A Londra islamici e non islamici provano a marciare insieme: contro Blair, contro Bush, contro il governo di Israele. Alcune note di cronaca.
Agosto 2006. L’ennesima aggressione israeliana al Libano procede senza suscitare nell’Europa continentale, specie in Italia, particolari reazioni nel "popolo della pace". A Londra, invece, si suona un altro spartito. Un po’ di cronaca non guasta, vista la scarsissima attenzione che si è voluta prestare qui alla cosa.
Già dall’inizio dell’attacco, il 22 luglio, una prima forte mobilitazione aveva visto scendere in piazza 30.000 persone nella capitale, e svolgersi numerose, anche se più limitate, manifestazioni in tutto il paese. Il 3 agosto a Londra un’assemblea d’emergenza chiama a un’azione diretta contro l’invasione del Libano, mentre si raccolgono 40.000 firme per fermare il massacro. Al rifiuto di Tony Blair di pretendere da Israele l’immediato cessate il fuoco senza condizioni, nel giro di pochissimi giorni le organizzazioni che guidano la protesta contro la politica di guerra blairiana danno vita ad un’altra, imponente mobilitazione.
Ancora una volta (la quindicesima dal 28 settembre 2002) le diverse anime di questo movimento si sono ritrovate a manifestare insieme: oltre alla Stop the War Coalition, parliamo delle tre maggiori organizzazioni mussulmane, la British Muslim Initiative, la Muslim Association of Britain, il Muslim Council of Britain, l’organizzazione dei familiari dei militari Military Family against the War, il CND (organizzazione per la denuncia e distruzione delle armi nucleari), numerosi gruppi pacifisti, rappresentanti dell’ala sinistra del Labour Party, firmatari della petizione delle 40.000 firme, i quattordici sindacati nazionali che aderiscono alla coalizione contro la guerra e migliaia di dimostranti di ogni fede, razza ed età.
Centomila manifestanti a cui la propaganda seguita agli attentati dell’estate 2005 non ha confuso le idee, a dimostrazione di quanto è diffusa all’interno della società britannica, soprattutto tra i giovani "non integrabili" delle periferie suburbane, la ribellione contro il macello continuo perpetrato dai governi occidentali sui popoli del Medio Oriente e del Sud del mondo.
"Fuori le truppe dall’Iraq" – "Giù le mani dal Libano" – "Fermate Israele" - "Cessate il fuoco adesso!"- "Libertà per la Palestina"- "Blair se ne deve andare": queste le parole d’ordine legate all’immediata attualità, ma nella dimostrazione era presente anche la denuncia del pericolo di allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente, con la pressante, lungimirante richiesta: "Non attaccate l’Iran".
Obiettivi chiari, anche se espressione di posizioni non univoche, come è ovvio che sia all’interno di un movimento di massa, di qualsiasi movimento di massa. Il cessate il fuoco, l’obiettivo immediato condiviso da tutti, infatti, è inteso da una parte dei partecipanti come presa di distanze dagli "opposti fondamentalismi", e non come richiesta rivolta contro lo stato di Israele. Vi è chi domanda ai propri rappresentanti parlamentari di pronunciarsi contro la barbarie delle guerre in atto, e, pur non sentendosi rappresentato da essi, ha ancora aspettative nei confronti delle istituzioni, e vi è chi riafferma invece l’importanza dell’azione diretta ("solo noi possiamo cacciare Blair"). Nella compresenza di illusioni riformistiche e di solidarietà anti-imperialista militante, c’è chi si augura un intervento dell’Europa e dell’Onu e chi invece inneggia all’Intifadah e alla resistenza di Hezbollah (numerosi i cartelli che dicono: "Siamo tutti Hezbollah – boicottiamo Israele"), mentre dal palco i portavoce dell’organizzazione promotrice ci tengono a sottolineare che la manifestazione non è in favore del "Partito di Dio". Non mancano neppure gli ebrei ultra-ortodossi di Jacob Weisz, che negano il diritto all’esistenza dello stato di Israele, diritto affermato invece da altri manifestanti, mentre c’è chi accusa Blair di essere un bugiardo e denuncia l’ipocrisia di "ammazzare in nome della democrazia". Israele viene definito stato terrorista e d’altra parte, soprattutto tra gli islamici, viene messo sotto accusa il silenzio dei governi del mondo arabo, i cui leader vengono chiamati "leader ballerini" (una critica, in questo caso, davvero troppo blanda!).
La crescente islamofobìa, una nuova forma di razzismo che sta imperversando ormai in Occidente, è uno dei temi scottanti presenti nel corteo, e viene ripreso dallo striscione portato dall’organizzazione che raggruppa le famiglie dei militari morti o impegnati nella guerra in Iraq e in Afghanistan, con su scritto: "Difendiamo la comunità mussulmana". I refusnik testimoniano le profonde riflessioni suscitate dalla diretta esperienza di questa guerra, che definiscono "barbarica e illegale". Il senso globale della manifestazione viene così espresso dalla portavoce della British Muslim Initiative: "Questa non è una guerra tra civiltà, è una guerra contro le civiltà, è una guerra dei ricchi del mondo contro i poveri e gli oppressi. Noi siamo per la giustizia e la liberazione, mentre loro sono per la tirannia e l’oppressione. Ma il futuro appartiene a noi!".
