Elezioni Usa
Nei due discorsi di insediamento Bush si è rivolto ai lavoratori degli Stati Uniti e ai popoli del Medio Oriente e di tutta l’Asia. Agli uni ha promesso un miglioramento della loro condizione grazie al taglio del peso della macchina statale sulle attività imprenditoriali. Agli altri la democrazia, secondo il copione jugoslavo, ucraino o iracheno, dipende...
I contenuti reali dell’agenda di Bush annunciano invece un nuovo affondo nell’attacco che da trent’anni il capitalismo statunitense e mondiale porta avanti contro i lavoratori, negli Usa e nel mondo intero, e contro i popoli dei continenti di colore.
Al centro di questo affondo, l’intensificazione e l’allungamento del tempo di lavoro dei proletari, la continuazione verso Oriente della "guerra infinita", la militarizzazione della società statunitense e dell’intero Occidente.
La classe lavoratrice degli Stati Uniti
non è irregimentata dietro la politica di Bush.
A commento dei risultati elettorali statunitensi, la grande stampa ha messo in evidenza che il programma di Bush ha riscosso un enorme e inaspettato successo tra la "gente comune". Addirittura tra gli operai. I quali – secondo queste analisi informate – avrebbero abbandonato il riferimento ai loro interessi di sfruttati per passare al sostegno dei "valori" dell’imperialismo yankee e di una politica, quella di Bush appunto, diretta anche (noi diciamo in primo luogo) contro loro stessi. Sul Corriere della Sera De Rita ha parlato di "blocco sociale inatteso" tra i re del capitale e le classi medio-basse. Il manifesto del "voto degli infelici in tempo di crisi"...
Queste analisi danno ad intendere, più o meno esplicitamente, che negli Stati Uniti non c’è niente da fare per quanti, tra i lavoratori dell’Europa e i popoli e gli sfruttati del Sud e dell’Est del mondo, vi hanno visto nei mesi scorsi un alleato nello scontro con il gendarme delle multinazionali e della finanza. "Là" ci sarebbe un unico fronte reazionario, da combattere in blocco. Magari con la costituzione di un altro blocco capitalista europeista...
Non ci accodiamo neanche questa volta.
Per presentare le nostre antitetiche analisi e conclusioni, ci è utile partire da alcune sensate riflessioni riportate sul manifesto da Portelli e Tonello. Oltre a mettere kappaò la bufala di Bush quale "presidente più votato della storia", i due articoli contengono i dati, che riportiamo nel riquadro, per comprendere come non ci sia stato alcun plebiscito pro-Bush. E come anche i proletari che lo hanno votato lo hanno scelto non perché dimentichi dello sfruttamento che subiscono bensì proprio per gli stringenti problemi politici che esso pone a loro e a tutti i lavoratori, anche a quelli che hanno scelto Kerry. E a quelli che si sono astenuti, una massa di decine e decine di milioni di persone risultata stranamente invisibile agli informati commentatori.
I lavoratori e la campagna elettorale
I veri dati parzialmente nuovi delle presidenziali Usa sono stata l’attenzione maggiore del solito con cui i lavoratori hanno seguito la campagna elettorale e i temi che si sono imposti al centro di essa: da un lato la guerra all’Iraq, dall’altro il suo risvolto interno, la continua compressione delle condizioni di lavoro e di vita degli sfruttati negli Stati Uniti, di quelli immigrati innanzitutto. Ne abbiamo già parlato nei numeri precedenti del nostro giornale. Nel tempo da allora trascorso prima delle elezioni di novembre, vi era stata, nell’estate 2004, la bella "novità" dell’inizio della mobilitazione contro la guerra da parte del movimento sindacale statunitense. Ne abbiamo dato notizia sul nostro sito. Qui ci limitiamo a ricordare che a cavallo della vivace contestazione della convention repubblicana di agosto vi erano stati i primi frutti dell’iniziativa del cartello sindacale della U. S. Labor Against the War. Alcune organizzazioni sindacali (la Service Employees International Union, la American Federation of State, County and Municipal Employees e l’intera federazione della Afl-Cio dello stato della California, rispettivamente 1.6, 1.4 e 2.5 milioni di iscritti) avevano iniziato a discutere e ad approvare mozioni che riprendevano i capisaldi della piattaforma della Uslaw (v. riquadro).
