Le elezioni in Iraq e l’accordo in Palestina aprono
altri capitoli della "guerra infinita" dell’imperialismo.
Lasciamo stare il fatto che, anche dal punto di vista delle regole formali della democrazia occidentale, le elezioni costituenti in Iraq possono essere definite solo con una parola: una farsa. Lasciamo stare che non si è avuta nessuna campagna elettorale con comizi e assemblee pubbliche. Che i nomi dei candidati e la localizzazione di un bel po’ di seggi sono rimasti segreti. Che in alcune città gruppi di iracheni sono stati costretti a recarsi alle urne per evitare la minacciata esclusione dalla distribuzione degli alimenti previsti dal programma "oil-for-food". Che durante la campagna elettorale è stata chiusa la redazione scomoda di Al-Jazeera a Baghdad. Che la possibilità per un partito di partecipare alla competizione elettorale era vincolata alla rinuncia della denuncia dell’occupazione occidentale. Che basterebbe fare la moltiplicazione fra il numero dei seggi ufficiali aperti (500) e il numero dei votanti in ogni seggio (6-700) per arrivare a un numero massimo di votanti pari alla metà degli otto milioni che il governo Allawi ha fornito. Che solo la totale prostituzione delle loro penne può aver fatto scrivere ai giornalisti occidentali che in Iraq le ultime elezioni democratiche sono state quelle che si svolsero nel 1953 e che la rivoluzione popolare antimperialista del luglio 1958 fu un colpo di stato. Lasciamo stare il fatto, inoltre, che la vera campagna elettorale condotta dai partiti in lizza è stata quella portata avanti dalle forze militari occidentali e dalle forze di polizia collaborazioniste a colpi di bombe, rastrellamenti, incendi, distruzione di case, ecc. Che il messaggio vero, non schedaiolo, che questa particolare campagna elettorale ha voluto instillare nella popolazione è stato quello di essere destinata al terrore permanente se non si genufletterà all’ordine del dollaro e dell’euro...
Lasciamo stare queste "piccolezze" e accettiamo per buone le notizie sui dati elettorali che ci vengono rifilate. Anch’esse non indicano affatto, se ben interpretate, che si va verso la rinascita dell’Iraq e del suo popolo, verso la pace nel paese e nell’area. Esse indicano, al contrario, che si va verso un nuovo terribile giro di vite neo-colonialista in Iraq e verso lo spostamento del mirino imperialista contro altri due "nuovi" bersagli: l’Iran e la Siria. Esse indicano, inoltre, che tutto questo richiederà e alimenterà una nuova stretta della "guerra sul fronte interno" che le potenze capitalistiche stanno portando avanti nei loro paesi contro i "loro" proletari e contro gli immigrati.
I discorsi d’insediamento di Bush vanno presi sul serio. Perché contengono quello che ci aspetta.
La convergenza tra Stati Uniti e Al Sistani
Il voto in Iraq ha sancito l’alleanza tra gli Stati Uniti e le classi proprietarie (agrarie e finanziarie) della "comunità sciita". Alleanza decisa non dal "responso sovrano" delle urne ma siglata sul campo l’estate scorsa, nel fuoco della lotta, davanti al rischio di una radicalizzazione dello scontro tra la resistenza popolare e le truppe d’occupazione statunitensi-britanniche-italiane, davanti al pericolo paventato anche dagli Al Sistani e dai Chalabi del crescente coinvolgimento delle masse lavoratrici irachene nella mobilitazione a fianco dei gruppi armati della resistenza, anche e soprattutto degli sfruttati di religione sciita di Sadr City e del sud dell’Iraq.
Ai grandi mercanti, ai grandi proprietari fondiarî e ai possessori di capitali rappresentati da Al Sistani e da Chalabi il regime imposto in Iraq dagli Stati Uniti non va certo a genio, perché ne riduce le rendite e i profitti ed offre loro solo un osso spolpato in ringraziamento della posizione di "neutralità" o di aperta collaborazione che essi hanno assunto nel marzo-aprile 2003 davanti all’occupazione del paese. Nella primavera scorsa, però, un anno dopo l’arrivo dei "nostri", le classi sfruttatrici sciite hanno fatto conoscenza con un avvenimento ancor più funesto per i loro interessi: il passaggio degli sfruttati sciiti dalla iniziale posizione di neutralità e di attesa verso le forze di occupazione alla lotta armata contro di esse, alla fraternizzazione con gli sfruttati iracheni di altra fede religiosa per una resistenza di massa contro il regime fantoccio di Baghdad e le forze occupanti statunitensi, inglesi, italiane, ecc. È stata questa radicalizzazione sociale, e in parte politica, della lotta contro il neo-colonialismo ad aver indotto Al Sistani a tirare il freno a mano, ad averlo fatto convergere con le forze statunitensi e italiane per imporre la smobilitazione dell’esercito di Al Mahdi raccolto attorno a Muqtada al Sadr, ad avergli fatto sottoscrivere l’accordo con il governo fantoccio di Baghdad e gli occupanti per lo svolgimento delle "elezioni costituenti" nel gennaio 2005.
