Dove va l’Italia?

Le iniziative di lotta dei lavoratori

immigrati dell’autunno 2004

Gli ultimi mesi del 2004 hanno visto segnali di ripresa del movimento di lotta degli immigrati. Proviamo ad analizzarne le caratteristiche e la portata per tentare di tracciare assieme i passi da compiere per rafforzare l’organizzazione e la mobilitazione di questo importante settore del proletariato. In queste brevi note diamo per "scontato" come le difficoltà del movimento dei lavoratori italiani ed il suo drammatico ritardo nell’assumere come proprie le esigenze e le rivendicazioni degli immigrati, esercitino un peso tutt’altro che positivo sul percorso di lotta e di organizzazione di questi ultimi.

La questione dei "ritardi"

Al momento dell’introduzione, la legge Bossi-Fini fu accompagnata da una maxi-sanatoria che permise la regolarizzazione temporanea di circa settecentomila immigrati. Grazie a questa intelligente mossa del governo il contenuto fortemente razzista e discriminatorio della normativa apparve all’immediato alquanto annacquato. Ciò contribuì a far accettare passivamente la nuova legislazione ad una non insignificante quota di lavoratori immigrati che, in parte, pensarono di vedere in essa anche una reale possibilità di "integrazione".

In realtà, i problemi e le difficoltà per gli immigrati, lungi dal diminuire, sono andati progressivamente aumentando. E adesso, dopo circa due anni, la Bossi-Fini inizia a presentare direttamente il conto. Clamoroso, a tal proposito, è il problema dei ritardi (da sei mesi ad oltre un anno) nella concessione dei rinnovi dei permessi di soggiorno che si è cominciato a presentare in tutta evidenza per decine e decine di migliaia di lavoratori "stranieri" tra la primavera e l’autunno dello scorso anno quando, tra l’altro, hanno iniziato a scadere i permessi concessi con la maxi-sanatoria. Improvvisamente una cospicua massa di immigrati si è trovata gettata sulla soglia (ed oltre) della "clandestinità".

Senza rinnovo del soggiorno si rischia il posto di lavoro e quindi l’espulsione, è più difficile trovare casa, aumentano le difficoltà ad accedere ai servizi pubblici, non è possibile tornare nel proprio paese a trovare familiari e amici perché poi non si può (se non da clandestini) rientrare in Italia, si finisce più facilmente in pasto al lavoro nero e a trafficanti d’ogni risma. In una parola si è enormemente più deboli e più esposti ad ogni sorta di ricatto.

 

Le prime mobilitazioni

È per lo più a partire dal problema dei rinnovi che in varie città ci si è cominciati a mobilitare. Uno dei punti nevralgici di questa ripresa di attivizzazione non casualmente è stata Roma. Qui infatti i ritardi hanno assunto caratteristiche particolarmente estese e pesanti. E così, nel breve volgere di due settimane, dal 26 settembre al 10 ottobre, le strade della capitale sono state attraversate da due combattivi cortei con migliaia di immigrati delle più disparate nazionalità.

A tal proposito è utile evidenziare alcune cose. Primo: si è trattato di manifestazioni completamente autorganizzate dalle associazioni dei lavoratori "stranieri" aderenti al Comitato Immigrati. Secondo: la mobilitazione di piazza è stata preparata nei mesi precedenti con un costante e tenace lavoro di propaganda nei mercati, davanti alle moschee ed alle chiese e nei quartieri. Si è avuta insomma cura nel rivolgersi direttamente alla massa degli immigrati. Terzo: in questa preziosa azione di preparazione gli elementi più attivi delle varie comunità hanno coordinato e svolto comunemente – fianco a fianco – il loro intervento. Si sono così dati e rafforzati embrioni organizzativi e di discussione unitari tra lavoratori rumeni, bengalesi, cinesi, indiani, albanesi, sry lankesi, filippini, africani e latino americani.

 

Le due manifestazioni nazionali

Sotto la spinta di una attivizzazione che (se pur con molti limiti) dalla Lombardia all’Emilia, dalla Campania alla Sicilia, ha iniziato ad avere una certa diffusione territoriale, si è giunti alla indizione ed allo svolgimento di due distinte manifestazioni nazionali.

La prima, quella del 4 dicembre, ufficialmente sponsorizzata (a parole più che altro) da Arci e Rifondazione, è stata di fatto organizzata e promossa direttamente da varie associazioni degli immigrati e da settori dell’"antirazzismo". Il corteo è stato vivace e combattivo ed ha visto la partecipazione di circa diecimila lavoratori (tanti, viste anche le difficoltà, non solo finanziarie, di tipo organizzativo) provenienti prevalentemente dalle regioni centromeridionali. Pochissimi, quasi zero, gli italiani.

La seconda, quella del 18 dicembre, è stata indetta ed organizzata da Cgil-Cisl-Uil e ha visto sfilare circa quindicimila immigrati provenienti questa volta soprattutto dal centro-nord. Anche in questo caso pochi gli italiani.

Su questa faccenda pensiamo sia necessario avviare una riflessione collettiva. Si è giunti ad una (in realtà a due) mobilitazione nazionale perché si è iniziato a capire e ad intuire come le rivendicazioni messe sul piatto non potevano essere risolte localmente puntando ad avere come controparte le singole questure e prefetture. Era necessario "alzare il tiro", bisognava provare a fare pressione direttamente sul governo. Bene, questa intuizione è giusta e fondamentale. Ma proprio perché la partita è lunga, difficile e l’avversario è tutt’altro che debole e sprovveduto, proprio per questo è necessario ragionare su come si può e si deve lavorare per superare in avanti la separazione che nel movimento degli immigrati si è evidenziata con le doppie e distinte manifestazioni.

