Roma, Pomigliano, Milano, Pisa ...
repressione e lotta contro la repressione
Il 10 maggio a Roma, con un impiego massiccio di uomini e mezzi (centinaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri e decine di blindati e furgoni), è stato sgomberato un edificio in disuso da tempo e occupato nello scorso dicembre da una ventina di famiglie immigrate. Nello stabile, inoltre, stavano allestendo le loro sedi alcune delle associazioni dei lavoratori immigrati che maggiormente in questi anni sono state impegnate sul terreno delle lotte e delle mobilitazioni.
Pochi mesi fa, alla Fiat di Pomigliano, otto operai appartenenti allo Slai-Cobas sono stati licenziati a causa della loro attività sindacale. Uguale sorte è toccata nelle ferrovie ad un macchinista che si è pubblicamente (e giustamente) rifiutato di guidare una motrice priva delle adeguate misure di sicurezza.
Ad aprile un compagno di Torino e una compagna di Milano sono stati arrestati nell’ambito dell’inchiesta sulla manifestazione contro la Fiamma tricolore di Milano dell’11 marzo (inchiesta che vede peraltro già detenuti altri manifestanti di quel giorno). A Pisa lo stesso trattamento è stato riservato a dieci compagni accusati (sulla base della "libera interpretazione" di alcune intercettazioni ambientali) di associazione sovversiva e di presunti "reati specifici" quali, ad esempio, il danneggiamento di una vetrina della multinazionale del lavoro interinale Adecco.
Segnali generali da cogliere
Cinque episodi (se ne potrebbero citare molti altri), anche diversi tra di loro, che debbono indurci, oltre che ad esprimere la nostra piena solidarietà ai colpiti, a sviluppare un ragionamento ed una valutazione più generale. Certo, fatti come quelli sopra riportati in realtà sono "sempre" accaduti, anzi è successo di molto peggio. La, per così dire, "novità" consiste nel contesto generale in cui tali accadimenti si stanno dando e nel come in questi ultimi anni si sta (o non si sta) reagendo di fronte ad essi.Gli anni ’60 e ’70 furono segnati e attraversati da una profonda e vasta ondata di lotte grazie alle quali il movimento operaio riuscì strappare tutta una serie di "conquiste" salariali e giuridiche. Il prezzo che in termini repressivi si dovette pagare fu alto. Al confronto le cose che accadono oggi possono anche apparire come delle semplici e circoscritte punture di spillo riguardanti solo "piccoli e marginali" settori della società. Se ci si limita ad una fotografia statica ed asettica della situazione, chiusa nel nostro perimetro nazionale o –peggio ancora- di milieu, allora non si può che essere d’accordo con una simile visione; anzi, si può anche essere indotti a percepire (cosa che all’oggi accade in ampi strati di lavoratori) il costante potenziamento dei corpi di polizia come un qualcosa che nulla ha a che fare con il conflitto sociale, ma che ha invece una sua utilità nel proteggere l’insieme dei cittadini (il banchiere quanto il precario, l’imprenditore quanto l’operaio). Dove stanno, infatti, le cariche contro i cortei operai, tipo quelle della polizia di Scelba degli anni ’50 e dei primi anni ’60? dove si hanno casi di licenziamenti di massa punitivi? Gli stessi fatti di Genova a luglio 2001 sono stati interpretati in questa ottica più come frutto dell’arroganza dell’allora appena insediato governo Berlusconi che come un qualcosa di più strutturale.
Tutto a posto, dunque? I fenomeni ed i casi di repressione statale contro il movimento dei lavoratori e contro le "avanguardie" sono per davvero destinati a divenire sempre più sporadici ed occasionali?
Assolutamente no!
La direzione in cui, al di là di ogni apparenza, si sta andando è esattamente opposta. Se dalla fotografia statica si passa ad analizzare il contesto complessivo e dinamico della situazione sociale, politica ed economica internazionale, allora quelli che appaiono semplici e molto circoscritti "episodi" diventano dei segnali che, se colti, ci dicono come e quanto la macchina repressiva dello stato (qui da noi, come in tutto l’Occidente) si stia sempre più attrezzando e preparando proprio per prevenire e fronteggiare ogni possibile ripresa della conflittualità proletaria.
Negli anni ’60 il ciclo economico internazionale permetteva che in Italia ed in Europa il capitalismo, sia pur mal volentieri, fosse in grado di "tollerare" una serie di rivendicazioni operaie. Lo scontro era duro, ma, contestualmente, vi erano "margini di soluzione" relativamente consistenti. Oggi (e da tempo) la situazione è capovolta. Sotto la spinta della accresciuta concorrenza internazionale le concessioni strappate "in quegli anni" sono state in parte spazzate via e in parte sono sotto continuo attacco, mentre, sul versante "estero", l’Italia, con i suoi soci occidentali, è pienamente e stabilmente partecipe di quella guerra permanente contro i popoli del Sud del mondo di cui già si intravvede un allargamento ed un approfondimento ben oltre i confini iracheni ed afghani.
