Vicenza: come piegare il "sì" di Prodi e degli Usa

 

La manifestazione del 17 febbraio sarà massiccia. Questo è certo. Le dichiarazioni del governo e dell’opposizione le hanno,però, risposto in anticipo con la netta riconferma del “sì”. C’è, quindi, bisogno di far proseguire la mobilitazione dopo il 17 febbraio e di organizzare un vero e stabile movimento di lotta. Come? Su quale piattaforma?

È quello di cui discutiamo nell’articolo che segue.

 

Credevano che la nuova base sarebbe stata vista con favore o che i mugugni sarebbero rimasti silenziosi e impotenti. La Casa Bianca, l’amministrazione comunale del polo della libertà, il governo Prodi si sono, invece, dovuti ricredere. Una città tradizionalmente ben disposta verso le installazioni militari statunitensi e verso le “ragioni” della politica ufficiale si è scossa, ha detto “no”, ha fatto diventare un caso internazionale una decisione che i “signori” del “sì” intendevano far passare alla chetichella. Le ragioni di questo “miracolo”? La mobilitazione in prima persona della gente comune, l’iniziare ad occuparsi di politica da parte di chi, normalmente, ne delega l’esercizio alle istituzioni e ai partiti istituzionali.

Quanti passi in pochi mesi! Si è passati dall’incredulità alla scoperta dei danni ambientali, urbanistici e artistici prodotti dalla nuova base, dalla diffusa tradizionale passività politica alla costituzione di comitati di zona ed infine, dopo mesi di lavorìo capillare, alla partecipata manifestazione del 2 dicembre. Non solo. Davanti al “sì” di Prodi, la mobilitazione ha saputo rilanciarsi, anche contro le indicazioni dei propri partiti di appartenenza di “sinistra” e di destra, con il blocco della ferrovia, con la proposta di restituire i certificati elettorali e con la convocazione e la preparazione della manifestazione del 17 febbraio. E con ciò, ha sollecitato il “popolo della pace”, all’intera scala nazionale e non solo veneta, a scuotersi dalla paralisi in cui era scivolato e a smetterla di crogiolarsi nella menzognera equazione “governo Prodi = governo di pace”.

Tanto per dire quanto sia falso che la “gente semplice” non conti niente e che i veri artefici dei destini delle nazioni e del mondo siano coloro seduti nei piani alti delle istituzioni. È così quando si affidano le proprie “ragioni” a costoro, alla politica ufficiale, ai parlamentari. Non è affatto così quando si scende in campo in prima persona.

La sicura riuscita della manifestazione del 17 febbraio confermerà l’effetto a catena di questa dinamica di crescita e di allargamento della protesta. Ma sarà sufficiente questa iniziativa per piegare il “sì” di Prodi? Guardiamo in faccia alla realtà. Gli Stati Uniti, il governo Prodi, l’opposizione polista hanno già parlato anche in risposta alla manifestazione del 17 febbraio. Né ci si può illudere sulla possibilità di ribaltare la decisione con l’intervento nelle istituzioni dei parlamentari “critici”. Basta un’occhiata ai “numeri” dei “sì” e dei “no” in parlamento per capacitarsene.

Per quanto grande, la manifestazione del 17 non basterà (come non basterà la maggioranza schiacciante in un eventuale referendum consultivo) perché chi ha detto “sì”, come l’uomo del Monte, ha corposi interessi che lo spingono a farlo. Esser pervenuti alla consapevolezza che questi “interessi” non si preoccupano di calpestare la vita e il futuro della gente della città, è un passo importante. Ma non basta. Perché lo fanno? perché lo fanno a Vicenza? e perché lo fanno proprio ora?

Per dare continuità alla lotta oltre il 17 febbraio e per arrivare a vincere, c’è bisogno di affrontare queste domande cruciali. Alcuni elementi, a questo proposito, sono cominciati ad emergere nei mesi scorsi.

 

A cosa serve l’allestimento della nuova base Usa

 

Al Dal Molin dovrebbe essere di stanza la173-sima Airborne Brigade (oggi per metà già a Vicenza e per metà in Germania), “la più grande brigata aviotrasportata, capace di intervenire nello scacchiere mediorientale in poche ore, con una potenza di fuoco impressionante. Un progetto enorme, come enorme è lo stanziamento che gli Usa sono pronti a votare per la realizzazione della nuova base (300 milioni di dollari per cominciare nel 2007 fino al miliardo nel 2010)” (l’Unità, 22 settembre 2007).

Questo enorme spiegamento di mezzi è, quindi, parte dell’apparato militare che gli Usa stanno dispiegando per portare avanti la “guerra infinita” contro il mondo arabo-islamico. Che è tutt’altro che finita. La devastazione dell’Iraq è stato solo un primo passo. L’amministrazione statunitense non ha alcuna intenzione di fermarsi. La vittoria dei democratici nelle elezioni di novembre 2006 non segna alcuna retromarcia. La lotta contro la nuova base si trova davanti questo mostruoso potere militare.

