Lavoratori / padronato e governo: è tempo di...

Dov'è il centro dell'attacco di Prodi ai lavoratori?

Un inizio cauto

La partenza di Prodi è stata cauta. Non poteva essere diversamente. C’era da pagare in qualche modo un debito verso le aspettative immediate di tanti lavoratori. Non le vogliamo enfatizzare. L’investitura "dal basso" ricevuta nel 2006 da Prodi e da D’Alema non può essere confusa con l’energico "il Pci deve governare" delle calde manifestazioni operaie degli anni ’70, quando tra il nucleo centrale della classe lavoratrice e il Pci c’era una sorta di identificazione, e l’ascesa al governo del "proprio" partito era sentita e vista (illusoriamente) come il primo passo verso la messa sotto controllo operaio dell’intera società. E tuttavia nel dopo-elezioni della primavera scorsa tra i lavoratori votanti per l’Unione era diffusa l’attesa (non meno illusoria) di un qualche cambiamento rispetto al berlusconismo. Un’attesa delegante, ma fondata comunque sulla consapevolezza di avere dato un contributo fondamentale a sloggiare la destra dal governo.

Cauta per la ragione appena esposta, la partenza di Prodi è stata anche finalizzata ad accreditare, anzitutto agli occhi dei lavoratori dell’Unione, la possibilità di realizzare davvero il risanamento e lo sviluppo dell’economia nazionale con "equità", potando le più evidenti sacche del parassitismo sociale. Per questa ragione l’esecutivo ha varato nel luglio, come primo significativo atto di politica economica, la cosiddetta "liberalizzazione delle professioni", dando una lieve limatura agli enormi privilegi corporativi e reddituali di notai, avvocati, farmacisti e liberi professionisti vari (discorso a parte meriterebbe il "capitolo taxi"), con il plauso sia della Confindustria che di molti lavoratori e pensionati (in sei mesi il prezzo dei medicinali è diminuito tra il 5 e il 25%). Ma al di là delle sue immediate e limitate ricadute economiche, il primo provvedimento a firma Bersani e le prime misure anti-evasione di Visco hanno avuto un importante risvolto politico perché sono stati venduti dalla stampa governativa come una prima prova generale del fatto che, senza gravare sulle imprese e sul lavoro salariato, si possa trasferire denaro dalle "rendite parassitarie" al "circuito capitalistico produttivo" a vantaggio reciproco tanto degli industriali quanto dei lavoratori.

La manovra finanziaria è stata presentata in un’ottica analoga. Non solo dal governo. Le direzioni dei tre maggiori sindacati, e una sezione del sindacalismo extra-confederale, il SinCobas, ci hanno messo del loro nel diffondere tra i lavoratori l’idea di una finanziaria ispirata all’"equità" (nel senso prodiano sopra detto), anche se non corrispondente in pieno alle richieste sindacali. Sottolineando in particolare –prendiamo le relazioni di Epifani ai direttivi Cgil di ottobre e novembre- la rimodulazione dell’Irpef "a favore dei ceti medio-bassi" e delle famiglie numerose, l’incremento della tassazione sui bot e sulle rendite finanziarie, l’imposta di successione sui grandi patrimoni, l’inasprimento dell’azione anti-evasione e anti-elusione fiscale, il rinnovo dei contratti pubblici e le prime misure contro la precarietà, e sostenendo che in tal modo la finanziaria per il 2007 ha operato una piccola ma reale redistribuzione del carico fiscale a vantaggio della grande maggioranza dei redditi operai e da lavoro dipendente.

Il loro giudizio globalmente positivo, anche se via via più prudente, ed assestatosi infine sul "ci sono luci, ci sono ombre", è sembrato essere avvalorato dai mal di pancia affiorati nella Confindustria e soprattutto dalle grida del centro-destra che ha parlato di "vendetta sociale" contro i ceti medi e li ha chiamati con successo a manifestare la loro rabbia. Ed in effetti –fatto non proprio frequente- il varo della finanziaria ha visto scendere in piazza una quantità di padroncini e di altre figure succhia-salari, animati da vivo odio di classe contro le forze diaboliche che terrebbero in ostaggio il "governo tassassino": i sindacati, cioè gli operai e i lavoratori salariati.

La finanziaria e le liberalizzazioni

Come stanno realmente le cose? Che razza di finanziaria è quella per il 2007?

