Ragioniamo intorno alla liberazione dell'America Latina

Le componenti più radicali del movimento che, al di là delle stesse urne elettorali, percorre e scuote da anni l’intera America Latina aspirano alla creazione della "Patria Grande", alla liberazione, cioè, del continente latino-americano dai tentacoli della piovra nordamericana. Aspirano, per dirla con esattezza, a sganciare l’America Latina da tali spire, e ad ottenere per essa una partecipazione non subordinata, il più possibile "alla pari", nell’arena economica e politica internazionale. Dentro questo movimento sono presenti due diverse linee politiche e di condotta. Per semplificare: quella pragmatica-realista del Brasile di Lula, il paese assolutamente centrale e decisivo per gli equilibri di tutto il continente; e quella della "rivoluzione bolivariana" del Venezuela di Hugo Chavez, che osa sfidare apertamente l’imperialismo yankee. L’obiettivo strategico comune a cui entrambe le linee si ancorano è quello del "progresso del popolo", di tutti i popoli del continente, dentro un mercato capitalistico mondiale "più equo e solidale". E proprio l’esistenza di un tale comune obiettivo sembrerebbe permettere a queste diverse versioni del patriottismo di marciare in qualche modo congiuntamente, spalleggiandosi l’un l’altra per resistere alle reazioni della piovra statunitense, e possibilmente, passo dopo passo, strappare "per tutti" dei nuovi margini di manovra, profittando del nuovo scenario multipolare che si è dato nell’arena mondiale. E’ davvero così? Soprattutto: davvero la liberazione del continente, cioè - per noi - la liberazione degli sfruttati latino-americani può passare per la combinazione (o la somma) di queste diverse politiche di contrasto all’imperialismo Usa?

Il "realismo" di Lula e dei suoi

Per rispondere a queste domande è utile seguire il filo del ragionamento proposto da un autorevole esponente della linea pragmatica-realista "per la liberazione", lo storico brasiliano Bandera, buon conoscitore della politica e delle relazioni internazionali del suo paese e dell’intero continente (1). Un suo documento ci sfida a misurarci sul terreno dei rapporti di forza, dei dati di fatto obiettivi su cui solo può poggiare ed avanzare effettivamente la via della emancipazione. Raccogliamo di buon grado la sua sfida per mostrare quali sono gli esiti, per i lavoratori, di queste politiche cosiddette "realiste". E sollecitati anche dal sangue versato negli scontri fratricidi fra i proletari dell’altopiano della Bolivia, dalla terribile morsa che serra gli sfruttati di quel paese, una morsa a cui non sono affatto estranei, anzi, gli interessi delle borghesie dei "paesi fratelli", di quella brasiliana in particolare, cerchiamo di trarne tutte le dovute conseguenze.

Il punto di partenza del suo discorso è incontestabile: "L’economia capitalistica non è la somma di tante economie nazionali, è un tutto interdipendente a cui sono collegati tanto i paesi industriali più avanzati che quelli sottosviluppati". Dunque, nessuna via di fuga è possibile, se si resta sul piano della realtà, verso soluzioni da "socialismo in un solo paese"; e nessuna via di fuga è possibile nemmeno per conquistare uno sviluppo in qualche modo equilibrato, da "capitalismo normale", se ogni paese procede in modo isolato, separandosi dagli altri paesi del continente. Tanto più questa regola vale per i paesi dell’America Latina, le cui strutture e il cui peso economico sono assai differenziati, così come lo sono i rispettivi interessi immediati se considerati a sé, fuori da una lungimirante politica vincolata agli interessi generali del blocco continentale. Di più: gli interessi nazionali immediati sono spesso perfino conflittuali paese verso paese, ed è proprio su di una tale conflittualità che si appoggia e lucra l’imperialismo nord-americano. Ed in effetti c’è una enorme differenza fra i paesi del continente: uno dei paesi più poveri, la Bolivia, ha un prodotto interno lordo di circa 24 miliardi di dollari quando la sola compagnia petrolifera brasiliana, la Petrobras, ha raggiunto nel 2005 un volume d’affari di 63 miliardi di dollari.