Al Sistani e Chalabi hanno mirato a raccogliere quanti più voti possibili per condizionare il menu che è stato già stabilito dai veri padroni del paese, che essi hanno accettato e che la "sovrana assemblea costituente" dovrà solo approvare e, al più, colorare con sfumature in un senso o nell’altro. Questo menu è stato fissato l’anno scorso dal proconsole Bremer, dal club delle banche di Parigi e dai sovrastanti signori della guerra e della rapina imperialista, da un potere che se ne infischia della "sovranità dei parlamenti", da un potere che sa operare come gli sfruttati purtroppo ancora non sanno fare sul vero terreno su cui si decide lo scontro: quello della forza e dell’organizzazione. Il menu prevede la privatizzazione dell’apparato industriale del paese, e soprattutto delle risorse petrolifere, da consegnare nelle mani delle multinazionali occidentali, con l’Eni in testa per l’accaparramento dei pozzi nei dintorni di Nassiriya. Ovviamente le imprese e la finanza occidentali le gestiranno amorevolmente per il benessere del popolo e dei lavoratori iracheni...
I lavoratori sciiti e le elezioni
I non pochi lavoratori di fede sciita che hanno raccolto l’invito di Al Sistani a recarsi alle urne dovranno scontrarsi con questo muro. I loro dirigenti borghesi si aspettano di lucrare qualcosa dall’avvio della politica di privatizzazione elaborata sotto il reame di Bremer, come ha ribadito in dicembre in un viaggio negli Stati Uniti Abdel Mahdi, l’attuale ministro delle finanze di Baghdad e uno dei massimi dirigenti della lista legata ad Al Sistani. Ma cosa verrà offerto ai lavoratori dell’Iraq di fede sciita? Essi non si sono certo recati alle urne perché approvano l’opera degli Stati Uniti, dell’Italia e dei servi che, allevati nelle borse occidentali o nei loro servizi segreti, li stanno governando oggi. Vi si sono recati con la speranza (vana) che l’affermazione della lista legata ad Al Sistani, che l’appoggio ai collaboratori di Muqtada al Sadr che vi si sono ufficiosamente inseriti, possano favorire la fine dell’occupazione e portare al governo del paese le loro esigenze di lavoratori e di popolo oppresso. Probabilmente lo scorso anno i lavoratori sciiti dell’Iraq sentivano che avrebbero potuto raggiungere questi obiettivi in altro modo, nell’unico modo possibile: con la loro mobilitazione e la loro resistenza anche armata all’occupazione, fraternamente uniti a quella degli altri sfruttati iracheni. Se negli ultimi mesi molti di essi hanno ripiegato sulla (impotente) via elettorale è solo perché si sono trovati stretti in una morsa che, al momento, li ha sovrastati: da un lato il terrore imperialista, dall’altro le titubanze dei loro rappresentanti "radicali" alla Al Sadr e, soprattutto, l’isolamento in cui sono stati lasciati dai lavoratori e dal movimento per la pace occidentali.
