La Cgil è di nuovo sotto attacco.

Come devono reagire i lavoratori?

Il recente congresso della Cgil ha ufficialmente posto al suo centro il tema dell’autonomia del sindacato dal "quadro governativo". In realtà, si è trattato invece di un’assise volta (quasi) interamente a costruire un forte supporto elettorale all’Unione, con l’intento di condizionare "da sinistra" l’auspicato nuovo governo. Ma non c’è stato neanche il tempo di chiudere le urne e di constatare la "vittoria" al fotofinish di Prodi, che subito è iniziata, violenta, un’offensiva dall’esterno e dall’interno della coalizione di centrosinistra per mettere la Cgil nell’angolo e ridurre ai minimi termini ogni sua, anche minima, possibilità di "pesare" nei confronti delle future scelte dell’esecutivo. I "poteri forti", grandi sponsor elettorali del professore, bussano con decisione all’incasso. Per non restare paralizzati e reagire, è necessario che tra i lavoratori si inizino a fare i conti con le aspettative e le illusioni riposte nell’esito elettorale e con la politica degli stessi vertici della Cgil che a radicare simili illusioni hanno fortemente contribuito.

 

Per una volta cominciamo da noi, cioè da come i militanti della nostra organizzazione hanno partecipato alla fase congressuale. Lo facciamo non certo con l’intento di vantare numeri e forze di cui all’oggi non disponiamo, ma per evidenziare quali, a nostro avviso, erano e sono i temi fondamentali su cui deve vertere il dibattito e la riflessione collettiva dei lavoratori per poter incominciare davvero ad invertire la rotta e risalire la china.Nei mesi passati abbiamo preso parte ai congressi esprimendoci apertamente contro il documento unitario di Epifani e della maggioranza, senza al contempo appoggiare le tesi "alternative" del segretario della Fiom Rinaldini. Sapevamo bene che vari tra i delegati più combattivi avrebbero supportato queste tesi vedendo in esse un’occasione per dare battaglia contro la deriva della maggioranza, ma -pur apprezzando questa intenzione- abbiamo ritenuto utile dare, nel nostro piccolo, un segnale più chiaro e più deciso: la politica della dirigenza Cgil non è emendabile, non è rattoppabile, va ribaltata e rovesciata in toto, da cima a fondo.

Un bilancio necessario

Nelle assemblee congressuali abbiamo sottolineato come l’ulteriore blindatura organizzativa della Cgil (il "famoso" patto precongressuale tra la maggioranza di Epifani e la ex-minoranza organizzata in "Lavoro e società") fosse fondamentalmente finalizzata ad assicurare un compattamento disciplinato della confederazione e dei lavoratori verso l’auspicato governo Prodi e nei confronti di una corrispondente prospettiva che sempre più lega le possibilità di un qualche recupero nel campo salariale e (forse) dei diritti alla ripresa competitiva dell’Italia e dell’Europa e come, in un simile contesto, "autonomia ed indipendenza" del sindacato diventino semplici chiacchiere, parole vuote.

L’autonomia dal cosiddetto "quadro governativo", infatti, la può dare solo ed esclusivamente una politica che punti a far valere i bisogni dei lavoratori a prescindere e contro quelle che sono le necessità delle imprese e del mercato. I recenti contratti di categoria (inclusi quelli dei metalmeccanici e delle telecomunicazioni siglati proprio a congresso in corso) hanno costituito l’ennesima dimostrazione di come pretendere di sposare le esigenze operaie con quelle aziendali porti inevitabilmente ad una sempre maggiore compressione delle prime. E, poi, che è impossibile riconquistare davvero posizioni se non si mette con forza all’ordine del giorno la necessità di guardare ai lavoratori degli altri paesi e a quelli qui da noi immigrati, come a dei reali alleati e fratelli di classe con cui iniziare a costruire veri e comuni percorsi organizzativi e di lotta per contrastare la spirale della concorrenza al ribasso prodotta dal mercato globalizzato. Anche qui, a parole, queste cose a volte qua e là sono state dette, ma nella pratica la dirigenza della Cgil contribuisce in tanti modi (fatto questo evidenziato da più di un delegato) a far percepire gli operai cinesi ed asiatici come dei pericolosissimi concorrenti da cui "difendersi assieme ai nostrani imprenditori". E quanto agli immigrati, la dice lunga il fatto che negli stessi congressi della lotta contro quella legge 30 al cubo quale è la Bossi-Fini si sia detto poco o nulla.