È in questo contesto che vanno letti "singoli e limitati" fatti come quelli sopra riportati. "Punture di spillo" che non sono mirate "solo" contro chi direttamente viene colpito, ma che servono anche per intimidire e saggiare le percezioni e la capacità di reazione sia dell’insieme dei lavoratori che dei militanti. In questo, infatti, la borghesia e gli apparati statali, per quanto empirici possano essere, sono lungimiranti: sanno che la necessaria e progressiva cancellazione del precedente "compromesso sociale" potrà spingere la classe lavoratrice a risvegliarsi dal suo attuale torpore, e questo proprio mentre è necessario, invece, il massimo di coesione nazionale per supportare una politica estera sempre più aggressiva anche sul versante militare. Non a caso in tutto l’Occidente il potenziamento degli apparati di "pubblica sicurezza interna" si accompagna ed è parallelo alla crescita degli apparati bellici rivolti "all’esterno". Una macchina repressiva e militare che per ora riserva le sue più "affettuose" carezze agli sfruttati del Sud del pianeta, ma che sta già ben oliando i suoi meccanismi per essere pronta a dedicare le sue "attenzioni" anche verso l’insieme del proletariato "interno".
Nessuna scorciatoia
Una semplice, spiacevole, ma necessaria constatazione: su questo terreno al momento non vi è alcuna (o vi è una scarsissima) attenzione e coinvolgimento da parte della massa dei lavoratori. E questo è un fatto decisivo che non si può saltare in alcun modo.
Non lo si può saltare puntando a "radicalizzare lo scontro" facendo leva solo su quanti "già ci stanno ed hanno già capito". Per questa, magari generosa, via, infatti, si finisce, a prescindere dalla propria volontà, per far percepire la battaglia contro la repressione come un qualcosa di "staccato" e di avulso dal resto delle contraddizioni sociali, un qualcosa che riguarda solo gli "iniziati" o i "matti", e quindi si finisce per favorire, involontariamente, un ulteriore isolamento dei militanti di avanguardia dal grosso del proletariato, cioè da quello che può essere il solo fattore decisivo in questa lotta, come nella lotta anti-capitalistica in generale.
Ma, e ancor di più, non lo si può saltare attraverso la scorciatoia che va per la maggiore, quella di "stimolare" e puntare su un "diverso" atteggiamento delle istituzioni locali e nazionali se e quando (e questo è proprio il momento) guidate dal centro-sinistra. Esagerazione e prevenzione, la nostra? No. Sono i fatti a dimostrare ciò. Se la memoria non ci inganna, fu proprio il governo D’Alema ad aggredire militarmente e a bombardare insieme alla Nato i popoli della ex-Jugoslavia: questo è da considerare o no un atto di repressione su grande scala? e il movimento no-global fu o non fu bestialmente caricato a Napoli proprio sotto un governo di centrosinistra? e i precedenti governi ulivisti sono andati forse con la mano leggera nell’espellere i lavoratori immigrati? Appunto, a volerli vedere, sono i fatti che parlano.
Non si tratta di fare l’equazione (un po’ stupida) Prodi uguale Berlusconi o Bertinotti uguale Casini. Si tratta di altro, del fatto che il centro-sinistra (tutto il centro-sinistra) ha come perno del suo programma la difesa ed il rilancio della competitività e del ruolo dell’Italia (del capitalismo italiano) nel mondo. E tale programma, piaccia o meno, non può che accompagnarsi agli "adeguati" strumenti repressivi "esterni" ed "interni".
Come reagire?
Ma proprio perché la reattività di fronte alla repressione o alle intimidazioni è oggi a zero, e non solo nella massa dei lavoratori, ci si deve sforzare da subito di sollecitare un cambiamento di rotta. Nessuna "puntura di spillo" va fatta passare. Bisogna al contrario iniziare ad organizzare la denuncia e stimolare la mobilitazione, contro ogni, anche "minimo" atto repressivo. Bisogna farlo nel e verso il proletariato (e la gente comune) cercando di partire dai singoli e "limitati" fatti per sottolinearne il reciproco collegamento ed il carattere intimidatorio più generale, e per evidenziare di cosa essi sono l’anticipazione.
La lotta e la denuncia contro la repressione che colpisce nei luoghi di lavoro e nella società va legata alla lotta ed alla denuncia di quanto quotidianamente subiscono i lavoratori immigrati, va legata al rilancio della battaglia contro quella forma di repressione all’ennesima potenza che i nostri governi conducono a suon di bombe più o meno "umanitarie", e di massacri più o meno mal nascosti (leggi: Nassiriya), contro le masse lavoratrici arabo-islamiche e contro i popoli del Sud del mondo.
Le energie di quanti vogliono e sentono sin da ora la necessità di battersi contro tutto ciò va indirizzata verso un terreno ben più radicale e proficuo di quello inefficace o disastroso a cui conduce ogni apparentemente "realistica" scorciatoia. Il terreno della propaganda tra la massa dei lavoratori, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei mercati, nei quartieri; il terreno della discussione e dello studio collettivi per comprendere e saper trasmettere le ragioni profonde di quanto, anche in campo repressivo, si sta preparando. Il terreno, insomma, di un lavoro tenace e continuo per la riconquista di un’organizzazione politica di classe che non invochi contro la repressione della democrazia borghese la… democrazia borghese "autentica" ed il rispetto delle sue "vere" regole, ma che operi per preparare il proletariato a battersi contro di essa. Solo una lotta contro la repressione così impostata può mettere a frutto per sé (e non per l’avversario di classe) l’uso degli spazi giuridici che la legislazione democratico-borghese è stata costretta a riconoscere nel tempo sotto l’effetto della viva pressione del movimento operaio.