Prosegue il nostro pragmatico-realista: nel mondo multipolare verso cui andiamo possono contare effettivamente solo i paesi che "per dimensione territoriale, massa demografica e peso economico" sono in grado di competere sul mercato internazionale, senza subirne da subordinati le regole. Ebbene, fra i paesi sud-americani solo il Brasile può mettere sul piatto questa determinante "massa critica", e, come già aveva intuito Peron negli anni ’50, solo il Brasile coordinato con l’Argentina può costituire un polo che abbia la forza di farsi largo nello scenario multipolare, aspirando ad esserne attore partecipe "alla pari". A tutti gli altri paesi, più piccoli e deboli, del continente non resterebbe che coordinarsi e subordinarsi a questo asse portante della "liberazione". Questa è la strada e di qui bisogna passare per arrivare all’agognata "Patria Grande".

In questo quadro si passa poi a valutare l’azione dei governi progressisti alla guida di numerosi paesi del continente per individuarne le debolezze e le incongruenze, e si arriva fino alla dura denuncia delle strade sbagliate e degli "errori letali" che possono far deragliare dalla retta via, unica "realisticamente" percorribile, verso quel genere di "liberazione" di cui sopra. Non prima di aver puntualizzato con una ulteriore prova di ancoraggio ai dati di fatto obiettivi: "Non esiste un campo progressista in America Latina. Esistono alcuni paesi che resistono alla egemonia degli Usa, che hanno governi riformisti i quali tentano di far retrocedere le politiche neoliberiste en la medida de lo posible dentro le condizioni obiettive di ciascun paese".

Il conflitto sulla cellulosa tra Argentina e Uruguay

Per meglio comprendere cosa significhi in concreto una tale prospettiva, è utile dire qualcosa sulla controversia che ha opposto di recente l’Uruguay e l’Argentina, due paesi entrambi "a guida progressista"(2). Il contrasto è esploso attorno all’insediamento voluto da Montevideo di alcune fabbriche di cellulosa sul Rio della Plata, una scelta duramente contrastata dall’Argentina in prima istanza "per motivi ecologici". Il difetto imputato al governo uruguaiano guidato dall’ex-Tupamaro Tabaré Vasquez è quello di mancare di lungimiranza e di una strategia ad ampio respiro. Lo stesso difetto porterebbe questo governo a farsi condizionare da interessi parziali e limitati come quelli degli esportatori di carne uruguaiani, in grandi affari coi mercanti statunitensi. La conseguenza obiettiva di tale ristretta visione nazionale è di prestarsi, con la rete degli accordi economici bilaterali siglati con gli Usa, in barba e contro un’integrazione coi due pivot sud-americani, al gioco dell’imperialismo statunitense.

Sulla base di tali considerazioni si chiede al governo uruguaiano di coordinare e subordinare gli interessi "limitati" del proprio paese a quelli generali e strategici della Patria Grande, ovvero agli interessi delle economie argentina e brasiliana. Le fabbriche che si stanno costruendo sono una minaccia ecologica impiantata sul grande fiume, per giunta installate per soddisfare non "i bisogni del continente" bensì quelli dei mercati occidentali, accusa la parte argentina. Può essere. Ma allora, la coltivazione intensiva e su vasta scala della soia in Argentina non è forse un impoverimento altrettanto grave della terra, un’autentica devastazione ecologica a medio e lungo termine? E una tale produzione intensiva devastante non corrisponde forse alle necessità dei mercati internazionali, non è forse dettata da questi? Ecco come, nel nome del "superiore" interesse continentale, si oppone in realtà all’"interesse nazionale" uruguaiano un altro "interesse nazionale".