Partiamo da ciò che è scontato: è una finanziaria piena di misure a favore della grande e della media impresa. Il taglio del cuneo fiscale (che fa entrare nelle casse aziendali oltre 500 euro l’anno per dipendente), le misure per agevolare le fusioni di piccole e medie imprese, il credito d’imposta per le aziende del Sud e per gli investimenti in ricerca, le nuove privatizzazioni messe in cantiere, l’incremento delle spese militari (che sono monopolizzate da imprese di grossa stazza), l’enorme posta dei fondi pensione con il trasferimento ad essi di una parte del Tfr: che grande flusso di denaro fresco per i padroni dell’industria e delle assicurazioni! E che spinta al processo di centralizzazione del capitale! E’ questa la grande redistribuzione del reddito nazionale (e del potere sulla vita sociale) dal lavoro al capitale operata dal governo in carica, non certo controbilanciata dalle nuove imposte sulle rendite finanziarie e simili.

E la classe lavoratrice?

Finite le supposizioni, diverse stime1 convergono nel rilevare che sul salario diretto, tra la nuova Irpef, il nuovo regime di assegni familiari e l’incremento dei contributi previdenziali, solo il 16,7% dei salariati e stipendiati riceve un incremento superiore ai 400 euro l’anno, il 13,4% si ferma ad una cifra che va dai 100 ai 400, il 32,5% riceve un incremento ancora più irrisorio, inferiore ai 100 euro, il resto va alla pari o, i redditi più alti, in perdita. Che questi incrementi riguardano più i salari e gli stipendi medi che quelli al di sotto della media, più i lavoratori con figli a carico (il 38,6% del totale dei dipendenti) che i single. Che i redditi più alti hanno realmente perso qualcosa (150-200 euro sui 5-6.000 mensili), ma ciò che perdono è solo la metà di quello che guadagnarono con la seconda riforma Tremonti. Dunque, per i lavoratori (non così per le aziende!) il taglio del cuneo fiscale ha avuto un effetto così minimale che in un buon numero di casi (dal 30 al 60% del totale) potrebbe essere azzerato o portato al negativo dalle addizionali locali. Se poi si passa a considerare il salario indiretto, ovvero i ticket e le tariffe (non bloccate dal governo), non c’è alcun dubbio che per la gran parte dei salariati la finanziaria per il 2007 non bloccherà l’erosione dei salari, la farà proseguire.

Non a caso, immediatamente a ridosso di essa, il governo si è affrettato a varare un secondo pacchetto di "liberalizzazioni", che sono parte organica del programma del governo e dovrebbero comportare, secondo le stime delle associazioni dei consumatori, dei risparmi di spesa incidenti proprio sul salario indiretto e, questa volta, piuttosto generalizzati. Risparmi, si legge, tra i 300 e i 500 euro annui a famiglia, con "l’Unità" che li fa lievitare fino a 1.000.

Sempre a ridosso della finanziaria sono state rese pubbliche le cifre sull’impennata delle entrate fiscali dello stato nella seconda metà del 2006 (+10%), che Visco si è affrettato ad attribuire, in parte, alla stretta operata dal governo Prodi sugli introiti dei lavoratori autonomi e delle imprese, costretti ad uscire dal sommerso. Ancora una volta il messaggio ulivista è: noi facciamo pagare tutti. Ovvero: oltre i proletari, candidati a pagare per definizione, sebbene siano la sola classe produttiva della società e sebbene la produttività del loro lavoro sia altissima, facciamo pagare anche, o facciamo pagare di più, i ceti medi. Sotto questo profilo c’è una diversità, c’è una discontinuità, che piace anche ai grandi capitalisti, rispetto alle finanziarie di Berlusconi. E solo in questo senso c’è anche una qualche redistribuzione delle perdite, non però tra grande capitale e classe operaia, bensì tra le mezze classi e la classe lavoratrice. E’ un’"equità", dicono i prodiani, finalizzata allo "sviluppo" (dei profitti…), che sta ripartendo. Perciò, lavoratori, state calmi. Non disturbate il manovratore.

Di disturbi il manovratore ne ha avuti finora, purtroppo, ben pochi. Non lo diranno mai, ma i poteri forti ne gongolano: è stato un buon investimento. Finora. Da aprile 2006 ad oggi il dissenso di piazza più forte è venuto da destra, dalle classi piccolo-accumulatrici; non da sinistra, dalla classe operaia. Gli operai si sono fatti sentire due sole volte: il 4 novembre, con una nutrita delegazione della Fiom al corteo di Roma contro la precarietà, e ad inizio dicembre nelle assemblee di Mirafiori. E in tutti e due i casi si è trattato più di una pressione sul governo che (come ci sarebbe piaciuto) di un vero e proprio attacco al governo, più l’espressione di preoccupazione e di malcontento che di una vera e propria volontà di lotta. Il solo sciopero di categoria si è avuto il 17 novembre e ha riguardato la scuola e l’università, con una indizione in parallelo dei sindacati confederali e di alcune forze sindacali esterne all’area del governo (i Cobas della scuola, la Cub-Rdb, etc.)2, ma in diversi casi intrecciate, o contigue, alle ali sinistre del governo (PdCI, Rifondazione), che si dicono di quando in quando scontente delle mediazioni prodiane, ma che nei fatti si allineano ad esse.

