Una piccola iniziativa dal non piccolo significato
Il 29 ottobre si è svolta a Roma una conferenza-dibattito sulla "convivenza interreligiosa". Vogliamo sottolineare questa piccola iniziativa per il segnale che essa –a date condizioni– può rappresentare in prospettiva.
A promuovere l’iniziativa è stato il Dhuumcatu, un’associazione che da anni è al centro delle lotte degli immigrati nella capitale e che tra le sue fila raccoglie migliaia di lavoratori bengalesi ed asiatici per lo più (ma non solo) di fede islamica. Nel manifestino di convocazione si legge tra l’altro: "In che modo le comunità immigrate di Roma guardano al futuro e si rapportano all’attuale crisi mondiale, caratterizzata dall’acuirsi del clima di xenofobia?" Per rispondere e ragionare su questo ed altri quesiti sono stati chiamati un imam musulmano, un prete cattolico filippino operante a Roma, il presidente dell’unione "giovani ebrei" in Italia, rappresentanti di altre religioni e alcuni docenti universitari. Anche noi del "che fare" siamo stati invitati ("in quanto comunisti") e abbiamo accettato con grande piacere ed interesse.
Nell’introduzione al dibattito (a cui ha assistito un attento pubblico di un’ottantina di persone, in buona parte immigrati) il presidente del Dhuumcatu ha evidenziato come, quando si lotta per i propri diritti violati, ci si ritrova di necessità in piazza solidali tra lavoratori immigrati di diverse religioni e nazionalità. Gli stati e i governi, ha continuato il relatore, fomentano, invece, la divisione e utilizzano l’argomento religioso per instillare razzismo e far crescere lo spirito guerrafondaio soprattutto contro le popolazioni ed i lavoratori di fede islamica.
Anche l’imam ha denunciato il clima di razzismo istituzionale (recentemente a Roma è stata perquisita una moschea) ed extra-istituzionale contro i musulmani ed ha teso soprattutto a sottolineare come l’Islam sia una religione che vuole individuare e colpire le cause sociali che generano povertà e miseria.
Il prete filippino (che, al pari dell’imam, a volte è presente nelle manifestazioni dei lavoratori immigrati e che ha "prestato" la sala per il dibattito) ha spiegato come le cause delle sofferenze degli immigrati e di buona parte dell’umanità non siano locali, ma generali. Ha ribadito come, di fronte a questa realtà, sia necessario che tutte le confessioni religiose incomincino a parlarsi e ad operare comunemente per dare risposte "all’umanità sofferente". Ha inoltre sottolineato come "solidarietà" non debba significare solo carità, ma anche e soprattutto stare assieme, stare uniti.
Il rappresentante dell’associazione ebraica ha con molta franchezza detto che è inevitabile che la religione e la politica si intreccino e che di questo fatto bisogna tenere conto. "In Italia possiamo forse anche trovare dei punti di collaborazione con gli immigrati musulmani, ma sulla questione palesatine o sul Libano abbiamo punti di vista molto diversi".
Abbiamo riportato (riducendola "all’osso" e, quindi, facendo anche torto agli oratori) la sintesi dei principali interventi per dare un’idea del clima e dei contenuti di questa iniziativa, piccola, ma con risvolti da non sottovalutare.
È stato importante chiamare immigrati di diverse confessioni a incontrarsi e a dialogare (quand’anche tramite i propri "rappresentanti religiosi") proprio mentre i governi occidentali tentano di dividere e gerarchizzare questi lavoratori utilizzando anche il "fattore religioso" come elemento di differenziazione e di discriminazione. Ma ancor più importante è il segnale che ne vien fuori in chiave prospettica: "l’umanità sofferente" dell’America latina, dell’Africa e del vasto mondo islamico ha bisogno di parlarsi e di "venirsi incontro" per trovare dinnanzi al comune dramma, l’iper-sfruttamento e un’oppressione senza limiti, forza e risposte che non potranno che essere altrettanto comuni. Una aspirazione, questa, a volte forse non totalmente consapevole, ma assolutamente fondamentale e a cui il mondo dell’immigrazione (dell’immigrazione che lotta) può e deve dare un grande contributo.
