La ricostruzione modello Hariri
La stampa italiana presenta la famiglia Hariri come la benefattrice dei libanesi. Lo è stata sicuramente per i capitalisti e i proprietari fondiari del Libano, per i finanzieri sauditi, per il mondo degli affari di Damasco, per le banche occidentali. Non certo per i lavoratori del Libano e del Medioriente.
L’era Hariri inizia negli anni novanta, quando la gran parte del Libano viene assegnata alla sfera d’influenza siriana e saudita in segno di ringraziamento per il sostegno offerto alla prima guerra del Golfo contro l’Iraq e contro la prima Intifada palestinese. Con Hariri, i ceti imprenditoriali e proprietari arabi che egli rappresenta intendono inserirsi nel nuovo ordine mediorientale che Bush padre promette di costruire sulle ceneri di un Iraq riportato all’era pre-industriale. Il loro sogno è quello di trasformare il Libano, con le sue bellezze paesaggistiche e la sua collocazione a cavallo di tre continenti, nella Hong Kong o nella Montecarlo del Medioriente.
Nei successivi dieci anni le attività imprenditoriali fervono: vengono tirati su enormi complessi residenziali e turistici, le infrastrutture portuali sono rimesse a nuovo, il centro di Beirut viene ricostruito secondo i canoni urbanistici all’ultimo grido, un trattato di cooperazione con la Unione Europa trasforma il Libano in hub commerciale per le esportazioni europee verso l’area di libero scambio araba in cui il Libano è incluso, alcune agevolazioni si incaricano di offrire condizioni di privilegio agli investitori esteri in campo industriale. A far girare la ruota della fortuna intervengono i fondi raccolti dal governo libanese attraverso una serie di prestiti contratti presso la finanza delle monarchie del Golfo e dell’Occidente e riversati nelle tasche delle imprese appaltatrici dei lavori di ricostruzione.
Il risultato è l’aumento del debito estero da 3 ad oltre 40 miliardi (uno dei più alti debiti pro-capite del mondo), la crescita della miseria della popolazione lavoratrice (il 30% è nel 2000 sotto la soglia di povertà) e l’approfondimento della polarizzazione sociale. Che, dalla fine degli anni novanta, comincia a riflettersi anche sul terreno politico e diplomatico.
Da un lato, le masse lavoratrici e i settori della piccola borghesia cominciano a battersi per la cacciata d’Israele dal sud del paese e per il riorientamento in senso "equo e solidale" dello sviluppo economico e della politica del governo libanese. Questa istanza trova il suo pilastro nell’attività politica e militare di Hezbollah e un risultato incoraggiante nel ritiro delle forze armate israeliane dal Libano nella primavera del 2000.
Dall’altro lato, gli Stati Uniti e la Francia intendono riprendere il pieno controllo del Libano perché si rendono conto che la Siria non è in grado di fermare il processo di organizzazione inter-confessionale tra gli sfruttati in corso in Libano e l’azione di collegamento svolto dalla resistenza libanese tra quella irachena e quella palestinese. L’imposizione al governo di Beirut, le banche europee in prima fila, di un piano di austerità e di deregolamentazione liberista per il rimborso del debito fa precipitare lo scontro in Libano, interno e internazionale allo stesso tempo.
Nell’ottobre 2003 il Libano è paralizzato dallo sciopero generale contro la legge finanziaria per il 2004 che prevede tagli consistenti nei servizi sociali e l’aumento delle tasse sui consumi. Lo sciopero chiede, inoltre, lo sblocco dei salari congelati (ah il benefattore Hariri!) dal 1996 e la fine della corruzione dilagante nella classe dirigente del paese.
Davanti alla sordità del governo, i lavoratori del Libano tornano a farsi sentire nella primavera dell’anno successivo. Una serie di scioperi e di manifestazioni bloccano le attività nevralgiche del paese nel maggio 2004 contro l’aumento del prezzo della benzina, contro la disoccupazione dilagante e la corruzione. Il governo fa intervenire l’esercito: 5 manifestanti sono assassinati nella periferia a maggioranza sciita di Beirut (ah, il benefattore Hariri così caro a Prodi!). Il giorno successivo la protesta si allarga. Anche il Daily Star, organo della comunità finanziaria del Libano, il 29 maggio ammette che gli accadimenti sono "il risultato della tensione politica dovuta alla repressione e di seri problemi socio-economici". Negli scioperi e nelle manifestazioni ci sono anche iniziative di solidarietà con la resistenza in Iraq, impegnata in quella che è stata chiamata la battaglia di Najaf.
La risoluzione 1559 giunge a questo punto (settembre 2004). Con essa gli Stati Uniti e la Francia vogliono dare il "la" ai ceti borghesi libanesi affinché rompano il matrimonio d’interesse con la Siria e, nel nome della riconquista dell’indipendenza dello stato libanese, tornino alla tradizionale politica di divisione della popolazione lavoratrice del Libano e del mondo arabo. Detto, fatto. Uno dei punti di forza della coalizione che sostiene la "rivoluzione dei cedri" è la campagna contro i proletari immigrati dalla Siria (un milione) impiegati con salari inferiori alla media libanese (200 euro circa) nei cantieri e nell’agricoltura. Vengono accusati di rubare il lavoro ai libanesi e colpiti da aggressioni molteplici che lasciano a terra oltre sessanta vittime nel silenzio della stampa internazionale.
La spallata degli Stati Uniti e della Francia non ottiene immediatamente il risultato sperato, anche per l’isolamento sociale in cui si trovano gli strati borghesi filo-occidentali in Libano. Fa nuovi passi in avanti, però, la politica di austerità del governo di Beirut, nel quale –nel frattempo– sono entrati anche alcuni esponenti di Hezbollah. Questa volta, le cure del FMI hanno consigliato il taglio delle pensioni, l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e il varo di una legislazione del mercato del lavoro in onore della precarizzazione generale.
Anche questa volta l’affondo non trova passivi i lavoratori, che scendono in piazza tutti insieme, sunniti, sciiti, drusi, cristiani, ecc., il 13 maggio 2006 in una delle più grandi manifestazioni sindacali della storia libanese per chiedere le dimissioni del governo di Fuad Sinora. "Sto dimostrando oggi contro il governo Siniora –dichiara all’Associated Press un manifestante– perché la gente vuole mangiare piuttosto che ascoltare discorsi contro la Siria". "Non permetteremo che ci affamino e ci portino via ogni diritto –aggiunge una lavoratrice– noi siamo la maggioranza della popolazione e manderemo a casa la maggioranza di governo immaginaria". Un altro giovane: "Dicono che ubbidiamo agli ordini della Siria. Raccontate che agiamo sotto il comando delle tasche vuote".
Ah, la benefattrice ditta Hariri così cara al governo Prodi-D’Alema!