Un momento di transizione.
Per il centrosinistra, è la classica vittoria di Pirro.
Per i lavoratori, può essere perfino la premessa
di nuovi arretramenti, a meno che ...
Berlusconi ha lasciato palazzo Chigi. Alle presidenze del parlamento e della repubblica sono stati eletti esponenti del centro-sinistra provenienti dai sindacati e dall’ex-PCI. Prodi e l’Unione sono tornati al governo. Ma nonostante le apparenze, la svolta desiderata dalla parte più attiva della classe lavoratrice non c’è stata. Vediamo perché, e cosa bisogna fare per evitare che questa "vittoria elettorale" si trasformi, per i lavoratori, in un pericoloso (e duro) boomerang.
Fa nulla se ci si prenderà per dei guastafeste, anche se, a dir il vero, di feste in giro noi non ne vediamo tante. Ma proprio in quanto aspiriamo a fare una festa in grande stile al capitalismo ed ai suoi scherani della più varia coloritura, abbiamo tutto l’interesse a non raccontarcela. Al sodo: al di là della risicata maggioranza di seggi per l’Unione; al di là –un fatto per noi interessante, ma da dare per scontato dopo anni di lotte– dello spostamento a sinistra di un settore di giovani lavoratori; due sono i dati più rilevanti delle elezioni e del dopo-elezioni, e sono entrambi molto preoccupanti per i lavoratori: 1) la tenuta elettorale -e sociale- di Forza Italia e del Polo; 2) l’immediato diktat inviato al governo Prodi ancor prima che vedesse la luce dai "poteri forti" nazionali e internazionali.
La tenuta elettorale e sociale del Polo
Pur se perde quasi due milioni di voti, soprattutto proletari, il partito di Berlusconi resta, infatti, il primo partito del paese, soprattutto nelle regioni cruciali sul piano produttivo. A conferma di quello che da anni sosteniamo. E cioè che, al contrario delle rappresentazioni correnti a sinistra, Berlusconi non è stato e non è affatto il semplice rappresentante dei propri personali interessi: oggi più di ieri è, come rivendica di essere, il capo politico di una "metà della società italiana". E anzitutto di quei ceti medi accumulativi, quella miriade di piccoli e medi imprenditori agricoli, industriali e del terziario, artigiani, bottegai, liberi professionisti, agenti di borsa, assicuratori, rappresentanti di commercio, etc., che per il loro numero incredibilmente grande costituiscono un’autentica anomalìa italiana rispetto ad altri paesi occidentali (negli Stati Uniti o in Germania il lavoro "autonomo" raggiunge a stento il 10% dell’intera forza-lavoro, in Italia sfiora il 30%).
Negli ultimi anni questo "blocco sociale" ha mietuto profitti su profitti grazie al supersfruttamento della manodopera immigrata, all’intensificazione e all’allungamento del tempo di lavoro imposti anche ai lavoratori italiani, alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, all’aumento dei prezzi al consumo e delle tariffe, ad una politica fiscale governativa che ha ridotto il carico fiscale sulle classi sfruttatrici e parassitarie e l’ha aumentato sui lavoratori, alle fortunate (e protette) speculazioni borsistiche. La sua spina dorsale, la rete dei piccoli e medi industriali del Nord, sa che questa pacchia potrà continuare solo se sarà mantenuta e incrementata la torchiatura del lavoro, se sarà mantenuta e incrementata una distribuzione della ricchezza sociale sempre più polarizzata.
È per questo che essa si è affidata plebiscitariamente al Cavaliere che l’ha potuta trascinare a sé agitando abilmente gli spauracchi di un più alto prelievo fiscale, di una maggior tassazione dei bot, e attizzando il suo scontento, la sua rabbia nei confronti della sinistra e dei sindacati "innamorati delle tasse", dello stato "estorsore", ma anche verso le loro stesse associazioni di categoria che, a partire dalla Confindustria, sarebbero, a suo dire, conniventi con la sinistra e con i sindacati. Meno tasse, meno stato (=meno welfare), meno rigidità sindacali, più impresa, più flessibilità del lavoro, massima tutela per la proprietà, con il vecchio e sempre nuovo anti-comunismo, come collante di tutto: è stata questa aggressiva impostazione di impronta fortemente liberista e anti-proletaria, a rianimare il nocciolo duro del centro-destra alla vigilia di una sconfitta data da quasi tutti per certa, a recuperare l’astensione registrata nelle ultime elezioni amministrative tra i settori più deboli del lavoro autonomo e della piccola imprenditoria, e a far uscire il Cavaliere dalla campagna elettorale più forte di come vi era (piuttosto malconcio) entrato. E non solo lui: il Polo, dopotutto, ha avuto nel suo insieme 19 milioni di voti, quasi 400.000 in più che nel 2001…
Montezemolo&C. vanno all’incasso.