Diverse formazioni politiche e sindacali hanno parlato di "finanziaria lacrime e sangue", in perfetta continuità con le finanziarie di Berlusconi, sperando nel contempo di imporre con la propria protesta una "drastica virata di rotta del governo Prodi" (parole di Bernocchi) attraverso il cambiamento dei rapporti di forza interni al centro-sinistra.

Il vero affondo

Noi compagni del Che fare e dell’OCI siamo stati parte di queste (limitate) mobilitazioni. Ad iniziare dalla primissima di esse, organizzata a Roma il 14 maggio dello scorso anno dal Comitato immigrati in Italia per "ricordare" al governo Prodi le promesse fatte agli immigrati e fargli presente di avere alcune rivendicazioni da fargli "ascoltare". In tutte queste iniziative ci siamo sforzati di mettere a fuoco, insieme con la denuncia dei danni materiali immediati per i lavoratori, il disegno politico che sta dietro la finanziaria e l’azione complessiva del governo Prodi.

Noi che non coltiviamo affatto la speranza di "imporre una drastica virata di bordo del governo Prodi", ma puntiamo a cambiare i rapporti di forza tra la classe lavoratrice da un lato, il padronato e il governo dall’altro, abbiamo portato tra i lavoratori il seguente ragionamento. Si può anche ammettere che questa finanziaria non abbia portato un attacco frontale immediato al salario dei lavoratori. Ma: 1) se è così, lo è soltanto per l’effetto ritardato della vostra resistenza al cavaliere; 2) la vera insidia, per la classe lavoratrice, è nell’affondo politico che il governo Prodi vi sta portando proprio attraverso una partenza, tutto sommato, soft.

Questo attacco consiste nel proporre direttamente al proletariato, e in particolare agli operai dell’industria, la seguente proposta: "Finora le imprese italiane non hanno saputo affrontare la sfida della mondializzazione agendo con uno spirito di squadra. Per questo l’economia nazionale sta andando male. Per arrestare questo corso discendente, che penalizza per primi i lavoratori, occorre rilanciare la competitività del ‘sistema-Italia’ con il contributo e il sacrificio di tutte le classi sociali. Ma perché tale rilancio ci possa essere, è necessario stringere un nuovo ‘patto sociale’, un ‘patto per la produttività’, un ‘patto per un nuovo welfare’ tra tutte le componenti della società. E’ necessaria una nuova coesione sociale: dobbiamo remare tutti insieme nella stessa direzione". Senza conflitti. E in specie senza conflitti tra capitale e lavoro!

Per dare maggiore credibilità a questa proposta agli occhi del proletariato industriale, Prodi&C. hanno messo sul piatto una reale stretta sull’evasione fiscale attraverso il rafforzamento degli studi di settore e il nuovo sistema di controlli incrociati. Hanno avviato un ampio piano di liberalizzazioni che possono dare alcuni limitati benefici immediati anche ai salariati, e possono comportare delle limature non solo alle rendite, anche ai profitti di un dato settore (così è stato per l’industria farmaceutica), purché a beneficio del profitto e della stabilità del sistema nel suo insieme. E hanno deciso primi reali tagli ai bilanci, ai privilegi e alle prebende della pubblica amministrazione, ponendo, sulla scia dell’ultimo Tremonti, dei tetti di spesa realmente vincolanti anche ai ministeri, e prendendo alcune prime misure più o meno simboliche quali il taglio delle ferie ai magistrati, la limatura degli introiti dei primari ospedalieri, la mobilità degli statali, etc.

Che Prodi non sarà in grado di andare avanti fino in fondo in nessuna di queste direzioni, lo diamo per scontato. E però i danni che anche soltanto l’accettazione rassegnata di una tale prospettiva da parte dei lavoratori può creare, sono grandissimi.

(1) Ci riferiamo a quelle pubblicate su Il sole 24 ore del 15 gennaio 2007, ad opera della redazione del giornale, su la Repubblica del 27 gennaio 2007, ad opera dello studio Santini; su "la voce.info", ad opera di M. Baldini e P. Bosi, e su la Stampa del 31 gennaio 2007, ad opera di L. Ricolfi e L. Debernardi.

(2) Per i Cobas si è trattato, invece, di uno sciopero generale, la cui riuscita al di fuori della scuola, specie nell’industria, è stata, però, quasi nulla.