La stessa attenzione con cui è stato accolto ed ascoltato il rappresentante dell’ebraismo ha in un certo qual senso manifestato la necessità e la volontà di cercare "anche tra il ebrei" una sponda, quantomeno critica verso la politica dello stato d’Israele, con cui poter dialogare. Che poi nel caso specifico il tentativo non sia stato coronato da un risultato è un’altra questione, che nulla toglie alla giusta intuizione di dover allacciare contatti anche con la parte sfruttata e "insoddisfatta" della popolazione ebraica.
Allo stesso modo crediamo che l’invito alla partecipazione rivolto a noi del che fare non sia dovuto "soltanto" alla continua presenza militante dell’Oci a fianco del più che decennale percorso di lotta ed organizzazione dei lavoratori immigrati, ma che (più o meno consapevolmente) esprima anche la volontà di guardare al mondo del lavoro "degli italiani e degli occidentali" e di ascoltare le "ragioni" di una prospettiva "non propriamente religiosa".
Diciamo tutto ciò senza alcuna faciloneria o inutile (e completamente fuori luogo) ottimismo. Lo ripetiamo: si è trattato di un piccolissimo e, se si vuole, flebile e forse isolato segnale. Ma un segnale prezioso che va colto e potenziato. Sotto le insegne della religione, infatti, si sono combattute nei secoli, e si combattono tuttora, reali battaglie di classe. In Asia, Africa e America Latina centinaia di milioni di oppressi affidano le loro istanze materiali di liberazione sociale ad un certo Islam radicale e ad un certo cristianesimo e dietro tali bandiere si attivizzano e si battono.
Ciò significa che queste tendenze religiose possono offrire i programmi e i percorsi di lotta richiesti dallo scontro con il capitalismo per l’affermazione dei bisogni e delle esigenze degli sfruttati?
Noi non lo crediamo.
Le basi strutturali del capitalismo e la storia delle lotte contro di esso mostrano che le battaglie degli sfruttati hanno bisogno di "liberarsi" anche dei programmi e delle istituzioni di un certo cristianesimo e di un certo islamismo. Hanno bisogno di scomporre e dividere orizzontalmente per linee di classe le "comunità dei credenti" e di ricomporre, per opposte linee di classe, un’unica mondiale comunità degli sfruttati contro la già agente "comunità" degli sfruttatori a cui appartengono fior di cristiani e fior di islamici. Hanno bisogno, per portare a compimento questo percorso, di centralizzarsi attorno al programma e all’organizzazione comunisti e di partecipare alla reincarnazione dell’uno e dell’altra in un nuova Internazionale comunista.
Ma sono le stessi ragioni che ci conducono a questa conclusione ad farci comprendere anche che si potrà arrivare a questo traguardo solo nel fuoco delle lotte, solo attraverso l’incontro, nella lotta e per la lotta contro un nemico che è comune, di sfruttati di continenti e religioni diverse. E solo se in questo ribollente magma sociale e politico sarà presente l’intervento di (anche piccoli) nuclei comunisti, i quali, con senso della misura e senza alcuna spocchia illuministica, si sforzino di indicare gli obiettivi ed i nemici contro cui indirizzare le battaglie, quand’anche queste all’immediato rivestano "panni religiosi".
In questa direzione abbiamo svolto il nostro intervento alla conferenza. Dopo aver reso merito alla grande sofferenza ed alla ancor più grande forza e capacità di resistenza delle popolazioni islamiche dell’Iraq, Afghanistan, Palestina e Libano, abbiamo sottolineato come il sentimento religioso delle masse oppresse e sfruttate contenga in sé l’anelito ad un mondo in cui regnino davvero la "giustizia sociale" e la fratellanza universale. Abbiamo, quindi, invitato a rilevare che la realizzazione di questo "sogno", intimamente comune tanto allo sfruttato islamico di Gaza quanto al contadino o al minatore cattolico boliviano, trova oggi degli impedimenti materiali: le grandi multinazionali, gli stati occidentali con i loro apparati militari e politici, i concreti interessi ed i concreti tutori del profitto e del mercato.
Guerre, fame, razzismo originano e sono portate avanti da "qualcosa" di fortemente strutturato sul piano economico e sociale. Contro questo "qualcosa" bisogna unirsi anche per poter andare oltre le "divisioni" nazionali e religiose. È sul terreno della lotta contro le guerre occidentali, contro il razzismo e per i diritti degli immigrati che si possono gettare già oggi le basi per una reale cooperazione tra lavoratori di fedi diverse. Questo, tra l’altro, ci dice l’esperienza delle, piccole e meno piccole, mobilitazioni di questi ultimi anni.