Stati Uniti:

lo splendido primo maggio degli immigrati

È sempre meglio non eccedere con le parole grosse. Ma per il primo maggio 2006 degli immigrati negli Stati Uniti il termine storico, se ben inteso, non ci sembra esagerato. Perché, come Laura Corradi ha scritto dalla California, epicentro della lotta, "da cento anni non succedeva una mobilitazione di questa portata". E perché "il tipo di chiamata non ha precedenti nella storia: per la prima volta nel Mayday statunitense si coniugano sciopero generale dei lavoratori, agitazione degli studenti, no-shopping day, serrata dei negozianti e mobilitazione nazionale dei migranti da costa a costa. Mentre nel vicino Messico - cortile di casa per le scorribande finanziarie del grande fratello - verranno boicottati tutti i prodotti targati Usa". Questa protesta, coordinata da più di 500 organismi di base ed organizzazioni, che ha visto l’adesione di milioni di persone dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest, un fenomeno rarissimo nella vicenda della lotta di classe in questo paese, aveva al suo centro la richiesta della regolarizzazione e della cittadinanza per tutti i lavoratori immigrati negli Stati Uniti, in particolare per i cosiddetti "clandestini", ma è stata anche l’occasione per una vibrante denuncia del Nafta e degli altri accordi neoliberisti che, provocando la rovina dei paesi dominati, alimentano il movimento migratorio dai continenti di colore verso la metropoli statunitense.

I più attivi nell’organizzazione delle manifestazioni del 1° maggio sono stati senz’altro i messicani, sostenuti anche da dimostrazioni di solidarietà in America Latina, ma ad essi "si sono uniti anche altri popoli sudamericani e le organizzazioni musulmane hanno lanciato appelli per una massiccia partecipazione al Mayday a partire dall’assunto che «Il messaggio dell’Islam è quello della giustizia sociale, dell’equità economica, dell’onesto trattamento nei posti di lavoro». Le chiese, i sindacati, perfino le associazioni di commercio hanno aderito alla chiamata per il Mayday". E finanche dei "grossi squali come la Tyson Foods Inc. (le macellerie industriali più grandi del mondo) e la Cargill (contro cui si sono mobilitati i contadini dell’India) hanno deciso di dare il giorno libero ai propri lavoratori «per far vedere che i datori di lavoro sono solidali con le maestranze» - ben sapendo che per la prima volta durante questo Mayday nessuno sarebbe andato a lavorare". Insomma, uno sciopero nazionale, sia pure parziale, riuscitissimo (si ricordi che negli Stati Uniti il primo maggio non è una festività, bensì un normale giorno di lavoro) ed un insieme di dimostrazioni di piazza "popolari" altrettanto ben riuscite, fortemente partecipate, calde, con un senso collettivo più intenso di quello delle manifestazioni no war.

