[Precedente] [Home] [Sommario] [Fine pagina] [Successiva]
La Camera in prima seduta ha approvato nel marzo 2004 la
riforma al capo IV e V della Costituzione che, qualora dovesse superare l’intero
e complesso iter parlamentare, entrerebbe definitivamente in vigore tra il 2011
e il 2016. Contro la riforma voluta dal governo Berlusconi, il centro-sinistra è
pronto a proporre un referendum per la sua abrogazione, i sindacati si sono
dichiarati ostili, la Confindustria, il presidente della repubblica e i
costituzionalisti hanno sollevato obiezioni.
Le critiche si possono così riassumere. La riforma
costituzionale: 1) violerebbe lo spirito della carta costituzionale del 1948, 2)
è un ibrido tra centralismo e federalismo, 3) è stata concepita male dal punto
di vista istituzionale giacché non è possibile individuare quelli che sono gli
effettivi poteri assegnati all’uno o all’altro organo, 4) essa introduce il
rischio che si possa instaurare un regime autoritario con il forte centralismo
riconosciuto al premier, 5) apre le porte a seri rischi di secessione con il suo
marcato federalismo, i cui costi, comunque sia, non sono sostenibili per i
bilanci statali.
Ora, la riforma, per quanto possa essere stata concepita male
(al punto che, ad esempio, nessuno sarebbe in grado di dire quali sono le
funzioni che sarebbero assegnate al Senato federale), risponde comunque ad una
esigenza reale del capitalismo italiano. Il forte centralismo che si finirebbe
per introdurre accompagnato da un altrettanto forte federalismo non
rappresentano un ibrido esclusivamente o principalmente frutto delle mediazioni
di una maggioranza divisa al proprio interno ma un’esigenza reale del
capitalismo italiano. È da circa un ventennio che la discussione sulle riforme
istituzionali in senso centralistico si accompagna con la discussione sul
federalismo. Centralismo e federalismo lungi dall’essere in contraddizione tra
di loro sono entrambi strumenti necessari al capitalismo italiano, per un
attacco sempre più a fondo all’unità politica ed economica del proletariato
d’Italia. Già l’introduzione del sistema uninominale ("mani pulite") andava nel
senso di una maggiore centralizzazione dello stato italiano. Ad esso si sono
accompagnate riforme in senso federalista (in particolare dal punto di vista
fiscale), da ultimo quella introdotta dal governo di centro-sinistra. In
sintesi: si punta a centralizzare il potere della borghesia e frammentare per
vie territoriali e localiste la resistenza dei lavoratori.
L’aspetto più "innovativo" della riforma del governo
Berlusconi è che con essa effettivamente si rompe profondamente e radicalmente
con lo spirito della carta costituzionale del 1948, ma in quanto la stessa non è
più funzionale alle mutate esigenze del capitalismo italiano. La carta entrata
in vigore il 1° gennaio del 1948 si caratterizza per aver introdotto un sistema
istituzionale incentrato sul controllo reciproco tra i vari organi istituzionali
"in modo che nessun organo potesse accentrare troppi poteri e prevalere sugli
altri". Essa è stata la concrezione sul piano istituzionale del compromesso
sociale a cui la borghesia italiana fu costretta dopo la seconda guerra mondiale
dalla classe operaia. Negli anni del secondo dopoguerra, a differenza di quanto
era accaduto al termine della prima carneficina inter-imperialistica, non fu in
gioco in Europa un nuovo assalto al cielo proletario. I capitalistici italiani,
e i loro padrini statunitensi, non riuscirono tuttavia ad imporre lo
schiacciamento dei lavoratori e del movimento operaio che avrebbero voluto.
Dalla fine degli anni settanta, a causa dell’esaurimento del boom post-bellico,
il compromesso, sociale prima ancora che istituzionale, con i lavoratori e le
"loro" organizzazioni sindacali e politiche è diventato insostenibile per i
capitalisti. Molto da allora sono riusciti a portare a casa sul terreno dei
rapporti di forza, a partire dallo scontro alla fine del 1980. Per andare avanti
i capitalisti hanno tuttavia bisogno di fare qualcosa in più anche sul piano
istituzionale: irregimentare il proletariato e tutte le classi della società al
criterio supremo della competitività del paese e alla corrispondente esigenza di
farlo valere anche sul terreno militare con le aggressioni ai popoli e agli
sfruttati del Sud e dell’Est del mondo.
I tempi di guerra che si preparano rendono inadeguato per i
capitalisti il funzionamento della macchina statale per come esso è organizzato
oggi. Il risultato del compromesso istituzionale del 1948 è che in Italia per
approvare una legge ci possono volere anche degli anni. Inoltre, ogni legge
approvata dal parlamento può essere sindacata dal presidente della repubblica e
dalla Corte Costituzionale. In più il presidente del consiglio con gli attuali
poteri è costretto ad operare sotto il continuo "ricatto" e controllo della sua
maggioranza, e del presidente della repubblica il quale, teoricamente, in
qualsiasi momento potrebbe sciogliere le camere e, perché no?, anche dal
sostituto procuratore presso la procura della repubblica di un qualsiasi paese
d’Italia.