Da parte argentina, la politica del progressista Kirchner – attorno alla quale si sono raccolti o sono stati cooptati la grande maggioranza dei movimenti popolari e di lotta argentini -, protesa com’è, secondo i suoi stessi seguaci, al rinnovamento del paese e alla costruzione di una "Patria nuova", è una politica la cui base ed il cui orizzonte stanno tutti ben serrati dentro i confini della nazione che si vuole, al solito, "redimere". E’ quindi una politica impregnata di un nazionalismo che si vuole presentare alle masse come "popolare", perfino in qualche modo come antagonista all’imperialismo dei gringos, ma che nei fatti è espressione degli interessi della macchina, scalcinata e dipendente finché si vuole, del capitalismo argentino (3). Da parte uruguagia, per contro, attorno alla questione delle fabbriche di cellulosa è stata promossa una mobilitazione popolare, una vera e propria Union Sacrée che ha coinvolto gli ex-guerriglieri al governo, le organizzazioni degli industriali e i sindacati dei lavoratori tutti raccolti attorno alla bandiera dell’interesse nazionale, della propria patria "da riscattare" attraverso un nuovo slancio produttivo e con la creazione di nuovi posti di lavoro. In questa controversia siamo dunque, in realtà, al patria contro patria, cioè al conflitto tra gli interessi contrapposti delle borghesie nazionali, in cui gli sfruttati dei due campi sono condotti al rimorchio del proprio apparato capitalistico più o meno straccione, più o meno svenduto all’imperialismo.

Cosa starebbero tradendo gli ex-Tupamaros oggi al governo? Non certo il sogno del riscatto del proprio paese, che anzi ritengono di perseguire esattamente come stanno facendo Lula in Brasile e Kichner in Argentina, ai quali si rinfaccia tra le righe, di rimando, di agire con spirito da "grande potenza". Il governo di Montevideo ostacola il processo di integrazione economica sudamericano accordandosi invece con gli interessi delle multinazionali americane ed europee? Ma, di grazia, non sono altrettanto ferramente vincolate al mercato mondiale l’industria agroalimentare brasiliana o la superproduzione di soia dell’Argentina, grazie alla quale questo Stato può, finché la congiuntura favorevole dura, rimpolpare le sue esangui riserve valutarie e rimandare la resa dei conti con i movimenti di lotta che continuano a perturbare la pace sociale?

I militanti radicali possono rispondere che il governo progressista uruguaiano dovrebbe secondare gli interessi della "Patria Grande" alla maniera di un Chavez (senza disporre della sua rendita petrolifera e magari possibilmente senza far imbestialire gli industriali della carne); però, prima di imputare questa "mancanza di coraggio" al povero Tabaré, l’accusa dovrebbero girarla ai due pivot progressisti Lula e Kirchner! Il quale Kirchner, mentre scriviamo, è fresco di un tour diplomatico in Nord-America dove ha, in sede Onu, condannato gli eccessi di Israele e criticato l’unilateralismo Usa inefficace e controproducente per "combattere il terrorismo", prima di essere calorosamente accolto dal mondo degli affari nord-americano in cui ha ovviamente perorato la causa del Made in Argentina, avendo il sommo onore di inaugurare a Wall Street la quotidiana tornata di contrattazioni di carne umana.

La domanda vera, perciò, è: perché i governi progressisti dell’Argentina e del Brasile - che certo non equipariamo ai governi militari o autoritari precedenti, con tanto di squadroni della morte in azione o pronti a scattare contro il "pericolo rosso" e, in certe circostanze, anche contro il più moderato riformismo –, perché questi governi non osano sfidare apertamente, alla Chavez, la potenza nord-americana? Quali ragioni materiali, oggettive, fondate sui rapporti sociali fra le classi, impediscono loro di "spingersi oltre"?