Nella primavera scorsa i gruppi della resistenza irachena e la stessa dirigenza di Al Sadr hanno lanciato una serie di appelli verso di noi, proletari e militanti rivoluzionari in Occidente. Anziché essere assunti in una più stabile e organizzata iniziativa di lotta per il ritiro incondizionato delle "nostre" truppe dall’Iraq, quegli appelli non hanno trovato risposta. Come non ha trovato risposta quello inviato successivamente attraverso il rapimento delle due Simone. O meglio una risposta quegli appelli l’hanno ricevuta, ed è stata una risposta disfattista verso la lotta contro i grandi poteri capitalisti e guerrafondai dell’Occidente: o c’è stato il ritorno a casa di tanti giovani e lavoratori proprio nel momento in cui i pilastri della democrazia davano alle fiamme Falluja; o c’è stato il ringraziamento rivolto ai "nostri" servizi segreti, al "nostro" governo, alle "nostre" istituzioni per il buon lavoro fatto sul "caso delle due Simone". In un caso e nell’altro, i lavoratori e i giovani del movimento per la pace hanno fatto giungere agli sfruttati e al popolo iracheno la loro "disapprovazione" della resistenza armata all’occupazione neo-coloniale che vede in prima fila anche il "nostro" paese, le "nostre" truppe, il "nostro" governo, i "nostri" servizi segreti. E il "consiglio" di seguire la via "pacifica", la via "elettorale"...
Davanti a questo isolamento di fronte alla più potente macchina militare mai esistita sulla faccia della Terra, e alla fame, alle acque inquinate, alla diffusione dell’epatite, ai bambini che muoiono di fame o sono a rischio rapimento per traffici vergognosi, davanti a questa situazione drammatica era inevitabile che quel processo di radicalizzazione e di fraternizzazione tra gli sfruttati iracheni subisse una battuta d’arresto, che molti lavoratori sciiti dessero credito alla promessa di Al Sistani e di Chalabi secondo cui la conquista della maggioranza nell’assemblea costituente da parte dell’Alleanza Irachena andrà a vantaggio anche dei lavoratori iracheni.
Serve un’organizzazione autonoma degli sfruttati
Questa via di scontro frontale ed extra-parlamentare, che al momento viene percorsa ancora da un coraggioso settore della resistenza irachena, sarà però quella che gli sfruttati sciiti saranno obbligati a riprendere e che riprenderanno perché l’alleanza, anche conflittuale, tra Al Sistani-Chalabi e gli Stati Uniti offrirà loro un avvenire tutt’altro che roseo. Lo stesso accadrà ai lavoratori curdi, l’altro settore degli sfruttati iracheni che si è recato in massa alle urne, ammaliato (per ora) dalle promesse "kossovare" di Talabani e Barzani.
Per quanto nel voto di domenica le scelte degli sfruttati dell’Iraq siano state diverse, sia chi è andato a votare e sia chi non vi è andato, sia chi ha votato l’Alleanza Irachena e sia chi ha votato il raggruppamento kurdo, tutti hanno cercato di far valere comunque la stessa esigenza: quella di risalire dall’inferno in cui sono precipitati e di conquistare un futuro da esseri umani. Quella che, per trovare soddisfazione, richiede la continuazione e il rilancio di una lotta radicale contro le potenze occidentali, contro le classi sfruttatrici e parassitarie locali più o meno infeudate ad esse, contro i loro mercanteggiamenti sulla pelle del mondo del lavoro, contro l’incipiente balcanizzazione del paese. Quella che richiede di riprendere e non di far regredire il processo di fraternizzazione multi-confessionale e multi-nazionale iniziato nella primavera 2003. Quella che richiede il superamento del limite maggiore scontato finora dalla resistenza popolare in Iraq: la mancanza di un’organizzazione autonoma degli sfruttati in grado di guidare la lotta di liberazione nazionale in modo coerente con i loro interessi di classe. Un’organizzazione che inquadri la lotta contro l’occupazione dell’Iraq nella prospettiva dell’accensione della rivoluzione antimperialista in tutta l’area, che punti all’allargamento del fronte di lotta nei paesi vicini alleati dell’Occidente capitalista, che basi la sua iniziativa sul protagonismo delle masse lavoratrici, sulla difesa intransigente delle loro esigenze e sulla prospettiva del potere sovietico. Un passo, questo, a cui sono interessati e che deve vedere protagonista, insieme agli arditi militanti antimperialisti impegnati in Iraq, la massa degli sfruttati del mondo arabo e del mondo musulmano. La dominazione imperialista, infatti, non può essere sradicata senza questo profondo coinvolgimento che richiede ideologie e metodi d’avanguardia, non avanguardistici.