Come possiamo fermarlo?

Riflettiamo sul febbraio-marzo 2003. In quei mesi, contro l’imminente aggressione all’Iraq, scesero in campo decine di milioni di persone in tutto il mondo, due miloni solo a Roma. Eppure gli Usa non si fermarono. Non sarà diverso con la nuova base di Vicenza. Per impedire realmente la costruzione della base al Dal Molin, c’è bisogno di molto di più. Perché a spingere avanti il militarismo a stelle e strisce non è solo la brama di arricchimento e di potere di un gruppo di petrolieri texano e delle imprese produttrici di armi. È “qualcosa” di ancor più potente: è l’intero sistema sociale capitalistico.

 

Il mandante del militarismo

 

Che sia questo il cuore della questione, lo si vede anche nelle ragioni del “sì” dato dal governo Prodi alla richiesta degli Usa. Questo “sì” non è dettato dal servilismo verso i padroni del mondo. Ma dalla volontà di sostenere la realizzazione dello scopo centrale del programma dell’Unione, il rilancio della competitività delle imprese italiane sul  mercato mondiale. Rilancio irrealizzabile, almeno per il momento, senza la copertura dell’apparato militare dell’Alleanza Atlantica e il potenziamento di esso, anche attraverso la base di Vicenza. E senza il parallelo tentativo di pesare di più come Italia entro questa più forte Alleanza attraverso una serie di iniziative in parziale contrasto con gli interessi e la politica degli Usa, come la missione militare in Libano.

Il “sì” alla nuova base di Vicenza e il “multilaterialismo” dalemiano sono atti coerenti tra loro, miranti alla realizzazione dello stesso programma di rilancio della potenza capitalistica italiana, su cui convengono tutti i componenti della maggioranza, anche i “critici” della sinistra più o meno “radicale”. Ha detto bene, in questo, Zanotelli: “Se vuoi alzare il pil, non c’è via di scampo, occorre far ricorso al militarismo...” Già, e questo spiega anche la determinazione con cui la Confindustria vicentina sostiene a spada tratta la costruzione della base al Dal Molin.

Il tornaconto dei padroni vicentini non sta solo e soltanto nei guadagni associati alla presenza di migliaia di militari statunitensi. Sta essenzialmente nel fatto che, ad esempio, due ingredienti vitali del successo delle loro esportazioni, l’importazione dall’Africa, dall’America Latina e dall’Asia di materie prime a prezzi stracciati e di manodopera a salari stracciati e zero diritti, non potrebbero esserci senza l’apparato di dominio militare comandato dagli Usa e al quale cooperano, ora in sintonia ora in concorrenza, le potenze capitalitiche europe.

 

I protagonisti della continuazione della lotta

 

L’analisi delle ragioni del multiforme fronte del “sì” non permette solo di comprenderne la forza ma anche di capire chi sono davvero coloro che hanno interesse a battersi contro di esso. I lavoratori immigrati, senza alcun dubbio, sono tra questi. I lavoratori immigrati, presenti così massicciamente a Vicenza e protagonisti nel 2002 di uno sciopero generale contro una delle articolazioni (rivolta sul “fronte interno”) della “guerra infinita”: la Bossi-Fini. La lotta contro il razzismo e contro il super-sfruttamento, che non può ridursi alla mobilitazione per la chiusura dei cpt, è parte integrante della lotta contro la nuova base vicentina.

Ma la costruzione di questa base al pari della spirale militarista di cui è parte, non conviene neanche ai lavoratori italiani. L’una e l’altra si riverberano anche contro questi ultimi. Sono uno strumento per oliare l’attacco alle loro condizioni di esistenza portato avanti da anni, con affondi e frenate, con schiaffi e blandizie, dal padronato e dai governi italiani, di centro-destra e di centro-sinistra o di salvezza nazionale.

Per questo è necessario che anche gli operai e i lavoratori siano coinvolti nella lotta contro la base militare. E che lo siano in modo non occasionale, con l’organizzazione di una campagna tesa a mostrare che –al di là della provvisoria collocazione dietro questo o quel partito dello schieramento parlamentare- i lavoratori sono uniti dallo stesso interesse a respingere la base e a non farsi ricattare dalla perdita di posti di lavoro nel sistema militare Usa in Italia implicato dal “no”. La lotta contro la base deve e può andare insieme a quella per il reintegro di questi ultimi.

Se si guarda agli interessi sociali, si vede altresì che c’è un altro soggetto a cui rivolgersi come protagonista della lotta contro la base vicentina: i militari statunitensi di stanza in Italia e in Europa.

 

Rivolgersi anche ai militari statunitensi

 

In America (così come in Israele) l’opposizione alla guerra ha ormai da tempo investito i reduci e anche coloro che sono tutt’ora al fronte.