Contro questo sistema che "non permette di governare in modo
sufficientemente snello e autoritario", secondo quelle che sono le mutate ed
effettive necessità capitalistiche di un paese in forte declino, Berlusconi ha
preso posizione. Appena insediatosi come capo del governo, egli ha manifestato
da subito un certo fastidio nei confronti di un parlamento nel quale si finisce
solo "per perdere del tempo" e contro le continue mediazioni a cui è costretto
anche all’interno della sua maggioranza. La crociata contro la magistratura,
voluta dal premier, avrà anche caratteristiche personali, ma risponde
soprattutto ad una esigenza reale per la borghesia: il potere della magistratura
va ridimensionato, essa non può essere organo di controllo nei confronti dei
poteri forti dello stato ma deve essere da questi ancor più pienamente
controllata e incanalata.
L’altro cardine dell’attuale carta costituzionale che si
finirebbe per minare è che l’Italia sia una e indivisibile. Questo è vero, ma
non nel senso che si vuole con le dette riforme spaccare l’Italia (al di là del
rischio che la riforma possa al di là delle intenzioni aprire gli spiragli
istituzionali per un esito del genere impulsato dai sottostanti processi
economici e sociali): solo nel senso che si punta a porre fine all’esistenza di
un unico sistema sanitario, un unico sistema scolastico, un fisco uguale per
tutti a scala nazionale così da disgregare ancor più la classe lavoratrice e
ridurne la forza di resistenza con le decisioni richieste dai grandi poteri che
reggono il mercato capitalistico. Così come per il padronato bisogna rompere
definitivamente con i contratti nazionali, nello stesso senso bisogna rompere
con il "concetto" di spese e prelievi uguali lungo tutto il territorio
nazionale. In questo senso il federalismo fiscale è il cardine della riforma
federalista. Attraverso la definitiva introduzione del federalismo fiscale che,
non a caso, sta accompagnando il resto della riforma, la borghesia italiana
spera di poter finalmente operare tagli draconiani alla sanità, alla scuola, ai
servizi in genere. Per questa via i lavoratori non si troveranno più a
confrontarsi unitariamente con una sanità che vale per l’operaio della Lombardia
come per l’operaio del Lazio, ma si troveranno separatamente di fronte a 20
servizi sanitari, 20 scuole, 20 forme di prelievo diversi.
Le critiche alla riforma costituzionale che provengono
dall’interno della Confindustria non devono trarre in inganno. Il presidente di
Confindustria parla "di minaccia all’unità del paese, di ibrido fra spinte
secessioniste e rivincite centraliste, di allontanamento delle zone ricche da
quelle povere". La centralizzazione del potere statale e la frammentazione del
proletariato sono anche l’obiettivo della Confindustria che da anni lamenta
l’assenza di un governo in grado di decidere (pro domo sua) e di "non
cedere" dinanzi alle richieste (sempre più contenute) del sindacato. Ciò che
teme Montezemolo è che l’introduzione di un federalismo troppo marcato, in un
paese in cui delle spinte secessioniste sono già così presenti, e in assenza di
un vero partito della borghesia, possa aprire a futuri scenari di smembramento
del paese. In pratica si teme che la riforma non solo non sia in grado di
"governare" quella spaccatura profonda che da anni si sta dando nei fatti tra
Nord e Sud del paese, ma che addirittura ne possa provocare un’incontrollabile
ed eccessiva accelerazione.
Anche noi comunisti rivoluzionari abbiamo ovviamente la
nostra critica da portare al piano di riassetto istituzionale voluto dal
governo, ma essa in nulla coincide con quella della Confindustria o dei Ds o del
partito della Rifondazione Comunista.
Nella riforma del governo Berlusconi noi leggiamo
fondamentalmente un attacco all’unità politica ed economica classe operaia, la
messa a punto di un apparato istituzionale in grado di svolgere meglio la
funzione richiesta dagli interessi borghesi nei prossimi anni: l’irregimentazione
dei lavoratori e degli stessi strati borghesi ad una mobilitazione e ad
un’economia di guerra.
Per questo sosteniamo sia necessario mobilitarsi contro di
essa. Ciò che a noi sta a cuore è l’unità e l’autonomia della classe
lavoratrice. Che non passano certo attraverso la difesa della vecchia carta
costituzionale, "nata dall’antifascismo", che con la riforma si butterebbe alle
ortiche. Carta Costituzionale rivendicata a pieno non solo dall’opposizione
parlamentare, ma anche da alcuni settori della cosiddetta estrema sinistra. Se è
vero che l’attuale carta costituzionale, contiene enunciazioni che possono
definirsi di cosiddetto "socialismo reale", è altrettanto vero (e non poteva
essere diversamente) che non ha impedito, in tutti questi anni, ai padroni lo
sfruttamento del proletariato. Si pensi a titolo esemplificativo alle norme
contenute nella carta costituzionale a tutela dei lavoratori e ai morti sui
posti di lavoro. L’attuale carta non ha impedito al capitalismo italiano le
guerre di aggressione verso i popoli del sud del mondo. A dispetto dell’art. 11
della costituzione ("L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazione"), l’Italia è presente con il proprio esercito di aggressione in
tutto il mondo. E gli esempi potrebbero continuare in tutti i settori, libertà
sindacale, uguaglianza etc etc.