Un fronte antimperialista tri-continentale
C’è chi si chiede come gli Stati Uniti possano dare la mano ad Al Sistani in Iraq e, contemporaneamente, attaccare gli alleati sciiti di Al Sistani al governo a Teheran. Il fatto è che gli Stati Uniti se ne fregano del credo religioso dei popoli, delle classi sociali e dei partiti politici. Guardano agli interessi materiali in campo. E gli interessi mostrano che nel caso dell’Iran c’è qualcosa che non va bene per i macellai che dominano il mondo. Agli occhi della finanza e dei governi occidentali il governo di Teheran ha il grande merito di essere riuscito ad arginare, nel 1979, la radicalizzazione internazionalista della rivoluzione popolare (anch’essa un colpo di stato?) che cacciò lo scià da Teheran. Esso non è diventato però il governo quisling che sarebbe piaciuto a Washington, a Roma, a Parigi, ecc. Neanche quando ha subìto l’aggressione dell’ariete che l'Occidente gli ha scagliato addosso: l’Iraq di Saddam Hussein degli anni ottanta. Lo stato islamico di Teheran ha invece portato avanti una politica di "indipendenza nazionale" che non ha permesso e non permette il pieno dominio dell’euro-dollaro sul petrolio e soprattutto sulla manodopera, numerosa e qualificata, del paese. Una colpa inaccettabile. Aggravata dal fatto che la classe dirigente iraniana sta entrando a far parte del "blocco intercontinentale" costituito in chiave "antimperialista" da alcuni paesi dell’America Latina, dal Sudafrica e dalla Cina. Un blocco "terzomondista" che da ultimo ha trovato voce nei comizi di Chavez al Forum Sociale di Porto Alegre, e che mira al coordinamento borghese delle politiche dei paesi del Sud e dell’Est del mondo per promuovere nel mercato capitalistico mondiale un’area geopolitica protetta dallo strapotere occidentale e, proprio per questo, in grado di garantire lo sviluppo nazionale e la giustizia sociale all’interno dei propri confini.Questa politica antimperialista di stampo borghese non potrà realizzare le sue promesse e risolvere i problemi del sottosviluppo e della dipendenza dei continenti di colore. Non potrà farlo perché essa, come quella della Russia di Stalin di cui rappresenta la versione aggiornata all’inizio del duemila, punta ad una semplice redistribuzione della ricchezza mondiale e non già alla distruzione del meccanismo all’origine dell’oppressione dei continenti di colore da parte dei paesi imperialisti: il mercato capitalistico. Il "blocco antimperialista tricontinentale" contiene però il pericolo (per gli interessi imperialisti) di mettere in relazione i destini degli sfruttati dei tre continenti, di portare alla loro coscienza l’evidenza del fatto che i problemi in campo vanno affrontati a scala mondiale...
Segnali di "pace" per nuove guerre
Si sa da dove si comincia e non si sa dove si finisce –si mormora nei palazzi di vetro occidentali–, ed è meglio che si corra presto ai ripari. Sta qui il segreto del riavvicinamento tra Washington e Parigi. Altro che ritorno della Casa Bianca ad una politica estera conciliante! È l’accordo che si ristabilisce tra briganti per far fronte all’alleanza che minaccia di limitare il saccheggio comune che essi compiono, pur armati l’uno contro l’altro, ai danni di miliardi di persone in America Latina, in Africa e in Asia. E devono far presto, perché il tempo lavora contro di loro.
Per questo gli Stati Uniti hanno fretta di normalizzare l’Iraq, anche a costo di pagare un provvisorio pedaggio agli Al Sistani, in attesa magari di un futuro regolamento di conti con essi. Anche al costo di concedere qualche contropartita alle potenze "pacifiste" europee. Anche al costo, se tutto ciò e
la strategia degli squadroni della morte con regista Negroponte non dovesse bastare, di arrivare a paralizzare la forza degli sfruttati iracheni con la completa jugoslavizzazione del paese e lo scatenamento della guerra civile tra sciiti, sunniti e curdi. Gli Stati Uniti hanno fretta di disimpegnare una parte delle loro forze dal "pantano iracheno" e di far funzionare le enormi basi militari installate in Iraq per quello a cui sono state destinate: essere le retrovie dell’aggressione all’Iran (e forse all’Arabia Saudita e alla Siria se Riyadh e Damasco non ubbidiranno alla messa in riga partita dalle capitali occidentali, compresa quella "pacifista" di Parigi), essere il muro divisorio per ostacolare la potenziale unificazione di lotta tra gli sfruttati mediorientali dall’Iran al Libano a Gaza.