La scintilla

La scintilla è scoccata alcuni mesi fa (a dicembre) con l’approvazione da parte della Camera del cosiddetto Sensenbrenner Bill che istituisce il reato di permanenza senza documenti negli Stati Uniti e punisce chiunque aiuti gli immigrati in condizioni di irregolarità, un progetto di legge da qualche tempo all’esame del Senato. Non c’è unanimità, nello stesso partito repubblicano, cui il suddetto signore appartiene, su una politica del genere, o sulle misure ancora più drastiche reclamate da formazioni "cristiano-razziste" quali quelle che fanno capo ai Falwell, ai P. Robertson, ai Dobson, ai Tancredo e alle squadracce para-militari sul tipo dei Minutemen, impegnate in armi nel pattugliamento del confine con il Messico. Lo stesso Bush, preoccupato degli esiti negativi che un eccesso di tensioni con gli immigrati latinos, potrebbe provocare nelle relazioni già così complicate con le popolazioni del Sud America, suggerisce di affiancare alle misure repressive alcune misure più o meno cosmetiche "di sostegno" (compassionevole) ai "lavoratori ospiti" (ormai così vengono denominati gli immigrati con un richiamo letterale, non sappiamo se involontario, alla categorizzazione in auge nel Terzo Reich hitleriano, che prevedeva cittadini del Reich, individui appartenenti al Reich e, infine, elementi "ospiti" del Reich stesso). Vi è, poi, una posizione bipartizan Kennedy-McCain che contempla "perfino" la possibilità di regolarizzare una quota degli immigrati "clandestini", a condizione che essi non siano una minaccia per la sicurezza del paese, abbiano pagato fior di tasse per un congruo numero di anni e siano in grado di passare gli esami di educazione civica (sulla applicazione dei "diritti umani", immaginiamo) e di inglese. Una posizione più accorta e volta a dividere e stratificare le masse degli immigrati di quella del boia Sensenbrenner o del suo sodale Schwarzenegger, ma che ha pur sempre in comune con essa la logica di fondo anti-immigrati, la lepeniana presentazione degli immigrati come "pericolosi invasori", a cui comunque rispondere con l’analisi politica del loro "sangue" e, se non con l’erezione di ulteriori muri fisici, certamente con l’ulteriore militarizzazione dei confini (cosa su cui sono d’accordo pure il liberal Kennedy e l’"eroe del Vietnam" McCain, come costui viene disgustosamente gratificato).

Diversi e contraddittorii progetti, ma accomunati dalla tendenza a rivedere in peggio le attuali prassi e l’attuale legislazione sull’immigrazione, e dalla volontà di additare in particolare i chicanos come una sorta di corpo estraneo alla nazione a stellestrisce, sia in quanto, è Huntington ad assicurarlo, estraneo alla dura "etica del lavoro" anglosassone, sia perché portatore di uno spirito "revanscista" nei confronti del vecchio e odiato "zio Sam", e che va perciò trattata con la rudezza che merita. La massa degli immigrati senza documenti (la gran parte, appunto, sud-americani) ha ben percepito la sostanziale convergenza di questi diversificati progetti, e non a caso non ha occhieggiato a nessuno di essi come al meno peggio, ma ha saputo avanzare con decisione le proprie necessità. Per lo meno quelle più immediate.

Lavoratori immigrati e lavoratori autoctoni

 

Bisogna notare che pure la direzione dell’AFL-CIO, così come, per quanto ci è dato sapere, anche gli "scissionisti" da essa, ha compreso bene -lo si può constatare dal testo che pubblichiamo qui accanto- che la politica migratoria attuale, ovvero la produzione istituzionale di "clandestinità" da parte delle imprese e del governo, e tanto più quella che si sta fucinando nel Congresso, rappresenta un attacco a fondo alla condizione lavorativa e alle "garanzie" degli stessi proletari statunitensi. Il mercato del lavoro, infatti, è un sistema di vasi comunicanti, e ciò che viene oggi "sperimentato" sulla pelle degli immigrati non resterà di sicuro confinato a loro. Senza dubbio: lasciar passare la segmentazione in due del campo del lavoro salariato sarebbe il disastro anche per i più d.o.c. tra i lavoratori statunitensi, magari non immediatamente per tutti, ma alla distanza sì, per la massa di essi. È davvero significativo, perciò, che il sindacato statunitense sia entrato nella organizzazione della protesta, aprendo le proprie sedi alla lotta e ai comitati degli immigrati certamente molto più, e con maggior convinzione, di quanto non accada qui da noi, dove anzi si è guardato, anche da parte degli ambienti sindacali più militanti e della "estrema sinistra", con una sovrana indifferenza o sufficienza a questo magnifico moto di protesta. Come è significativo che il sindacato statunitense debba, se non altro, indicare le istituzioni del capitale finanziario internazionale (in larga misura dirette proprio dall’imperialismo yankee) quali responsabili della rovina dei paesi "terzi", e debba, se non altro, dire che nessuna reale soluzione della coazione a migrare e del dramma migratorio potrà darsi senza l’innalzamento del tenore di vita dei lavoratori sfruttati nei paesi soggiogati da –diciamo noi- l’imperialismo. Tanto più significativo, quanto più modesta è stata la partecipazione dei lavoratori bianchi autoctoni al primo maggio "dei colorati", e quanto più lontani da esso si sono mantenuti i cosiddetti progressisti. Come ha osservato Sonali Kolhaktar, redattrice arabo-indiana della Pacifica Radio di Los Angeles, "c’è del razzismo tra i progressisti. A livello nazionale, la maggior parte degli attivisti progressisti non ha considerato la questione dell’immigrazione degna del proprio attivismo. E fino a tempi molto recenti i media alternativi non hanno dato adeguato rilievo e copertura all’immigrazione"; questo perché c’è in essi e negli ambienti liberal un "pregiudizio negativo" nei confronti degli immigrati, in specie nei confronti degli "irregolari" (ne sappiamo qualcosina anche qui da noi…).

