"La superstizione, le preghiere e l’armatura corporea Kevlar non ci salveranno...
Le iniziative del movimento no war
Pressato dalla politica del proprio imperialismo e dalla tenacia della resistenza in Iraq, il movimento no war negli Stati Uniti ha continuato nei mesi scorsi il suo cammino. Con il successo della campagna organizzata dal Campus Antiwar Network contro l’attività dei reclutatori per le forze armate all’interno delle scuole statunitensi, soprattutto in quelle con studenti di estrazione proletaria e/o non-bianca (1). E poi con la manifestazione del 24 settembre 2005, nel corso della quale 150 mila persone (stima della polizia) hanno marciato davanti alla Casa Bianca per il ritiro immediato delle truppe statunitensi dall’Iraq. A riempire la piazza non più e non tanto i giovani no global che hanno nutrito le iniziative pacifiste degli anni scorsi. Quanto soprattutto, ha scritto il cronista dell’Unità, "la gente che si riconosce nel modo di vita americano e che accusa i neocons di averlo tradito": i lavoratori dei settori sindacali nei quali l’opposizione all’intervento in Iraq si è andata legando all’iniziativa per arginare l’offensiva capitalistica sul piano interno; le famiglie dei militari, con il loro simbolo in Cindy Sheenan. Astraendo dalla realtà dinamica dello scontro, nella manifestazione di Washington si potrebbe registrare un arretramento dell’iniziativa no war sul piano della chiarezza delle parole d’ordine e della contestazione generale dell’imperialismo statunitense. Non è così, se si considerano le motivazioni alla base della richiesta del ritiro delle truppe, non più soltanto il tradizionale afflato pacifista ma istanze proletarie a cui il muro di "no" eretto dal governo degli Stati Uniti e dalla classe dirigente democratica chiede con forza di maturare, partendo dall’abisso, verso una posizione di coerente antimilitarismo proletario.
Prendiamo ad esempio l’iniziativa dei famigliari dei militari Usa, giunta a fondare una nuova associazione Military Families Speak Out (Mfso) con migliaia di fami
glie aderenti. Qui siamo in presenza di quel settore del proletariato, spesso di colore, che cerca nelle forze armate un lavoro, una prospettiva di vita o i soldi per continuare gli studi. Ebbene, proprio in questo pilastro del militarismo statunitense, si sta aprendo una frattura che non potrà che approfondirsi. A partire dalla richiesta dell’armamento più efficiente che il Pentagono fa mancare ai suoi boys? Dalla scarsità dei pasti offerti alla truppa a Baghdad? Dalla negazione delle licenze? Dall’incapacità dei comandi di apprestare gli armamenti e le strategie per fronteggiare adeguatamente la resistenza?
Non potrebbe essere diversamente. È proprio da queste "piccolezze", da queste preoccupazioni "egoistiche e patriottiche" che i proletari in divisa e i loro famigliari stanno cominciando a scoprire –come mostrano i brani delle loro lettere che riportiamo– di essere carne da macello dell’amministrazione Bush. Per andare avanti, per superare anche l’opposizione patriottica al patriottismo, per conquistare sul piano organizzativo e programmatico la consapevolezza che il nemico è chi ordina di sparare sugli iracheni e i musulmani, per giungere alla consapevolezza che questi ultimi sono fratelli di classe, i militari statunitensi hanno bisogno che il loro disagio, il loro dissenso e quello delle loro famiglie si incontri con quello di altri spezzoni della classe proletaria cui appartengono, e che in questo collegamento "virtuale" e di lotta si affrontino in particolare due dei nodi che l’iniziativa dei mesi scorsi ha portato a galla.