Che la preparazione di questi nuovi capitoli non sia fantascienza lo si vede, oltre che dalle parole di Bush, da tanti segnali concreti emersi nelle ultime settimane: il resoconto di Hersh sul New Yorker sulle squadre speciali segrete già inviate dagli Stati Uniti e da Israele in Iran; l’ordine della General Electric (tra le prime multinazionali mondiali) alla Nuova Pignone (di cui è azionista di maggioranza) di interrompere le relazioni commerciali con l’Iran; le dichiarazioni del capo del Mossad sulle necessità di colpire le centrali nucleari iraniane; la fornitura ad Israele (già dotato di centinaia di testate nucleari) di migliaia di super-bombe in grado di penetrare nelle corazze dei bunker sotterranei; la comparsa negli editoriali della grande stampa europea dell’invocazione di esportare (con le "buone" naturalmente!) la democrazia da Bahgdad a Teheran; il "mea culpa" recitato dopo il voto in Iraq dai dirigenti dei Ds sulla loro precedente "opposizione pacifista" all’aggressione all’Iraq...
I compiti degli attivisti "no-war"
I militanti antimperialisti nelle metropoli, i lavoratori più combattivi, i pacifisti di "buona volontà" sono chiamati a denunciare questa campagna guerrafondaia e a preparare la mobilitazione contro di essa. A mostrare che questo nuovo capitolo, in Iraq e nel resto del Medio Oriente, della "guerra infinita" sta facendo il paio con un nuovo capitolo dell’attacco capitalistico contro i proletari d’Occidente. A guardare fiduciosi oltre la coltre di apparente apatia dei lavoratori occidentali, alla crescente durezza della loro condizione e alla necessità per essi di rompere il "patto sociale" che i padroni e i governi hanno da parte loro già rotto. Indicativo a questo proposito quello che accade nel cuore della macchina del terrore del capitalismo mondializzato: negli Stati Uniti, la Casa Bianca ha crescenti difficoltà a reclutare giovani militari e la ricompensa riservata alla massa dei proletari per l’appoggio dato alla guerra patriottica è l’estensione del modello aziendale della Wal Mart, è la concorrenza al ribasso con i proletari dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa che la "guerra infinita" si premura di ridurre a forza lavoro disperata da offrire in pasto ai patriottici lupi capitalisti degli Stati Uniti e degli alleati occidentali.
Questa strettoia rende necessario e possibile ai proletari occidentali aprirsi alla comprensione che i loro interessi si difendono lottando anche contro le spedizioni neo-coloniali dei "loro" governi e dei "loro" padroni. Anche sostenendo la resistenza contro l’aggressione militare e finanziaria occidentale condotta dagli iracheni, dai palestinesi, dai popoli e dai lavoratori dei continenti di colore. Anche stringendo con essa un unitario fronte di lotta contro un nemico che è comune.
Lo sviluppo di questa opposizione proletaria alla "guerra infinita" richiede però anche una battaglia politica che i lavoratori e i pacifisti attivi in ciò che resta del movimento "no war" hanno la responsabilità di portare avanti a partire dalle prossime iniziative per la manifestazione del 19 marzo 2005 per il secondo anniversario dell’occupazione dell’Iraq. Che si costituiscano organismi stabili per portare avanti una propaganda instancabile verso e tra i lavoratori sui compiti a cui ci chiama la politica guerrafondaia dell’imperialismo! Che si faccia un bilancio impietoso sulle politiche illusorie con cui si credeva di fermare il rullo compressore di Bush e di Berlusconi! Che si indichi nel "nostro" governo, nei "nostri" padroni i dittatori principali contro cui lottare, da mandare a casa e di cui augurarsi la sconfitta in Iraq e negli altri paesi del mondo in cui hanno inviato le loro truppe di occupazione! Che si inizi a tessere il filo per un vero legame di solidarietà con la resistenza degli iracheni e le lotte dei popoli e dei lavoratori del Sud e dell’Est del mondo, un legame che può trovare la sua bandiera solo nel comunismo internazionalistico, nella costituzione di un nucleo di partito comunista ancorato ad essa nel suo programma e nella sua azione politica, e che toglierebbe di mezzo il vero ostacolo che ha impedito alla resistenza antimperialista in Iraq di tagliare i cordoni con gli Al Sistani, i Talabani, gli Al Yawar, di bruciare le illusioni sul "pacifismo" dell’Europa e sviluppare tutte le sue potenzialità oltre la già mirabile battaglia condotta finora contro le maggiori potenze militari del mondo.