La destra ha ripreso la sua marcia e stringe i tempi per il partito unico. Se il proletariato non riprende a marciare, saranno guai grossi!
Le sconfitte possono educare meglio e più delle vittorie. Sembra essere questo il caso della destra italiana che, sia pur tra molte contraddizioni, si è rimessa in marcia. Oltre sé stessa. E più che mai contro i lavoratori.
Fin dal ‘93 Berlusconi ha impersonato la necessità, propria di tutta la classe capitalistica, di forgiare in tempi stretti un fronte sociale e politico capace di affrontare in modo risoluto la classe lavoratrice, batterla e scompaginarla. In questo è consistita la sua forza. La sua debolezza è stata invece nell’illudersi di poter assolvere a questo compito in un arco di tempo molto breve, con una alleanza a maglie larghe e un partito sostanzialmente virtuale. La batosta del 1996 gli è servita ad evitare, cinque anni dopo, di incorrere in decisioni precipitose ed "estreme"; lo ha spinto a saldare meglio le giunture della propria alleanza e di serrare a sé, pungolandola perché fosse più attiva sul piano politico, la massa (in Italia è ancora tale) dei piccoli-medi accumulatori. La nuova batosta del 2006 sembra essere stata ancora più istruttiva sia per il cavaliere in persona, che per i suoi.
"In piazza con il popolo, la sinistra nei salotti"
Lo si è potuto toccare con mano innanzitutto nella manifestazione del 2 dicembre a Roma. Una manifestazione non scontata, perché è forte nel Polo una destra vetero-conservatrice ed elitaria, restìa a scendere nelle piazze al modo dei "plebei". Essa ha rappresentato, invece, un primo test sia per la riconquista delle piazze, nei cinque anni passati "occupate" quasi solo dalle iniziative anti-Berlusconi, sia per l’organizzazione di una forza unitaria della destra. Test superato a pieni voti. Tanto da portare lo scettico Feltri, esaltato dallo spettacolo di un "popolo" unito dagli "stessi valori e sentimenti", a sognare: "Ora questo partitone unico che ha invaso Roma di rabbia, orgoglio e allegria, deve strutturarsi seriamente. Trasformarsi da movimento di confraternite in una sola vera, grande squadra. E non ce ne sarà per nessuno" (Libero, 3 dicembre). Un "popolo" che si organizza in partito…
Di quale "popolo" si tratta?
La dimostrazione romana è stata l’acme di un processo di mobilitazione iniziato in alcune città del Nord dalle associazioni di categoria dei commercianti, dei piccoli (e non solo piccoli) industriali, degli artigiani, in qualche caso benedetto anche da esponenti del centro-sinistra come Cacciari e Illy, e poi confluito nell’alveo della protesta capeggiata da Berlusconi trascinando dietro di sé una folla di appartenenti ai ceti medi impiegatizi e perfino alla stessa classe operaia. C’era anche gente, forse non poca, che scendeva in piazza per la prima volta. Insomma un misto, non proprio omogeneo, di strati sociali iper-privilegiati dai ricchi conti in banca e di fasce intermedie (e anche "basse") della società dai redditi modesti. Rabbiosi i primi, perché chiamati dopo anni di impunità a pagare qualcosa, e non disposti a cedere neppure un’oncia dei propri profitti e delle proprie rendite di posizione. Rabbiosi i secondi (salariati, stipendiati e lavoratori autonomi), perché realmente toccati dalla finanziaria Padoa-Schioppa, ma soprattutto impauriti da un futuro che non promette loro niente di buono, con i processi di centralizzazione del capitale e di esasperata competitività che falceranno decine di migliaia di posti di lavoro anche tra gli operai e gli impiegati privati (gli Usa insegnano) come anche nei servizi. A tale misto di rabbia e di paura, di grassatori professionali sul lavoro altrui e di strati sociali che vivono già solo, o quasi solo, del proprio lavoro, e che già stanno scendendo o temono di dover scendere presto nelle loro disponibilità materiali e nelle loro aspettative sociali, Berlusconi ha offerto un terreno comune: la denuncia del "governo delle tasse" e la lotta contro di esso e per la "libertà", la libertà dalla ossessiva presenza dello stato (lo stato "al servizio" della società, e non viceversa).