Un solo esempio. In Iraq, dall’inizio della guerra sono morti oltre 3000 soldati statunitensi. Decine di migliaia sono i mutilati, i colpiti di cancro a causa dell’uranio impoverito e quelli scossi da traumi psichici. Coloro che hanno vissuto l’atrocità del fronte, che hanno visto contro chi combattono e capito che il motivo non è la difesa della democrazia, coloro che hanno cominciato a capire quali interessi reali muovono il proprio stato, stanno cominciando a scendere in campo contro la guerra. L’ultima volta è accaduto il 27 gennaio con una manifestazione di 100mila persone a Washington.

È per questo motivo che il nostro intervento va rivolto anche ai militari americani, spiegando loro le motivazioni che ci spingono in piazza a lottare contro la guerra e il militarismo, portando loro l’esempio dei loro commilitoni che hanno compreso che il proprio sacrificio non è servito al benessere della maggior parte dei loro connazionali né, tanto meno, a quello dei popoli occupati, sottolineando che è tempo di demarcarsi dall’azione criminale dei governi, degli stati maggiori e dei capitalisti occidentali.

 

Un salto di qualità

 

Altri nel mondo hanno iniziato a lottare contro la “guerra infinita” e il militarismo. Con loro va stabilito un collegamento. In Occidente, in prima fila sono i movimenti no war degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, anche di recente tornati in piazza contro i rispettivi governi. La lotta contro il militarismo di Bush e di Blair non ha, infatti, niente a che fare con la contrapposizione ai lavoratori degli Usa e della Gran Bretagna. A questo proposito, l’“alternativa” “anti-americanista” proposta dalla “sinistra radicale”, di una politica estera italiana pienamente europeista e concorrenziale con gli Usa sul suo stesso terreno, va rigettata: un indirizzo del genere, pur se promosso nel nome della pace e dell’opposizione alla potenza statunitense, servirebbe solo ai capitalisti europei per contendere agli Usa il dominio sul mondo; sarebbe un altro modo per mandare avanti l’aggressione ai popoli e ai diseredati del Sud del mondo e la corsa verso una nuova carneficina planetaria; richiederebbe un incremento delle spese militari da parte dei paesi europei almeno altrettanto consistente di quelli in corso, una non meno spinta militarizzazione del territorio e un non minore disciplinamento del lavoro e della vita sociale in Europa.

È vero che sono gli Stati Uniti a tenere in mano il bastone di comando della dittatura planetaria del capitalismo. Ma per lottare contro la politica degli Usa in modo efficace, occorre puntare ad indebolire e battere l’anello di questa catena di dominio che qui in Italia ci chiama direttamente in causa, quello costituito dalla potenza capitalistica italiana, dal suo militarismo, dal suo governo, dalla fame di profitti dei suoi imprenditori, dalle volpine modalità specifiche con cui essa partecipa al saccheggio dei popoli del Sud e dell’Est del mondo e alla spremitura del lavoro salariato mondiale. Il nemico principale è nel nostro paese!

Per questo motivo, il “no” alla nuova base al Dal Molin va allargato al “no” a tutte le basi militari, anche europee ed europeiste!, alla rivendicazione del ritiro immediato delle “nostre” truppe dall’Afghanistan, di tutti i contingenti occupanti il Sud e l’Est del mondo, dalla Bosnia alla Somalia. Per questo, va inserita nella piattaforma della mobilitazione l’opposizione alla missione militare italiana in Libano, missione neo-coloniale pur se ammantata della retorica della pace e dell’aiuto umanitario. E per questo stesso motivo, va data piena solidarietà alla resistenza dei popoli in lotta contro l’occupazione e la rapina neocoloniale in Iraq, Afghanistan, Libano, Palestina, Somalia, Nigeria, ecc.

Questi popoli stanno portando avanti la nostra stessa battaglia. Anch’essi sono stati presi alla gola, prima e più duramente di quanto non sia successo a Vicenza, dallo stesso meccanismo del capitalismo mondializzato. Le loro “Dal Molin” si chiamavano e si chiamano piano di ristrutturazione del debito estero, speculazione al ribasso sui prezzi dei minerali, offerta “disinteressata” di aiuti alimentari destinati a suscitare dipendenza e a mettere fuori mercato le produzioni locali, divieto di produzione di farmaci a prezzi inferiori a quelli stabiliti dalle multinazionali... Le bombe da accumulare al Dal Molin, con il loro carico di contaminazione nucleare per lo stesso territorio vicentino, sono dirette a piegare (sulla scia di quanto hanno fatto le sanzioni dell’Onu, i piani di pace internazionali, i “massacri nel deserto”, ecc.) i tanti “no” espressi dai popoli e dalle masse oppresse della “ex”-Jugoslavia, dell’Iraq, della Palestina, del Libano, dell’Afghanistan, di Cuba, della Somalia e (se non interverrà un movimento di lotta internazionale) dell’Iran.

Questo non comprendiamo ancora sufficientemente: la macchina da guerra permanente dell’Occidente la fermiamo insieme ai popoli aggrediti da essa, facendo nostra la loro battaglia, opponendoci con forza contro i nostri governi, oppure insieme ne saremo schiacciati.

4 febbraio 2007

 


Organizzazione Comunista Internazionalista