Veniamo al secondo dato preoccupante. Non è un mistero che i "poteri forti" interni, la Confindustria di Montezemolo in testa, hanno tifato e operato per la sconfitta elettorale di Berlusconi, avvantaggiando in modo oggettivo e intenzionale il centro-sinistra. Ebbene, costoro, ad urne ancora aperte, son passati all’incasso. Coperti dal fuoco incrociato del Wall Street Journal, dell’Economist, del Financial Times, dei rapporti sullo stato dell’Italia del Fmi, dell’Unione europea e finanche dell’Opec, i grandi potentati capitalistici hanno cominciato ad incalzare Prodi per sollecitarlo, con l’aiuto della stessa destra o delle sue ali moderate, ad applicare senza alcun rinvio il promesso "risanamento del paese".
Il Professore è richiamato a stringere la mordacchia ai "radicalismi" (?) ed ai "massimalismi" (?) presenti nel suo campo, identificati non tanto in Rifondazione, Pdci, ecc., quanto soprattutto nella Cgil, ed in particolare nella, peraltro assai sommessa, presa di posizione di Epifani contro la legge Biagi. Di abolirla o anche solo di modificarla non se ne deve assolutamente parlare. Si tratta, anzi, di andare ulteriormente avanti nella direzione della precarizzazione della forza-lavoro, perché il rilancio dell’Italia come potenza capitalistica non può che essere fondato sulla più scientifica spremitura dei lavoratori e sulla loro irregimentazione nei posti di lavoro. Sull’ultimo numero di Limes c’è scritto in chiaro: una delle palle al piede delle aziende italiane è "un mercato del lavoro dove l’eccesso di garanzie e protezioni per pochi impedisce che più della metà della forza lavoro oggi abbia accesso ad un mercato regolato e in qualche modo tutelato, e dove il sindacato, non tenendo conto del cambiamento dei sistemi organizzativi dell’impresa e delle nuove tecnologie applicate, insiste nel privilegiare un rapporto di lavoro ad alto contenuto assicurativo con relazioni industriali fortemente conflittuali ad uno caratterizzato da flessibilità salariale con partecipazione dei lavoratori ai risultati d’impresa" (pp. 47-48).
Lasciamo stare la questione se esista o no la capacità dei settori dirigenti del capitalismo italiano e dell’apparato statale e politico italiano di guidare, con un colpo di reni, l’inversione del declino in corso da anni dell’Italia. Di sicuro costoro intendono provarci, non possono non provarci, debbono assolutamente provarci. Stiamo parlando anzitutto dei vertici della classe capitalistica nostrana, all’oggi "pro-unionisti" (e pro-Casini). Queste forze, a cominciare da Montezemolo e dal pugno di imprese e di banche italiane ancora in lizza per un ruolo di primo piano sul mercato finanziario europeo e mondiale, sono entrate in collisione con Berlusconi non certo perché il suo governo abbia introdotto la legge Biagi o la Bossi-Fini, o sia intervenuto inopportunamente in Afghanistan o in Iraq. Ma perché gli imputano di avere curato più gli interessi capitalistici di specifici settori protetti all’interno del recinto nazionale che quelli complessivi dell’azienda-Italia, di essersi occupato poco o nulla delle aziende direttamente impegnate nella competizione internazionale. Gli imputano, poi, di avere causato l’accensione di conflitti sociali e sindacali prevenibili con una più accorta regìa di concertazione-immobilizzazione dei sindacati; di aver ritardato la razionalizzazione della pubblica amministrazione; e di aver dato briglia sciolta alla dispersione dei profitti e delle rendite intascate dai vari Gnutti, Fiorani, Ricucci piuttosto che favorirne l’accentramento nelle mani dei settori decisivi del capitale finanziario italiano.