Amnesie, "errori" di qualche dirigente troppo amante del "made in Italy"? No. Si tratta delle logiche e, in fin dei conti, coerenti conseguenze "pratiche" di una politica che mette al centro della stessa iniziativa sindacale, e come condizione indispensabile di ogni rivendicazione sindacale, il rilancio del "sistema Italia". Quello stesso rilancio prospettato da Prodi e dall’Unione, e che non produrrà nessun presunto governo amico, ma un esecutivo che agirà per conto e sotto tutela dei grandi potentati economici e farà balenare la promessa di un qualche mitigamento dell’attacco alle nostre condizioni solo in ragione di una nostra accettazione preventiva di nuovi e "giusti" sacrifici e del nostro supporto ad una politica estera sempre più aggressiva, tanto sul versante commerciale che su quello militare (l’impegno di tutti i dirigenti dell’Unione nella campagna contro l’Iran la dice lunga circa l’anima "pacifista" del governo Prodi), innanzitutto contro i popoli ed i paesi del Sud e dell’est del mondo.

È sulle basi di un simile ragionamento che, nei congressi, abbiamo invitato ad una riflessione su quella sorta di linea di auto-limitazione delle lotte e delle rivendicazioni portata avanti negli scorsi anni dai vertici sindacali e fatta propria dall’insieme dei lavoratori. Una politica dettata appunto dall’assunzione delle necessità del mercato e della competitività dell’Italia quale stella polare della dirigenza Cgil e finalizzata a cementare un blocco elettorale che, grazie anche alla benedizione di campioni come i Montezemolo ed i De Benedetti, potesse avere la meglio sul (giustamente) odiato Berlusconi. È vero anche per noi: la Cgil è stata la forza che ha maggiormente contrastato le misure del centro-destra e la principale promotrice di quel movimento di massa grazie al quale si è riusciti a respingere l’assalto frontale all’articolo 18, ma il non aver voluto e saputo portare la lotta fino in fondo, il non essersi battuti per la cacciata tramite la mobilitazione di piazza del cavaliere, ha permesso al governo e al padronato di riprendere forza e riproporre con decisione il loro programma, mentre la nostra capacità di mobilitazione andava scemando nell’attesa e nell’aspettativa passiva di un cambio elettorale di governo cui affidare le proprie sorti.

Proprio a partire da questo bilancio dell’anche recente passato abbiamo sottolineato la necessità che i lavoratori comincino a fare dei primi passi nella direzione della rottura della loro subordinazione alle compatibilità capitalistiche, a muoversi concretamente verso i lavoratori immigrati e verso gli operai dei paesi "concorrenti", e a non coltivare illusioni sul governo dell’Unione, anticipando che presto l’idillio "neo-consociativo" del blocco elettorale prodiano con gli stessi moderatissimi vertici Cgil sarebbe terminato.

Un autentico fuoco di fila

Previsioni fosche e tendenziose le nostre? Vediamo un po’Il 13 aprile, mentre ancora si stanno ricontando i voti, Montezemolo (non era uno dei "nostri"?) intima al nascente governo Prodi di abbandonare ogni velleità di ritoccare o abrogare la legge 30. Il 18 aprile è il Financial Times (non era un giornale estero "amico"?) a lanciare un "avvertimento": il governo Prodi dovrà prendere subito una serie di misure, tra cui quella di contenere il costo del lavoro, per evitare una possibile uscita dell’Italia dall’euro. Coglie la palla al balzo il radicale Capezzone (ma non è un "nostro" alleato?) per chiedere al professore una "svolta economica". Di cosa parli lo si capisce bene nei giorni seguenti quando la "Rosa nel pugno" si schiera compatta contro ogni ipotesi anche di sola modifica della legge 30.A sua volta, il presidente della Confcommercio Sangalli "invita" il nuovo governo di centrosinistra a "trarre dalle richieste politiche di questo blocco sociale (quello composto dai piccoli e medi imprenditori che nel settentrione hanno votato compatti per Berlusconi –n.n.) saldamente presente al Nord utili indicazioni su come rendere il paese meno diviso" (Il sole 24 ore, 18 aprile). Quali sarebbero queste richieste lo precisa lo stesso Sangalli: meno tasse per le imprese, e taglio della spesa pubblica improduttiva, cioè (la deduzione è nostra, ma dubitiamo di poter essere smentiti) della sanità e delle pensioni innanzitutto. Il 20 aprile tocca al Fondo Monetario Internazionale, che parla di "sfide tremende che il governo italiano dovrà affrontare come se si fosse sul piede di guerra" (attenti a questa specificazione) e suggerisce di abbassare le tutele all’occupazione. Poi ecco di nuovo il presidente della Confindustria che ribadisce la necessità di confermare le riforme avviate dal governo di centrodestra e, per non lasciare dubbi, afferma quanto segue: "le imprese, oltre alla difesa ed al completamento della legge Biagi, chiedono di poter fare affidamento su una maggiore quantità di ore effettive di prestazione… e per favorire la flessibilità chiedono l’abolizione della tassazione per le ore di lavoro straordinarie o rese in regime di flessibilità degli orari" (Il sole 24 ore, 28 aprile). Contemporaneamente a difesa della legge 30 (o Biagi che dir si voglia) e contro le "pretese egemoniche" della Cgil scende in campo anche il fior fiore della stampa "amica".Insomma, il governo Prodi non ha potuto neanche emettere un primo vagito e già si appresta, ed è chiamato, a prendere in carico le esigenze ed i dettami dei suoi "grandi sponsor" imprenditoriali senza troppi se e ma.