La capacità della destra di schierare in piazza questo "popolo", che non le appartiene affatto tutto "di diritto", mostra quanto fosse da imbecilli ieri e tanto più lo sia oggi l’equazione Polo=interessi privati di Berlusconi. Il Polo, la destra, hanno un proprio "popolo". Non lo ha creato Berlusconi, come afferma l’Unità. Egli ha saputo radunarlo e ora insieme a lui una classe dirigente in formazione si accinge ad educarlo. L’orgoglio di aver saputo compiere un primo passo in questa direzione mette in bocca a Tremonti una frase di sfida: "noi in piazza [nella "piazza rossa" di Roma] con il popolo, la sinistra rifugiata nei salotti". Una frase con un amaro contenuto di verità. Mentre il movimento proletario diserta da mesi le piazze, irretito dalla tela di ragno del governo "amico", la destra si è rimessa in marcia. Oltre sé stessa, e oltre il suo stesso mentore, Berlusconi. Guai a sottovalutarlo.
Verso il partito unico
Perché al di là della richiesta di facciata della ri-conta dei voti, la manifestazione del 2 dicembre ha condensato e messo in mostra un lavorìo politico della destra che si articola su più livelli. C’è la fondazione del movimento dei Circoli della libertà, volto a catalizzare una nuova leva giovanile monda della vecchia cultura democristiana e interamente imbevuta di aggressivo liberismo (di cui la Brambilla è un’ottima incarnazione). C’è la crescita di una stampa militante (Libero, con uno score di vendite in impennata da un biennio, ma anche Il foglio e Il giornale) che sempre più spesso si pone intenzionalmente come centro di organizzazione e di iniziativa politica, come stampa di partito. C’è il progetto della formazione di una scuola-quadri (sotto forma di università privata, o meno). C’è, è ancora Tremonti a parlarne, l’impegno di alcuni ideologi, sia di Forza Italia che di An, centrato sulla "formazione delle nuove categorie politiche" e "anche sulla formazione di una nuova classe dirigente". E ci sono dal basso, ma non proprio spontanee, le primissime prove di forze d’ordine di complemento della destra, le "ronde padane" anti-immigrati, che però già si auto-propongono o vengono proposte come nuova guardia nazionale, "popolo" in armi.
E’ un lavorìo politico all’interno del quale sono già apparsi contrasti veri, al momento irrisolti. La stessa idea del "partito unico" è stata (formalmente) bocciata da Bossi, che non vi vede adeguata tutela degli interessi pregnanti del Nord. E un’accesa polemica è in corso tra la critica di Tremonti, ancora lui, contro il "mercatismo suicida della sinistra e dell’Europa" e i suoi contraddittori ultra-liberisti. Polemica arroventata anche tra i lugubri custodi del tradizionalismo cattolico, rinvigoriti dal magistero integralista di Ratzinger, e quanti ritengono di non potere rinunciare, per difendere meglio l’ordine costituito, all’autonomia e alla laicità dello stato borghese. Tra quanti propongono, Pera e Ferrara in testa (anche se atei professi), una permanente crociata anti-islamica in nome degli "eterni valori" di "Dio, patria e famiglia", e quanti, all’ombra di Fini, si spingono ad ipotizzare un’Italia multiculturale e politeista (da sempre tale…). Il punto di sintesi non pare a portata di mano e non ci pare neppure che sarà il cavaliere in persona a poterlo proporre. Ma sarebbe sbagliato vedere in tali contrasti delle insolubili antinomie.