Minacce al movimento proletario e agli "estremisti"

E dunque secondo la nostra "guida" realista-lulista Bandera, in un certo riformismo-progressismo latino-americano c’è un difetto di lungimiranza, che si annida, guarda caso, soprattutto nei paesi minori. E vi è anche un qualcosa di assai più pericoloso per il buon esito di un realistico percorso "verso la liberazione": si tratta, per l’appunto, del governo Chavez e della sua pretesa "rivoluzione bolivariana", e del governo di Evo Morales in Bolivia, che tenta di seguirne il tracciato. A questo punto il discorso diventa brutale, apertamente minaccioso: il governo-fratello della Bolivia non sia irresponsabile, procuri di ponderare i suoi atti, ed in particolare si moderi nel ritoccare il prezzo del gas, energia vitale pompata abbondantemente dalle viscere della terra boliviana verso tutto l’apparato produttivo del continente, in particolare quello brasiliano. Se Morales non verrà a più miti consigli con Petrobras, se non abbasserà i toni verso gli interessi dei cittadini brasiliani in Bolivia (circa 7.000, concentrati nella zona "secessionista" di Santa Cruz, cuore della reazione parafascista), ci saranno inevitabili ritorsioni verso il milione di boliviani emigrati in Brasile…(4). Insomma, quando è toccato nei suoi interessi vitali, il sostenitore della unica "Patria Grande" latino-americana mostra ben chiari i suoi denti di borghese brasiliano. Contro chi? Contro un paese che rivendica solo il proprio diritto a non essere più dissanguato e depredato delle sue uniche risorse. E contro un governo che nella contrattazione con le compagnie multinazionali (nient’affatto espropriate) rivendica per lo stagno, per il petrolio, per il gas un prezzo un tantino più equo, per riuscire a distribuire quel minimo di risorse recuperate in favore delle esigenze vitali degli sfruttati delle miniere e delle campagne, e quietarne così la lotta. La borghesia brasiliana mostra i suoi denti contro un proletariato che nelle miniere di carbone dovrebbe rimanere eternamente schiacciato e sfruttato fino all’osso, e contro la massa dei senza terra richiamati a non prendere "iniziative irresponsabili" verso i latifondisti (soprattutto se con passaporto brasiliano!). Forse, una volta acquisita la "Patria Grande", ci si ricorderà anche del proletariato dell’altopiano e dei campesinos senza terra. Forse, chissà, una briciolina di "socialismo" sgocciolerà allora anche sulla loro tavola. Per intanto, però, procurino di non disturbare il manovratore borghese.

Quanto poi alla linea di condotta del nazionalismo radicale alla Chavez, essa è bollata come avventurista, dannosa, e perfino letale per le sorti del continente, in quanto, a stare al prof. Bandera, il peso economico, i rapporti di forza complessivi dell’isolato Venezuela rendono velleitario il confronto diretto con l’imperialismo Usa; l’intenzione di Chavez di espandere la "rivoluzione bolivariana" non avrebbe alcuna base materiale solida su cui poggiare. Infatti le iniziative di integrazione economica proposte da Chavez ai paesi fratelli, in contrasto con l’Alca e con i trattati bilaterali proposti dai nordamericani, sono basate unicamente su donazioni di denaro permesse solo grazie alla manna del petrolio: "Il Venezuela elargisce denaro, e questo flusso può venire mantenuto solo grazie agli alti prezzi del petrolio. Però cosa possono fare il Venezuela, Cuba e la Bolivia per obtener mejor insercion internacional senza il Brasile e l’Argentina?". Ed ancora: "Il Venezuela non ha le condizioni obiettive per contendere la leadership del continente al Brasile. La leadership brasiliana non risulta da una sua volontà bensì dalla massa territoriale, demografica ed economica". Essendo basata sulle sabbie mobili, l’iniziativa bolivariana risulta perciò avventurista: "Chavez e Morales, muovendo passi senza valutarne le conseguenze internazionali, stanno perturbando il processo di integrazione dell’America del sud". Inquietano i mercati e gli investitori, specialmente gli europei (buoni quelli!), e fomentano il nervosismo e l’agitazione nelle forze conservatrici e reazionarie che sono solide e potenti all’interno dei paesi decisivi del continente.