Dopo aver puntato sulle ali moderate dei due poli ed essersi adoperati per la vittoria di stretta misura del centro-sinistra (cosa puntualmente accaduta attraverso la "libera" volontà dei cittadini!), i "poteri forti" pretendono ora dal governo Prodi che svolga una più attenta azione istituzionale globale per la tutela degli interessi del "Paese", che smini le attese di recupero nel frattempo maturate tra i lavoratori (anche se, all’immediato, qualche euro in più per gli operai può esserci –vedi integrativo Fiat) e lavori a un maggior coinvolgimento popolare nella politica estera muscolare richiesta dalla tutela dei "nostri interessi nazionali" nel mondo.
Per Montezemolo&C. la consegna del governo del paese al centro-sinistra non è la soluzione idealmente ottimale. Ma al momento essi sono costretti ad acconsentire ad una fase di "concertazione" con le organizzazioni sindacali (per imporre comunque, anche se in dosi provvisoriamente diluite, le loro scelte!) perché non hanno ancora avuto la forza di organizzare un consenso e una mobilitazione sociali e politici di massa in grado di mettere nell’angolo gli sfruttati, e perché hanno bisogno, in un certo senso, del concorso del proletariato per centralizzare al proprio "disegno", per mezzo di un po’ di sberle, gli stessi ceti medi rampanti, ridimensionati. Per loro l’avvento di questo centro-sinistra è una soluzione del tutto provvisoria e di breve respiro. Ad altre formazioni dovrà passare, tra non molto, il pallino per un nuovo affondo anti-proletario. L’avvertono i consiglieri più aggressivi del Berluska, che lo stanno sollecitando a metter mano subito a quel "partito unico nazional-conservatore" vero (non mediatico, com’è Fi), ben organizzato sul territorio, coeso (non un’accolita di camarille), capace di catalizzare "l’entusiasmo rinato in questa competizione elettorale", quel partito unico del "blocco sociale" anti-proletario che ora non c’è, e la cui mancanza è stata ed è il tallone d’Achille del Polo. Sia in grado o no il Cavaliere di realizzare una simile impresa politica -a noi non sembra facile, in verità-, la campana dell’ultimo giro è suonata anche per questo Polo.
E i "vincitori" delle elezioni che fanno?
Si preparano a governare "a lungo", risponde Fortunello-Prodi. Se davvero a lungo, lo si vedrà piuttosto presto. Il problema è: su quale linea? assecondando quali aspettative? quelle della base elettorale profonda del centro-sinistra, costituita pur sempre dalla parte più combattiva del mondo del lavoro? o quelle degli sponsor confindustriali e dei potentati finanziari internazionali? I primi passi della neo-maggioranza già dovrebbero dare materia utile di riflessione ai lavoratori.
Come prima cosa, infatti, Prodi e molti dirigenti dei Ds stanno accelerando verso la costituzione di un partito democratico all’americana per liquidare definitivamente quel tanto (davvero poco) di riferimento agli interessi immediati dei lavoratori che ancora sopravvive nel partito di D’Alema, e per ridurre ulteriormente nella coalizione il peso di Rifondazione, del Pdci e dei Verdi, che nel loro insieme hanno ottenuto un risultato elettorale di rilievo (11-12%). In secondo luogo, nel governo che sta per nascere (oggi è il 14 maggio) è stato deciso da tempo (da chi? dai "sovrani" elettori?) che il ministero-chiave dell’economia andrà ad uno dei "tecnici" legati a triplo filo a quei "mercati internazionali", i quali scalpitano perché in tutta Europa ci sia subito un affondo assai più deciso contro il lavoro salariato. In terzo luogo è palese che i capi del centro-sinistra, Prodi in testa, stanno tessendo manovre trasversali di ogni tipo onde assicurarsi, all’occorrenza, il sostegno delle forze di destra: emblematica l’offerta a Letta di "ripulire" quel mondo del calcio del cui inquinamento in senso ultra-affaristico proprio Berluska è stato tra i massimi promotori. (Ammesso e non concesso, si capisce, che prima dell’avvento del "cavaliere rossonero" il calcio fosse qualcosa di pulito, cioè di non sottoposto al dominio del denaro.)