Certo, vi sono evidenti punti deboli in questa "ricerca" in atto delle basi fondanti del "partito unico" del capitalismo italiano nell’era di "guerra infinita" che si è aperta. Due su tutti. La politica estera e il rapporto con la classe proletaria. Gli ultimi 15 anni, la stessa esperienza di governo del cavaliere, hanno dimostrato che non c’è spazio per un rilancio dell’Italia che sia totalmente all’ombra di Washington, per l’impossibilità delle amministrazioni statunitensi di essere "prodighe" non diciamo di nuovi "piani Marshall, quelli neanche a sognarli, ma anche solo di bricioloni per i "volenterosi". Questa possibilità non c’è, ed è quindi giocoforza combinare l’atlantismo con l’europeismo ed il nultilateralismo in un modo differente da quello oggi egemone nel Polo. E per una tale bisogna non possono bastare le cene d’affari con Vladimir Putin e la profferta di fare da ponte "personalmente" tra Mosca e Washington, specie se Putin e la Russia entrano in crescente rotta di collisione, come è, con gli States. Ci vuole ben altro, e al momento –su questo piano- il governo Prodi sembra dare più garanzie del Polo.
Anche il rapporto con la classe operaia andrebbe impostato su basi differenti da quelle del quinquennio di governo in cui il Polo ha perso consensi proprio nella classe lavoratrice. L’amo dell’anti-tasse non può bastare. Necessita un programma più complessivo, che non può non comprendere una diversa ripartizione dei sacrifici tra proletariato e classi medie, non solo quelle impiegatizie. Per ora non pare ci siano componenti nel Polo disposte a spingersi davvero su questo terreno. Nondimeno, il solo fatto di avere deciso di non lasciare la piazza alla sinistra e ai sindacati, ma di tornare ad occuparla, segnala che la questione del rapporto con le masse lavoratrici è presente agli strateghi del Polo. Né si può dimenticare che ai margini di esso, in polemica –non antagonistica, però- con esso, c’è già all’opera nei quartieri periferici di Roma e di Milano, a Catania e così via, una nuova destra extra-parlamentare che sta radicandosi pericolosamente in segmenti della gioventù di estrazione proletaria o sotto-proletaria anche attraverso una militanza (nelle forme) "eversiva".
Insomma, chi abbia gli occhi per vedere può cogliere che la destra ricacciata all’opposizione si sta attivando intorno ad un crogiolo in cui riversa tutti i più tradizionali elementi della reazione anti-proletaria. In superficie regna il caos; in profondità è in atto un movimento che va comunque (Casini o non Casini, non è questo il vero problema) verso una ricomposizione molto più aggressiva delle forze di destra. Non si dimentichi che in passato anche il cammino verso il partito nazionale fascista avvenne attraverso un percorso assai accidentato, iniziato all’insegna addirittura del credo manchesteriano… Più i margini di manovra del capitalismo nazionale, in dipendenza di quel che avviene al capitalismo internazionale, si fanno stretti, più s’imporrà agli "esperti chimici" che sono all’opera di sfornare il loro nuovo "composto".
Reagiamo!
Che il proletariato non rimanga in passiva attesa! Che non si faccia ricattare dal timore del ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi! Berlusconi e i suoi sono attivamente all’opera fuori dal palazzo, e sono ancora più pericolosi e dinamici che dentro di esso. Non solo e non tanto perché influenzano e, in parlamento, tengono sotto scacco permanente il governo. Non solo perché la loro offensiva sui "valori" dell’individualismo concorrenziale continua ad incidere tra i lavoratori. Ma perché stanno forgiando un nuovo blocco reazionario, inglobandovi forze sociali che la classe lavoratrice potrebbe attirare a sé con la ripresa del proprio antagonismo e la "presentazione" della sola vera soluzione al parassitismo statale sulla società, quella della rivoluzione anti-capitalistica. Un blocco reazionario che, pur se con l’inevitabile fatica del caso, cerca di dotarsi di un proprio organo di combattimento (tale è il partito, il partito che finora, realmente, non ha avuto). Sebbene il nostro ritardo, il ritardo nella riorganizzazione della classe lavoratrice per sé stessa contro il capitale e il capitalismo stia diventando allarmante, nulla è ancora perduto. Ma attenzione! Noi siamo fermi e divisi, i nostri nemici, al governo e all’opposizione, sono in marcia.