 

Divisioni da superare

È vero, la piattaforma dei sindacati confederali era (e siamo buoni) debole ed estremamente "moderata", tanto che la stessa Fiom si è vista costretta a criticarla apertamente. Ed è anche vero che uno dei motivi che ha portato la Cgil ad optare per la manifestazione del 18 è stato quello di non rompere con Cisl e Uil e che, quindi, ancora una volta sull’altare dell’unità tra i vertici sindacali si è sacrificato il tentativo di unificare i lavoratori. Tutto ciò è verissimo, ma il motivo di base per cui si sono date due diverse manifestazioni va oltre questi fattori; come va comunque oltre alcune recriminazioni che dal versante "opposto" sono state mosse agli organizzatori del 4 dicembre.

Le "due piazze" sono state soprattutto il frutto e lo specchio di una distinzione tra due settori del proletariato immigrato. Distinzione che è prodotta dalla diversificazione geografica e sociale (schematicamente parlando: quella tra Nord e sud) della struttura produttiva italiana e che si riscontra anche tra i lavoratori "indigeni".

Bisogna prendere atto di tutto ciò e lavorare affinché questi diversi settori inizino a superare le difficoltà, generate da cause materiali, nell’entrare in reciproca comunicazione: a questo – tra l’altro – sono chiamati i più attivi ed attenti lavoratori immigrati, sia che essi militino nell’autorganizzazione sia che lo facciano nelle strutture sindacali.

 

Alcuni passi da compiere

Certo, in materia non esistono ricette magiche, ma delle cose possono essere dette e fatte. Proviamo a indicarle in maniera schematica e per punti.

1) I segnali di ripresa dell’autorganizzazione e quelli di forte crescita della sindacalizzazione degli immigrati (250mila iscritti) non devono essere visti come fenomeni in reciproca concorrenza, ma come indicatori di una stessa necessità: quella di una difesa collettiva delle proprie condizioni di vita e lavoro. Sarebbe dunque estremamente utile provare a costruire anche piccoli momenti di incontro in cui rappresentanti di queste due "diverse" esperienze possano confrontarsi e "conoscersi" sempre più direttamente.

2) La Bossi-Fini non serve "solo" a schiavizzare gli immigrati, serve anche a costruire differenziazioni al loro interno. Un’azione per l’unificazione del fronte di lotta non può prescindere da una battaglia contro e per la cancellazione di questa legge razzista e per il permesso di soggiorno per tutti e senza condizioni. In tal senso bisogna proiettare le forze verso la massa degli immigrati e legare anche le minime questioni alla necessità battersi per davvero e con chiarezza contro l’intero impianto legislativo sull’immigrazione.

3) Il governo, anche attraverso il dialogo con il cosiddetto "Islam moderato", sta tentando di mandare un messaggio al mondo dell’immigrazione. Si chiama l’immigrato a disinteressarsi di quanto sta accadendo in Iraq, in Palestina e in tutto il Sud del mondo. A prendere le distanze dalla resistenza e dalla lotta di questi popoli e ad affidarsi, mani e piedi, alla "benevola tutela" della nostrana democrazia e delle sue regole. È un messaggio pericoloso che non deve essere né sottovalutato, né fatto passare. La politica "estera" dell’Italia e dei suoi alleati occidentali non determina "soltanto" le cause dell’immigrazione, ma incide direttamente anche sulle stesse condizioni dei lavoratori immigrati. Che, ad esempio, la Libia stia diventando un "filtro poliziesco" al servizio dell’Italia e della Comunità Europea, che verso Tripoli si possano tranquillamente deportare a mo’ di bestie (come avvenuto tra settembre e ottobre da Lampedusa) migliaia di immigrati, che possa avvenire tutto ciò, rappresenta un’ulteriore arma di ricatto e di intimidazione nelle mani del governo contro tutti gli immigrati. Bisogna dunque muoversi in direzione esattamente opposta rispetto a quella che indicano le nostrane istituzioni. Va affermato che la cosiddetta politica "estera", che la resistenza del popolo iracheno, che le lotte dei popoli di tutto il Sud del mondo sono anche affare nostro, di "noi" immigrati che abbiamo dovuto lasciare i nostri cari costretti dalla violenza, dalla miseria e dalla fame portata nei nostri paesi proprio dall’Occidente. Così come è affare nostro tentare in tutti i modi di smuovere e sollecitare i proletari italiani tanto sul terreno della solidarietà verso i popoli in lotta quanto sul terreno della comune difesa dei diritti e delle condizioni di vita e lavoro.

Siamo consapevoli che i punti che abbiamo sinteticamente provato ad esplicitare chiamano quantomeno un settore d’avanguardia dei lavoratori immigrati ad un passo politico in avanti tutt’altro che semplice. Ma sappiamo pure che ad indicarlo sono innanzitutto i fatti e le esigenze dello scontro sociale. Per quanto ci riguarda, noi dell’OCI continueremo a fare la nostra parte, stando come sempre incondizionatamente a fianco dei lavoratori immigrati ben piantati sulle gambe della nostra inequivoca visione politica e teorica.