Il "realismo" della Cisl

Ma gli attacchi giungono dallo stesso fronte sindacale. Il giorno del suo insediamento, il nuovo segretario della Cisl, Bonanni, si è subito presentato con un affondo contro la Cgil, dichiarando che la "sommaria liquidazione della legge 30" operata da Epifani rischia di affossare il governo Prodi e di precludere ogni possibilità di una politica sindacale unitaria e riformatrice con la Cgil.

Quella di Bonanni non è una pura e semplice "sparata". La realtà è che, al di là delle possibili apparenze, è ancora una volta la politica della Cisl che si sta candidando ad influenzare al fondo quella della Cgil, e non il contrario. La Cisl, infatti, prende atto delle enormi e profonde difficoltà che incontra il "sistema Italia" e "realisticamente" si fa paladina di una riforma delle relazioni industriali imperniata sull’accettazione della precarietà "contrattata" (sic!) e su una contrattazione elastica (con un minor peso dei contratti nazionali) che si adegui quasi anatomicamente alle diversificate necessità e possibilità delle varie imprese. In sintesi, Bonanni si candida in campo sindacale a portavoce dell’unico riformismo all’oggi "possibile". Un riformismo che può tradursi in qualcosa (comunque poco) di solido solo nell’ambito della singola azienda o del singolo settore che "tira" e a condizione di farsi pienamente "compartecipi" delle esigenze competitive delle imprese.

Il problema non da poco è che, se non si mette in discussione il quadro delle compatibilità capitalistiche (cosa che la dirigenza Cgil neanche lontanamente si sogna di fare), Bonanni ha nella sostanza perfettamente ragione. Il peso della Cisl è direttamente proporzionale alla sua aderenza al quadro capitalistico. Se da questo si parte e a questo si resta, allora la sua influenza la si può inibire (e solo a tempo) su singole questioni, ma poi è destinata a ripresentarsi con moltiplicato vigore in relazione proprio all’impostazione generale della politica sindacale.

La realtà è che puntare su una vera difesa dei salari, dei diritti e dei contratti nazionali contro la precarietà e la flessibilità ed, allo stesso tempo, sulla ripartenza in grande stile della competitività delle imprese italiane sul mercato (anche per la Cgil è questa una condizione fondamentale e imprescindibile da accettare) è impossibile. Ne prendono atto i vari Bonanni; è bene che per un verso opposto ne inizino a prendere atto anche i lavoratori.

Uscire dalla paralisi

Le elezioni e il loro immediato seguito hanno lasciato un senso di delusione e di preoccupazione in tanti lavoratori. Berlusconi ed il berlusconismo hanno infatti retto "l’urto elettorale" ben al di là di ogni previsione, dimostrando di essere profondamente radicati nella società (a cominciare da quel ceto medio "produttivo" tanto caro alla sinistra), mentre dietro il governo Prodi iniziano a spuntare le ombre minacciose dei suoi reali tutori: il grande capitale industriale e finanziario. E mentre la Cgil sembra sempre più messa nell’angolo...

In una simile situazione bisogna innanzitutto evitare di restare paralizzati dal timore di mettere in difficoltà il nuovo esecutivo a causa delle nostre lotte e rivendicazioni. Va superato ogni attendismo, ogni aspettativa generatrice di passività. Prima realizzeremo che le priorità del governo dell’Unione sono diverse e di tutt’altro segno rispetto agli interessi dei lavoratori, meglio sarà. Per iniziare, di fronte ad una eventuale manovra finanziaria "correttiva" (tanto invocata dai mercati internazionali) va rifiutata ogni accettazione di nuovi e "giusti" sacrifici "per il bene del paese". Va al contrario sviluppata nei luoghi di lavoro e nelle sedi sindacali la discussione collettiva per rilanciare la lotta ponendo al centro gli interessi di classe dei lavoratori. Salario, diritti, occupazione, lotta alla precarietà, lotta contro la guerra, tessitura di rapporti politici ed organizzativi con gli operai delle altre nazioni e con i lavoratori immigrati: è solo costruendo organizzazione e lotta nelle piazze e nei luoghi di lavoro su tutto ciò, a prescindere e contro le compatibilità e le necessità delle aziende, dei mercati e del "sistema Italia", che si potrà davvero sconfiggere il berlusconismo ed ogni altra variante, più soft ma dello stesso segno, dell’offensiva capitalistica.