Tutti si danno appuntamento al 23 settembre a Manchester, dove ha luogo un’altra, affollatissima manifestazione (la più grande mai tenuta fuori Londra) con circa 40.000 partecipanti, che lancia a Blair un urgente, telegrafico messaggio: "Vattene, ora!". L’occasione della manifestazione è stata l’apertura del congresso annuale del Labour Party.
La massa dei dimostranti (non pochi dei quali alla loro prima esperienza di questo tipo, provenienti dal nord dell’Inghilterra e dalla Scozia), mette in discussione la politica del partito di cui per la gran parte essi stessi sono stati sostenitori, e mette in evidenza la distanza crescente che oramai separa il vertice del partito dalla sua base tradizionale. Richiedono un cambiamento radicale non solo della politica estera, ma anche di quella interna. Converge in questa opposizione interna al partito laburista anche una significativa parte del movimento sindacale (si conteranno oltre 80 stendardi di categoria) che si batte contro le privatizzazioni. Il corteo denuncia pure il clima di controllo poliziesco, di attacco indiscriminato agli immigrati, la restrizione delle "libertà civili" che colpisce soprattutto le "minoranze etniche" delle periferie e le comunità islamiche, perennemente sotto attacco. In particolare, l’invito alle famiglie mussulmane di tenere sotto controllo i propri figli per evitare che cadano "vittime della propaganda fondamentalista" ha mandato in bestia la comunità islamica, che giustamente attribuisce la rivolta dei propri giovani alle politiche criminali di guerra del governo e del partito che ne è alla guida.
Vale la pena di accennare alle ultime iniziative di questo movimento. Un’assemblea popolare, corredata da molti incontri a margine, che ha raccolto 650 delegati di dozzine di gruppi, organizzazioni, sindacati, chiese, partiti, per lanciare una campagna contro la crescente isteria anti-islamica, contro la criminalizzazione delle pratiche religiose, della scelta del velo e delle espressioni culturali, considerata giustamente come l’altra faccia dell’aggressione ai popoli arabi e islamici nel mondo. L’altra, è la decisione delle forze promotrici di questo movimento di partecipare alla conferenza internazionale di solidarietà con il popolo libanese che si è tenuta a Beirut dal 24 al 26 novembre, un’occasione per creare legami e rapporti più stretti con la resistenza dei popoli aggrediti.
Non abbiamo purtroppo informazioni di prima mano sull’effettivo livello del dibattito sviluppatosi tra le tante organizzazioni che compongono questo movimento. Esso si è dimostrato certo molto efficace nelle sue denunce e nella sua capacità di attivizzazione sugli obiettivi su cui si è finora mosso, ma rimane eclettico e vago nel mettere a fuoco le cause profonde della guerra e nell’indicare una strategia complessiva per battere i grandi centri di potere mondiali che di guerre come quella in Libano, in Iraq e in Afghanistan hanno assoluta necessità. Ciò nonostante, possiamo dire che esso presenta delle caratteristiche salienti, che vanno valorizzate.
La prima riguarda il carattere politico potenzialmente disfattista di questa lotta. Il movimento contro la guerra in Gran Bretagna si batte non solo contro la politica di aggressione imperialista degli Usa, ma anche contro il proprio governo (cosa per noi discriminante e importantissima), contro la sua politica interna e estera, e sta cominciando a mettere a fuoco lo stretto rapporto esistente tra l’attacco ai popoli del Medio Oriente e l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei proletari bianchi e immigrati.
La seconda caratteristica consiste nell’aver ormai consolidato una prassi di azione unitaria o almeno: di scesa in campo unitaria, tra le comunità islamiche e le organizzazioni autoctone nelle iniziative di protesta. Quello che nell’autunno 2002 poteva sembrare un semplice fuoco di paglia, si è rivelata invece una modalità possibile e necessaria di scendere in piazza (un processo del genere è favorito, specie a Londra, da una oramai ben consolidata presenza di lavoratori e di "comunità nazionali" di origine e cultura islamica). Spesso le cose prima si fanno e poi si capiscono: per molti manifestanti, andare in piazza insieme agli immigrati e alle comunità islamiche, agisce come momento di conoscenza, accorcia le distanze, smitizza almeno un po’ le diversità, indebolisce gli effetti dell’accanita propaganda razzista di regime. E la conoscenza nella lotta comune necessariamente fa emergere altre ragioni di unità, corrode almeno un po’ e per un po’ lo sciovinismo degli autoctoni, rafforza la volontà di lotta degli immigrati. Tutto questo non può essere senza conseguenze, ed infatti non lo è stato.
Di qui la terza caratteristica da tener presente: l’avvìo di una riflessione più profonda sulla natura della società capitalistica in cui si vive, e l’assunzione collettiva degli obiettivi dei singoli settori, come è stato fatto sulla questione dell’islamofobia, in un’ottica di rifiuto delle divisioni innaturali su cui la classe dominante di questa società ingrassa. Tutti passaggi necessari per dare vita, come noi pensiamo sia necessario fare, ad un fronte unitario di lotta dal basso tra popolazioni e lavoratori islamici e popolazioni e lavoratori europei. Il cammino da fare è lungo e complicato, ma almeno, a Londra, si è partiti.