In breve: non si può, non si deve turbare "il clima favorevole" per gli investitori internazionali; non si può, non si deve toccare gli interessi della borghesia nazionale brasiliana e argentina; e nemmeno ci si può permettere il lusso, da irresponsabili, di spaventarle, pena il destino di quei governi progressisti. Una concatenazione ferrea, non c’è che dire, con la quale si pretende di incatenare le istanze sociali degli sfruttati sud-americani, ma che in realtà preclude anche ogni effettiva via di "liberazione continentale" allo stesso livello nazional-borghese. Perché lo stesso traguardo di uno sviluppo continentale capitalistico più libero dalle ipoteche imperialiste non può essere raggiunto certo attraverso abili, "lungimiranti" intese e manovre politico-diplomatiche fra Stati. Richiede, di necessità, il cozzo duro con l’ordine imperialista. Esige, perciò, che si debba "convocare il popolo", che ci si appelli alla sua lotta, e che di conseguenza questo entri, come l’elefante nella bottega dei cristalli, negli equilibri tra gli stati imperialisti e i paesi dipendenti, ed in quelli con le rispettive borghesie nazionali, colpendo gli uni e gli altri, e terremotando l’ordine (dello sfruttamento) con cui tutti i potentati borghesi si identificano. Del resto, come non dice il realismo di Bandera e dobbiamo dire invece a piena voce noi, l’agitazione "bolivariana" della liberazione nazional-borghese a scala continentale è basata sulle sabbie mobili non tanto dal punto di vista economico, quanto soprattutto dal punto di vista sociale e politico, laddove non può azzardarsi ad aggredire il nervo scoperto degli interessi delle borghesie nazionali in particolare nei paesi centrali e decisivi dell’America Latina

 

Un passo ancora e siamo al puro forcaiolismo. Eccoci: "Chavez e Morales obiettivamente stanno collaborando con la politica di Washington. Bush e il suo segretario di stato devono essere contenti, potendo profittare di questi insperati alleati". E’ una lezione che ben conosciamo, classica dei rinnegati e dei servi del capitale sotto tutti i cieli, che ci viene ancora una volta propinata: "Uno dei metodi usati dalla Cia per debilitare i governi riformisti di sinistra è la radicalizzazione che spaventa le classi medie e porta a deteriorare ed erodere la basi di sostegno sociale dei governi di sinistra", "gli sforzi per ‘accelerare la rivoluzione’ da parte dei gruppi radicali in Brasile 1964, in Cile 1973, in Portogallo 1975-76 hanno solamente contribuito ai golpe della destra"...

.

Bisogna uscire dalla palude del patriottismo!

Questa logica ferrea del progressismo, ferocemente anti-rivoluzionaria e anti-proletaria, ci impone, impone a tutti i militanti dei movimenti sud-americani che davvero vogliono spezzare la catena della dominazione imperialista, di valutare con esattezza e realismo (un realismo di tutt’altro segno rispetto a quello di Lula e dei suoi) i soggetti sociali, gli interessi di classe che si confrontano sul campo e le loro espressioni politiche. Se è indubbio che il Brasile e l’Argentina hanno un ruolo centrale per il continente, occorre allora cominciare intanto a qualificare e chiamare con il loro nome i governi progressisti che li guidano: governi borghesi che rappresentano gli interessi del proprio capitalismo, in vario grado controllato o subordinato all’imperialismo. Questi governi progressisti cercano davvero di uscire da tale subordinazione (e ciò non è affatto una prerogativa dei governi di sinistra: si pensi al peronismo e allo stesso regime militare brasiliano degli anni ’70). Lo fanno percorrendo l’unica strada loro concessa, dati gli interessi di classe cui sono vincolati: la strada degli accordi, delle intese, della concertazione fra Stati, fra apparati e reti di interessi capitalistici, badando a che gli interessi delle proprie borghesie nazionali non vengano in urto e badando soprattutto a mantenere la pressione dei movimenti popolari ben inquadrata dentro questo tracciato inviolabile. Dentro questo equilibrio di rapporti di forza e di interessi borghesi fra Stati, possono effettivamente farsi sponda reciproca tanto le politiche pragmatiche-realiste dei pesci grossi quanto una linea di progressismo radicale alla Chavez. Ad una tassativa condizione però: che il radicalismo, l’"estremismo" non si intrometta oltre la tollerata predicazione e agitazione anti-statunitense "negli affari interni" dei paesi centrali, non urti o minacci in nessuna maniera gli interessi della borghesia nazionale brasiliana o argentina, cosa che peraltro Chavez si guarda bene dal fare.