Il primo nodo è quello del rapporto con i democratici. Già la campagna elettorale aveva incrinato le speranze riposte verso il partito democratico. La manifestazione di Washington le ha spazzate via. Hillary Clinton e altri dirigenti democratici hanno preso le distanze dalla marcia. Che fare? Come dotarsi dell’organo politico per cacciare i "criminali installati alla Casa Bianca" (è ancora Cindy Sheenan a parlare) e per permettere al popolo di "afferrare per sé i fili del potere"? Siamo ancora lontani, certo, dall’unica risposta che il capitalismo, non i comunisti, impone al movimento no war e ai lavoratori degli Stati Uniti, quella della costituzione di un partito comunista internazionalista. Ma, intanto, l’"intransigenza" dell’imperialismo Usa sta imponendo di fare i conti con il problema, lo stesso con cui da anni, seppur in modo del tutto inconcludente, si confrontano i sostenitori del "partito del lavoro".
Il secondo nodo si riconnette alle prospettive che cominciano ad essere intuite dai proletari in divisa scaraventati nei campi di battaglia iracheni un po’ come i militari israeliani in quelli palestinesi. Il marine che scrive da Baquba rileva la polarizzazione di classe in corso nel mondo e si chiede: "A noi, noi proletari degli Stati Uniti, come conviene schierarci?" Per ora siamo "solo" alla crisi delle passate certezze. Il resto lo farà il capitalismo stesso. Lo farà, se i suoi crudi insegnamenti saranno distillati e fatti vivere da un nucleo organizzato di comunisti nelle iniziative del movimento no war e nella massa della classe proletaria non ancora coinvolta nella mobilitazione. Se queste iniziative potranno collegarsi alle lezioni della lotta anti-militarista del movimento proletario degli Stati Uniti e internazionale.
Stanno operando in tal senso i contatti stabiliti dalle famiglie dei militari in Iraq con le associazioni dei veterani delle precedenti guerre, come Veterans for peace o Iraq Veterans Against the War. Ne offre una documentazione di prima mano il libro, da poco tradotto in italiano, di Phil Rushton, Riportiamoli a casa. Il dissenso militare nelle forze armate statunitensi (Edizioni Alegre, Roma, 2005, 9,00 euro). Il testo riporta in ordine cronologico una selezione delle lettere delle madri, dei padri, dei fratelli e sorelle, delle mogli dei militari pubblicate sui siti di Mfso e della campagna Bring Them Home Now!
Il dialogo che si stabilisce tra le lettere e le prese di posizione dei veterani di altre guerre, mette in relazione il dissenso che sta crescendo entro il mostro militare statunitense con la sua tradizione passata. Le note storiche dei curatori completano questo raccordo e ci rimandano l’immagine di un paese meno compatto di quanto un certo anti-americanismo lo voglia far apparire. Purtroppo ci si ferma al movimento per il ritorno a casa del 1946, quando i marinai e i soldati Usa dislocati nello scacchiere asiatico si rifiutarono di prestarsi ai piani presi in esame dalla Casa Bianca di invasione della Cina e si mobilitarono, con scioperi e assemblee, per tornare a casa. Anche negli Stati Uniti, la tradizione anti-militarista è ancora più antica ed ebbe un momento di primo piano nella battaglia portata avanti dall’ala rivoluzionaria del movimento operaio degli Stati Uniti durante e dopo la prima guerra mondiale in collegamento, ideale prima e poi organizzativo, con la battaglia portata avanti dall’Internazionale Comunista contro la guerra imperialista secondo l’unica prospettiva in grado di cacciarla dalla storia: la trasformazione di essa nella guerra civile per il comunismo. Per quanto ancora da lontano, è a questo che ci chiamano gli avvenimenti dagli Stati Uniti.
Note
(1) Il 22-23 ottobre 2005 si è tenuta la prima conferenza nazionale del Network alla quale hanno partecipato 650 rappresentanti dei licei e delle università degli Stati Uniti. Sull’iniziativa del Network (l’indirizzo del cui sito è: www.campusantiwar.net) si veda l’intervista alla sua coordinatrice nazionale Monique Dols pubblicata sul giornale La brèche (n. 18, novembre 2005).