Non potranno essere le attuali direzioni delle due centrali sindacali concorrenti a dare una coerente soluzione di classe, internazionalista al "problema-immigrazione", imperniata sulla lotta senza quartiere all’imperialismo, sulla solidarietà incondizionata agli sfruttati e ai popoli del Sud del mondo, su una politica e una pratica di completa parità tra lavoratori autoctoni e immigrati. Non lo potranno perché non hanno rinunciato, non possono rinunciare alla pretesa (impossibile) di mettere insieme la difesa degli sfruttati e la difesa della "propria nazione" (iper-sfruttatrice), ma è già un dato di fatto di grande importanza che i bisogni, le attese, il protagonismo dei lavoratori immigrati -di entrambi i sessi!- abbiano oramai conquistato un posto centrale, oltre che sulla "scena pubblica", nella stessa riorganizzazione militante e dal basso del sindacato negli Stati Uniti.

Le contraddizioni da risolvere

 

"Nessuno si sarebbe potuto aspettare che nell’era post-11 settembre intrisa di xenofobia e di paura gli immigrati potessero organizzarsi in un modo così coraggioso e clamorosamente visibile. A dispetto delle molte questioni che incombono sul futuro del movimento, una cosa è certa: il nuovo movimento degli immigrati preannuncia la possibilità di un cambiamento politico di grande portata negli Stati Uniti d’America" (è ancora Sonali Kolhatkar a parlare). D’accordo. E d’accordo anche nella rilevazione delle principali contraddizioni che esso ha davanti a sé.

La prima è costituita dalla rivendicazione di "essere noi l’America", di essere americani, ancorché non riconosciuti e ripudiati dall’America ufficiale, così insistentemente sottolineata dalla quantità di patriottiche bandiere esibite. Una orgogliosa rivendicazione del proprio contributo all’economia e alla società statunitense più che comprensibile dinanzi a una tale campagna iper-razzista, ma che non potrà non fare i conti, prima o poi, con il fatto che "la bandiera statunitense è un simbolo di colonialismo, di oppressione, di cieco nazionalismo e di spirito guerrafondaio".

La seconda è data dal carattere solo latino-americano o realmente globale, capace di affasciare tutti gli immigrati "di colore", del movimento di lotta e dal suo rapporto, oggi tutt’altro che sviluppato, con la massa dei neri statunitensi, oggetto di una oculata azione propagandistica anti-latinos e che si sentono oggettivamente minacciati da questi "pericolosi concorrenti" nuovi venuti.

La terza sta nell’alternativa tra un’organizzazione centrata "all’americana" su una leadership a base individuale ed individualista di "personaggi" oppure, come i primi passi lasciano sperare, su una autonoma e reale auto-organizzazione di massa.

Contraddizioni aperte, come quella del necessario rapporto da istituire con il movimento contro la guerra. Aperte ma non certo insolubili.