Questo inesorabile tracciato si concretizza in modo esemplare nella odierna, terribile, situazione della Bolivia, il cui governo progressista è preso fra due fuochi: o essere conseguente nel suo programma nazional-popolare e colpire a fondo gli interessi delle multinazionali e quelli dei capitalisti "fratelli", in specie brasiliani, o recedere e capitolare di fronte alla reazione. E qualora Chavez e la parte radicale dei movimenti osassero denunciare, come va denunciata!, la borghesia brasiliana in quanto complice dell’imperialismo nello strangolamento del popolo boliviano, si può essere certi che verrebbero immediatamente azzannati dagli "stati fratelli". Del resto, lo stesso progressismo alla Lula o alla Kirchner vorrebbe realmente "aiutare la Bolivia" allentando un po’ il cappio, ma sempre a condizione che gli interessi della propria borghesia nazionale non siano toccati - cosa impossibile, se il governo di Evo Morales saprà tener fede alle promesse fatte alle sue genti e alle rivendicazioni che salgono dal proletariato – giacché, in caso contrario, sarebbero messi essi stessi sotto pressione dalla propria reazione interna. Come in una catena: gli operai e i campesinos della Bolivia, e poi quelli del Brasile, del Cile, dell’Argentina… non devono essere "irresponsabili". Il "loro" governo deve moderarsi per non mettere in difficoltà i governi progressisti "fratelli", che a loro volta devono essere anch’essi "responsabili", ben attenti a non turbare la rete degli affari dei loro capitalisti e i sonni dei ceti medi per non finire sulla graticola ed essere scalzati. Con il che non ci sarebbero più sponde "di governi amici" né per la Bolivia, né per il Venezuela. Tutto il castello di questa via alla "liberazione" della "Patria Grande" rovinerebbe, e addio Simon Bolivar!

Ebbene, proprio questa catena che impone la negazione e la subordinazione degli interessi di classe del proletariato latino-americano va quanto prima attaccata e spezzata. E’ un’esigenza vitale per i destini della lotta in atto nel continente che i militanti e i movimenti antimperialisti, in particolare quelli dei paesi centrali, abbiano la forza di uscire dalla palude nella quale sono, non da breve tempo, impantanati: quella di un presunto interesse comune "patriottico" nel quale si affogano gli interessi di classe, quella di un movimento nazional-popolare dentro il quale possono utilmente raccogliersi nella lotta contro l’imperialismo tutte le forze sociali e tutti gli uomini "di buona volontà patriottica". Dentro questa palude persino dei generali massacratori come i militari argentini hanno potuto permettersi, nel 1982, di sollevare la bandiera dell’anti-imperialismo – un’esperienza rovinosa su cui non ci stanchiamo di richiamare l’attenzione dei militanti sudamericani – trovando udienza e credito perfino nelle fila dei loro perseguitati. La bandiera della lotta all’imperialismo non poteva essere impugnata se non per trappola e inganno verso le masse, allora Argentina-1982, da chi aveva le mani lorde di sangue proletario. Così come non lo può essere oggi dai pavidi governi progressisti brasiliano ed argentino, ma neppure dalle correnti radicali "bolivariste" che proprio del blocco nazional-popolare continuano a fare un feticcio.

