svincolarsi da questa catena che ha portato loro un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro e li conduce verso uno scontro all’ultimo sangue con altri lavoratori. Rinunce su rinunce a fronte di un lavoro sempre più produttivo: la classe lavoratrice non può più continuare ad accettare un tale sopruso. La classe che produce beni e servizi per la società ha il "diritto"-dovere di affermare: "basta con i sacrifici, basta con l’espropriazione degli espropriati, facciamo pagare chi non paga mai, espropriamo gli espropriatori!"
Basta con la delega
E per farlo deve finalmente infrangere il meccanismo della delega, che costringe la classe che è il perno e il centro della produzione sociale ad affidare i problemi propri e dell’intera società nelle mani di altri soggetti: lo stato, il parlamento, i governi "amici", la magistratura, le burocrazie sindacali professionali, etc. Questo meccanismo, il perverso meccanismo della politica borghese, va spezzato. Cominciamo con il ritirare la delega ai vertici "distratti" e "sordi", e decidiamoci finalmente ad agire in prima persona. Se si vuole per davvero un sindacato che faccia coerentemente gli interessi dei lavoratori, è necessario che gli operai, i lavoratori stessi si facciano sindacato, siano il sindacato, il proprio sindacato, la propria organizzazione di difesa e di lotta. E assumano su di sé il compito di stravolgere completamente l’attuale asfittica, e spesso blindata, vita sindacale.
Un primissimo passo da fare in questa direzione è promuovere assemblee nei luoghi di lavoro in cui discutere a fondo i provvedimenti governativi già varati e quelli in cantiere, criticandoli nel merito e soprattutto per la prospettiva generale che li lega tra loro. Bisogna prepararsi rapidamente a rispondere ad una riforma pensionistica e alle misure sul Tfr che non promettono assolutamente nulla di buono e respingere in tronco il cosiddetto "patto di competitività" che a breve si tenterà di propinare nei luoghi di lavoro. Le condizioni di lavoro sono già troppo pesanti e il problema per i lavoratori è quello di conquistare non più ma meno flessibilità, non di aumentare ma di ridurre le differenziazioni salariali e normative esistenti tra i lavoratori di imprese, settori e regioni diversi. I lavoratori debbono prendere per davvero nelle proprie mani la battaglia contro la precarietà, il lavoro nero e gli "omicidi bianchi", iniziando a dire con chiarezza che questi sono gli inevitabili prodotti delle politiche di competitività e che quindi non possono essere aggrediti per davvero da un governo che fa del rilancio di competitività dell’azienda-Italia il suo punto cardinale di riferimento. Bisogna denunciare le devastazioni prodotte dal processo di liberalizzazione nel mercato del lavoro, e gettare le basi per ricomporre e riunificare nella lotta i vari segmenti del mondo del lavoro superando le divisioni generazionali, aziendali, territoriali e di sesso, le divisioni tra italiani ed immigrati, tra "fissi" e precari. Bisogna rifiutare le sirene della società low cost per gli altissimi costi e la bassa, bassissima qualità di vita che essa comporta per i salariati.
Basta col rifiuto della politica e dell’organizzazione politica
Conosciamo l’obiezione: fare questo significa mettere in discussione, insieme con la "logica" della competitività, l’intera organizzazione sociale capitalistica. Sì. E’ vero. Ma tutti i problemi che abbiamo davanti, proprio tutti, pensate alla drammatica questione ecologica, ci rimandano ai meccanismi di funzionamento del capitalismo come sistema sociale.
Gli imperativi ossessivi della competitività e della produttività risultano così cogenti per tutte le imprese, per tutti i capitalismi "nazionali", per tutti i governi perché il capitalismo mondiale preso nel suo insieme è da trent’anni dentro il labirinto di una crisi irrisolta. Nonostante lo sfondamento ad Est del dopo-1989; nonostante l’ossigeno finora ricevuto dallo sviluppo impetuoso dei giovani capitalismi asiatici, la Cina in testa; nonostante gli arretramenti a cui il proletariato dei paesi ricchi è stato costretto; il sistema del capitale fatica sempre più a produrre la massa di profitti di cui ha bisogno per rilanciare alla grande il suo processo di accumulazione globale. La proclamazione della "guerra infinita" a Washington e da Washington non è stata altro, in fondo, che la presa d’atto che per sbloccare la situazione di impasse a livello mondiale non sono più sufficienti i metodi "pacifici", il WTO e le misure neo-liberiste. Per forzare i limiti sempre più irrigiditi dello sviluppo capitalistico servono vecchi-nuovi metodi di emergenza, serve una guerra aperta, senza limiti del capitale globale contro il lavoro mondiale.
La campana di questa guerra non suona solo per i "popoli paria", suona anche per noi. Per parare i colpi in arrivo, per non precipitare nell’abisso che ci spalanca il capitalismo in crisi, per non finire preda di disastrose prospettive territorialiste, aziendaliste, nazionaliste, dobbiamo dotarci di una linea di difesa di classe globale. Di una globale alternativa di sistema. E questo richiede un’organizzazione politica, il partito della classe lavoratrice.
Ciò suona oggi anacronistico e improponibile soprattutto alle giovani generazioni: lo sappiamo. Ma non si può continuare ad eludere questa necessità senza pagarne un prezzo sempre più devastante. I proletari più combattivi sono chiamati non solo ad un’attività sindacale svolta in prima persona, ma anche ad intraprendere l’impegno e la militanza politica per la propria classe. Questo diretto protagonismo dei lavoratori è indispensabile per riavviare la lotta contro il padronato e il governo e dare ad essa solidità e continuità. Ed è indispensabile per affrontare un’aggressione che ci viene dal capitalismo internazionale e non solo da quello italiano.
Una sfida di questa portata richiede un programma e una strategia capaci di contrapporre alla competizione tra sfruttati a cui ci spinge il mercato mondiale, un’azione volta ad unificare la classe lavoratrice a livello nazionale e intenazionale. Per rispondere a questa urgenza, è necessario dare forza -partecipandovi- al lavoro per la ricostituzione del partito di classe, al momento confinato in nuclei troppo ristretti e asfittici. Questo lavoro, riallacciandosi alla grande tradizione del comunismo marxista rivoluzionario, deve svolgere una critica globale della crisi di disgregazione del sistema capitalistico e, su questa base, consentire ad una rinata forza di partito comunista di affermare: "C’è un crescente caos che attanaglia la società globale. Tutte le ricette borghesi classiche e riformatrici per affrontarlo stanno fallendo miseramente. C’è una sola soluzione possibile al disastro in corso: una nuova organizzazione sociale in cui la produzione non sia più regolata e dettata dalle anti-sociali necessità del mercato e del profitto, ma da quelle dell’intera e liberamente associata, comunità umana lavoratrice".