È su queste basi che invitiamo i lavoratori, i giovani, i
disoccupati ad organizzarsi ed a contrapporsi (autonomamente da tutte e contro
tutte le varianti borghesi) all’introduzione di qualsiasi forma di centralismo
autoritario dello stato e alla sua riforma in senso federalista, perché è contro
di loro, contro le loro già precarie condizioni di vita, contro i loro tentativi
di riconquistare un’organizzazione politica di classe che lo stato,
rappresentante degli interessi della borghesia, si riorganizza.
Con il vecchio sistema proporzionale, il presidente del
consiglio veniva indicato al presidente della repubblica da quel gruppo di
partiti che avevano la maggioranza parlamentare. Il presidente del consiglio
proveniva quasi sempre dalle varie correnti della vecchia democrazia cristiana
ed era il frutto di mediazioni al suo interno.
Con l’introduzione del sistema uninominale, il nome del
presidente del consiglio, pur indirettamente, viene indicato prima delle
elezione (ad esempio alle ultime elezione Berlusconi per la coalizione di
centro-destra e Rutelli per la coalizione di centro-sinistra). Ma rispetto al
sistema proporzionale con l’introduzione del sistema uninominale è cambiato ben
poco: se è vero che adesso la figura del premier trova una investitura popolare,
rimane comunque vincolato a tutti quei controlli e "ricatti", che hanno
caratterizzato tutti i vecchi governi di marca democristiana. Ciò che si vuole
introdurre con la detta riforma è la figura di un premier che una volta eletto
sia svincolato dai controlli e da possibile rovesci della maggioranza. Il nuovo
premier italiano avrebbe più poteri persino rispetto al presidente degli Stati
Uniti il quale in qualche modo è controllato dal parlamento.
Secondo la riforma Berlusconi, i canditi premier saranno
collegati con i candidati alla sola Camera. Il Senato diventerebbe federale. Il
capo dello stato nominerebbe premier il candidato della coalizione vincente.
Anche attualmente di fatto avviene cosi, ma nulla impedisce che il capo dello
stato ne scelga uno diverso, si pensi all’esperienza di D’Alema.
Il premier sceglie e nomina i propri ministri, mentre
attualmente vengono nominati dal capo dello stato.
Ciò che rende poi praticamente inamovibile il premier una
volta eletto, è che esso potrà sì essere sfiduciato dalla sua maggioranza ma
solo se questa è in grado di indicare un nuovo premier, senza passare quindi per
nuove elezioni. Con questo sistema se il premier riesce a conservare un pugno di
fedelissimi all’interno della camera, di fatto non potrà essere sfiduciato né il
presidente della Repubblica dinanzi ad un parlamento diviso potrà sciogliere le
camere che passa come competenza al premier.
La figura del presidente della repubblica uscirebbe
notevolmente indebolita. Se è vero che anche attualmente il presidente della
repubblica ha alla fine poteri più formali che sostanziali, comunque esso riesce
ad esercitare un controllo sull’operato del governo. Si pensi a Ciampi che si è
rifiutato di promulgare la legge di riassetto del sistema radiotelevisivo
fortemente voluta dal governo Berlusconi, al ruolo di Scalfaro durante il primo
governo Berlusconi. Nella nuova formulazione il presidente della Repubblica
rappresenta la nazione (non più l’unita della nazione) ed è il garante della
costituzione e dell’unità federale della repubblica. Potrà sciogliere le camere
solo se richiesto dal premier.
Sarà composto dalla camera e dal senato federale, nel quale
ogni regione dovrà avere almeno 6 senatori. Sparirà l’attuale bicameralismo
perfetto, che prevede che ogni legge debba essere approvata da entrambi i rami
del parlamento.
La camera esaminerà le leggi sulle materie riservate allo
stato (politica estera, immigrazione, difesa, etc.). Il senato sulle leggi
nazionali avrà il solo potere di proporre modifiche.
Il Senato si occuperà delle leggi che riguardano materia
riservate sia allo stato che alle regioni (sanità, polizia locale, scuola,
ecc.).
Alle regioni verrà affidata la potestà legislativa esclusiva
per l’assistenza e l’organizzazione scolastica, la gestione degli istituti
scolastici e di formazioni, la definizione della parte dei programmi scolastici
e formativi di interesse specifico della regione, la polizia amministrativa
regionale e locale. È stata prevista una clausola di interesse nazionale (non
prevista dalla riforma del centro-sinistra) che prevede che il governo possa
bloccare una legge regionale se ritiene che questa sia pregiudizievole
all’interesse nazionale.
La riforma della giustizia, ha come primo obiettivo quello di ridurre il potere che le procure hanno esercitato negli ultimi anni. Con l’introduzione delle carriere separate tra magistratura inquirente e giudicante, e la promozione dei magistrati per concorso, si tenta di subordinarla ad un più ferreo controllo da parte del governo