Né migliori auspici vengono dalla "sinistra radicale", preventivamente subordinatasi a Prodi con un patto che non ammette deroghe. Bertinotti, che con l’esclusione di Ferrando aveva dimostrato la sua fermezza nel disciplinare (proprio lui, il "libertario" per antonomasia…) tutta Rifondazione agli imperativi di una politica nazionalista e filo-atlantica, annuncia ai suoi che non ci potrà essere alcuna rottura (come nel 1998) del patto stretto con l’Unione neppure sulla politica interna, ed è stato piazzato, e si è voluto piazzare, alla testa della Camera per meglio sacralizzare la fedeltà governista della propria formazione politica. Da parte loro il Pdci e i Verdi, risultati nella contesa elettorale talvolta più "radicali" di Rifondazione, già ai tempi del "pacchetto Treu" e della guerra alla "ex"-Jugoslavia dimostrarono di che pasta è fatta la loro "radicalità" e il loro "pacifismo"…
Insomma, sebbene nelle elezioni Berlusconi abbia subìto una parziale battuta d’arresto per effetto delle lotte degli ultimi anni (da Genova 2001 all’ultima vertenza contrattuale dei metalmeccanici), non ci si può aspettare alcuna "svolta a sinistra" nella politica italiana. Né sul piano interno, né, tanto meno, su quello della politica internazionale (rimasta non a caso del tutto fuori dalla "contesa" delle ultime elezioni). Anzi! Potrà esserci, forse, un qualche provvedimento contro le forme più estreme di precarietà; potrà esserci, forse, un minimo di alleggerimento del carico fiscale su chi lavora (in un quadro, però, in cui l’alleggerimento per le imprese sarà di entità ben maggiore); ma il governo Prodi si muoverà, nell’insieme, su una linea di sostanziale continuità rispetto agli anni del berlusconismo. Nelle sue dichiarazioni da leader della coalizione, del resto, Prodi non si è permesso ambiguità. La legge Biagi non sarà abrogata. La legge Bossi-Fini sull’immigrazione neppure. La Bolkestein non sarà contrastata, verrà anzi fedelmente applicata. La Tav e le "grandi opere" tipo Mose andranno avanti. Il primato del risanamento dei conti pubblici -a spese dei lavoratori- sarà rispettato più che sotto lo "scialacquatore" Berlusconi. L’Italia sarà coinvolta in prima persona nei nuovi attacchi al mondo arabo-islamico (vedi Iran) e ai popoli jugoslavi (vedi la secessione alle porte di Kosovo e Montenegro), e così via.
D’altronde la situazione internazionale, che comanda quella "interna", non lascia grandi margini di manovra ad una forza come il centro-sinistra, che ha fatto interamente proprie le leggi dell’economia di mercato. Non ha torto il Financial Times quando prospetta, per l’Italia in declino, un avvenire non troppo lontano di decisioni drammatiche e, anche, di sconvolgimenti politici, con la nascita di nuove forze aggressivamente nazionaliste e, insieme, populiste. Anche noi lo prevediamo da tempo. L’attuale situazione e le attuali rappresentanze, sia del capitale che del proletariato, sono del tutto transitorie. Ma, appunto per questo, il governo-travicello Prodi-D’Alema dovrà assumere a sua stella polare la crescita della competitività delle imprese e la riduzione del debito pubblico con tutto ciò che comportano, e non potrà, perciò, non deludere le attese di chi lo ha visto come il governo con cui si sarebbe potuto voltare pagina.
Per voltare davvero pagina!
Perché si possa davvero voltare pagina, è necessario che i lavoratori e i giovani che molto hanno puntato sulla possibilità di mandare a casa Berlusconi attraverso le urne, e sono ora preoccupati e anche delusi dall’esito elettorale, riprendano a mobilitarsi in forze e con maggiore autonomia dal quadro politico borghese. Mettere davvero fine all’"era berlusconiana" è possibile, ma non per via elettorale, così come non è stato per via elettorale che essa è nata, bensì per dei sommovimenti molto più profondi nel "cuore" dell’economia mondiale e delle classi dominanti e parassitarie della società italiana.
Nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, invece, i dirigenti del centro-sinistra e sindacali fanno camminare il seguente messaggio: "sia pur di poco, abbiamo comunque vinto; ora lasciateci lavorare, lasciate lavorare il nuovo governo, già ci pensa la destra a mettergli i bastoni tra le ruote, non mettiamoci anche noi". In conseguenza dell’educazione politica sedimentatasi nell’epoca delle "vacche grasse per tutti", è purtroppo inevitabile che il senso di preoccupazione oggi dominante tra i lavoratori che hanno sostenuto il centro-sinistra si traduca in un atteggiamento di attesa, in una sorta di sospensione del giudizio. Il rischio, corposo, è che una simile attitudine lasci spazio ad un senso di impotenza ("in ogni caso noi lavoratori non possiamo contare nelle grandi decisioni politiche"), o addirittura che il disincanto verso la politica del nuovo governo possa dare il via libera ad un sostegno di sezioni di massa del mondo del lavoro ad un’improvvisa svolta a destra di stampo populistico e reazionario, imposta alla classe dei capitalisti dagli "smottamenti" della situazione internazionale, di cui incerta è solo la tempistica. Per adesso, a condurre la sperimentazione in questo senso tra la "gente semplice", sotto la benevola protezione delle alte sfere, sono formazioni politiche "anti-sistemiche" e marginali, come i secessionisti della Lega, Forza Nuova o Fiamma Tricolore, ma domani…
In questa situazione i lavoratori più lungimiranti e determinati nella difesa degli interessi proletari sono chiamati a prendere atto lucidamente dello stato delle cose per quello che è. Ad aprire bene gli occhi dinanzi ai pericoli incombenti. A chiarire in modo sistematico tra la massa dei lavoratori qual è la posta in gioco nello scontro politico in Italia e internazionalmente. A organizzare pazientemente la ripresa della lotta di massa su scala più ampia di quanto non sia accaduto negli anni scorsi. A legare la difesa delle condizioni immediate e l’opposizione organizzata di piazza alle "scelte" di politica estera del nuovo governo. Una simile battaglia politica, che inevitabilmente partirà da una posizione di iniziale isolamento, richiede sin d’ora l’impegno improcastinabile a mettere all’ordine del giorno la costituzione di una vera organizzazione politica dei lavoratori, di un autentico partito di classe, che operi per riunificare, nella lotta e per la lotta, i vari "spezzoni" della classe proletaria per far valere, su questa base, gli interessi della "maggioranza" della società nei rapporti politici generali tra le classi.
Questo impegno non ha nulla a che fare, ovviamente, con la creazione di un unico contenitore elettorale -ultraborghese- sul tipo del partito democratico e con la conquista elettorale della maggioranza. Cosa sia per i lavoratori il "partito unico democratico" tanto caro a Fassino e Prodi possiamo vederlo negli Stati Uniti. Quanto poi alla conquista della maggioranza elettorale su un programma di difesa degli interessi di classe, essa è semplicemente impossibile: lo mostra l’esperienza plurisecolare del movimento operaio e comunista. Questa impossibilità dipende dalla struttura stessa della società capitalistica e dalle oramai consolidatissime regole delle competizioni elettorali democratiche.
Per il proletariato la sola "conquista della maggioranza" possibile è quella realizzabile sul piano della lotta anti-capitalistica. Esso ha dalla sua la forza che gli deriva dall’essere il pilastro della società, che, se messa in campo attorno ad un programma e un’organizzazioni autonomi dal capitalismo, è in grado di magnetizzare a sé la larga maggioranza dei lavoratori salariati, ma anche delle figure "autonome" strozzate dal dominio del capitale finanziario. Ma questo può avvenire solo se i lavoratori, invece che silenti e acquiescenti, si mostreranno forti e decisi ad affermare le proprie necessità, rifiutando di sottomettersi ai vincoli soffocanti delle compatibilità capitalistiche, delle leggi del mercato, del primato degli interessi nazionali e occidentali, e di quelle "regole" borghesi di cui il centro-sinistra ha fatto un feticcio. È ovvio che al momento non è in gioco la nascita di un "governo dei lavoratori", del potere rivoluzionario di classe: ma il compito immediato all’ordine del giorno, che è quello di difendersi in modo pronto ed efficace dai colpi che il (presunto) "governo amico" si prepara ad infliggerci, potrà essere assolto solo ponendoci su questo tracciato.