Lungi da noi scambiare o equiparare persecutori e perseguitati, la reazione aperta e i movimenti del progressismo borghese! Ciò che vogliamo è marcare il tragico paradosso che vede spesso anche i più vigorosi lottatori essere inghiottiti nella palude nazional-popolare, se privi di un orientamento e di una organizzazione di classe. La regola a cui non è concesso derogare, pena l’impantanamento e la sconfitta del movimento per una autentica liberazione sociale, è: "La lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo non attenua ma al contrario accentua le differenziazioni politiche fra le classi". Regola che riprendiamo da quel Leone Trotsky più volte citato dallo stesso trascinatore di Caracas, attestato sulla trincea della lotta contro la micidiale politica dei "blocchi nazionali", dei fronti popolari "antimperialisti" che tanta sciagurata prova di sé ha dato anche in Sud-America.

La coerente lotta all’imperialismo non può non aggredire pure gli interessi delle borghesie nazionali latino-americane. Ha la necessità quindi, sulla base dei comuni interessi di classe degli sfruttati del continente, di un inquadramento politico e di una organizzazione indipendenti di classe. Una organizzazione politica indipendente, un partito della rivoluzione sociale che sappia gettare in campo l’azione e la forza di classe, e che dichiari apertamente di volersi "intromettere negli affari interni" di ogni Stato, per distruggerne l’apparato di controllo e repressione, per lottare per il potere di classe del proletariato latino-americano come parte di uno schieramento, di un movimento rivoluzionario internazionale.

Tanto più necessario e urgente è quest’inquadramento indipendente di classe che abbracci e unifichi davvero i militanti del continente in quanto avvertiamo muoversi, più o meno sottotraccia nel continente stesso, la reazione delle classi borghesi e dell’imperialismo. Chiari e minacciosi sono in tal senso i segnali che ci arrivano dalla Bolivia, ma anche in Argentina un sinistro e sordo rumore di sciabole pare accompagnare in sottofondo l’incerto procedere di quel governo progressista. Occorre non farsi trovare impreparati da eventuali colpi della reazione borghese e pro-imperialista. Occorre non farsi legare le mani dal "realismo" dei governi progressisti borghesi. Occorre non farsi trovare disarmati senza organizzazione, senza partito di classe!

(1) Il documento-intervista che qui riprendiamo e commentiamo è sul sito www.rebelion.org "Qué quiere Brasil con Sudamérica?", 1 giugno 2006.

(2) Una informazione relativa alla controversia Argentina/Uruguay è sul n. 83 di Resumen Latinoamericano- edizione italiana, dove si dà conto di quanto la "sinistra uruguaiana" venga meno alle attese. "Il ‘paese produttivo’ promesso da Vazquez si riduce al buon fiuto per gli affari" scrive Raul Zibechi. Amara verità, ma Kirchner, questo "amico del popolo", fa qualcosa di diverso in Argentina?

(3) Non vogliamo certo mettere una etichetta ideologica sul sentimento patriottico della massa popolare, che una volta apposta, ci autorizzi a squalificare di per sé il proletario, lo sfruttato che scende in piazza alzando la sua propria bandiera nazionale. Sappiamo bene che, soprattutto per la storia del movimento operaio argentino, essere attaccati a quel drappo, a quella Patria che ‘nell’età dell’oro’ di Peron ha potuto dare, provvisoriamente, ai lavoratori dignità e diritti mentre li inquadrava corporativamente dentro lo stato capitalista, significa rivendicare "una vera giustizia sociale", uno "stato sociale dei lavoratori". E da questa rivendicazione partiamo per contrastare il patriottismo, maschera dei capitalisti e dei militari assassini al loro servizio.

(4) In effetti dopo la pseudo-nazionalizzazione dei giacimenti di gas varata il 1 maggio dal governo di Morales e l’innalzamento delle tariffe del gas richiesto dalla Bolivia alle multinazionali, la pressione della Petrobras e del governo brasiliano ha costretto il povero Morales a rivedere al ribasso le condizioni applicate "ai fratelli", quietando per il momento il contrasto col grande paese confinante.