A questa polarizzazione si è aggiunta l’incrinatura dell’appoggio convinto dei marines alla guerra di Bush e la partecipazione di una parte dei loro famigliari alle iniziative per il ritiro delle truppe dall’Iraq. Dall’autunno scorso il Pentagono si sta trovando davanti all’inedito problema di come disporre del numero di militari richiesto dall’occupazione dell’Iraq e dalla prosecuzione della macelleria a stellestriscie in Medio Oriente e nel resto dell’Asia. Le cartoline di richiamo spedite addirittura alla Individual Ready Reserve (una specie di riserva della riserva composta da persone che da anni non partecipano ad alcuna esercitazione) avevano incontrato una risposta positiva solo nel 50% dei casi. Che fare?, si sono chiesti i vertici del Pentagono. Reintrodurre la leva obbligatoria? Sarebbe una soluzione, ma essa reintrodurrebbe i rischi, presenti già nelle forze armate professionalizzate di oggi, di insubordinazione di massa per evitare i quali dopo la guerra del Vietnam fu messo da parte il servizio di leva. Intanto alla vigilia elettorale i medici militari e gli stessi comandi continuavano ad ammettere che oltre ai tanti militari morti il paese avrebbe dovuto prepararsi a ricevere dall’Iraq "un diluvio di decine di migliaia di soldati con seri problemi mentali provocati dallo stress e dalla carneficina della guerra". Sul problema è tornato di recente il New York Times (16 dicembre) citando uno studio del Pentagono nel quale si rileva che da uno a due soldati su sei inviati in Iraq presenta sintomi di depressione acuta, forte ansia o disturbi mentali post-traumatici...
Perché continuare una guerra che non è nostra, che costa centinaia di miliardi di dollari, che sta uccidendo così tanti giovani statunitensi e lasciar invece che si restringano le spese federali per la sanità e peggiorino le nostre condizioni di lavoro? Questa la domanda che ha cominciato a tenere banco tra i proletari durante la fase finale della campagna elettorale. Ce ne ha dati alcuni esempi Sansonetti raccontandoci, quando era ancora all’Unità, di discussioni nei bar e nelle strade degli States fatte dalla gente "schifata dalla politica", che non vuole avere niente a che fare con la politica ma tutti ruotanti attorno a problemi politici, quelli che una vera politica proletaria dovrebbe affrontare di petto. Quelli che, a detta di Chomsky (Znet, 29 novembre 2004), alcuni seri e recenti studi sull’opinione pubblica statunitense rilevano essere al centro delle preoccupazioni della "gente comune": "alla richiesta di scegliere l’elemento più rilevante della crisi morale che sta di fronte al paese" il 60% risponde citando la "povertà e l’ingiustizia economica" oppure "l’avidità e il materialismo" (non è difficile immaginare di chi). In autunno il sentimento dominante nell’opinione pubblica era diventata l’ansia. Parola della Washington Post (4 novembre 2004).
Con queste notizie non vogliamo presentare un quadro idilliaco, con una classe lavoratrice statunitense organizzata a sostenere una resistenza di massa alla politica di Bush o addirittura all’offensiva contro di essa. Non solo permane una profonda atonia politica della massa proletaria ma non sono poche neanche le difficoltà delle iniziative sindacali e no-war a tradurre la polarizzazione in crescita sul piano oggettivo e psicologico in un iniziale coerente percorso di organizzazione politica centrato sulla difesa intransigente degli interessi proletari e sulla solidarietà fraterna con le lotte dei popoli aggrediti dal proprio governo. Lo si è visto anche con l’iniziativa della One Million Workers March convocata a Washington, proprio alla vigilia delle elezioni, per porre il non più eludibile problema di una rappresentanza politica dei proletari indipendente dai partiti repubblicano e democratico e svoltasi con un’adesione francamente deludente.
Eppur con questi limiti, alla vigilia delle elezioni i lavoratori degli Usa e quelli tra loro arruolati nelle forze armate non erano affatto (e non lo sono tuttora) una retrovia sicura per i terroristi del Pentagono e di Wall Strett. Il tutto in un quadro economico che stava già perdendo il fiato della mini-ripresa del 2002-2003 e scontando i rischi connessi agli enormi "deficit gemelli" e alla vertiginosa crescita delle spese militari.
La contesa elettorale ufficiale
I più lucidi rappresentanti degli interessi capitalistici statunitensi hanno valutato correttamente il senso, niente affatto congiunturale, di questa situazione, e le difficoltà da essa buttate sul tappeto al piano neo-conservatore di difesa del ruolo degli Stati Uniti nel mondo tutto giocato, può essere diversamente?, sullo sfruttamento del lavoro proletario, negli Usa e nel mondo, sul saccheggio delle risorse dei continenti di colore, sullo schiacciamento militare delle resistenze dei popoli e degli sfruttati di colore. Alcuni settori della grande finanza statunitense, ben rappresentati dalla conservatrice Washington Post e dal "progressista" New York Times, hanno consigliato alla Casa Bianca di frenare. Non di cambiare programma, si badi bene, ma di portarlo avanti con gradualità e di riservare maggiore attenzione al rapporto con gli alleati europei e ai costi sociali interni della guerra. A tal fine hanno anche spronato il cavallo-"alternativo" Kerry ad assumere questo tipo di mandato. Davanti alla riconferma e, anzi, alla radicalizzazione del loro "piglio" da parte dei "neo-cons", il New York Times è giunto a scrivere: "Sono degli irresponsabili." Non è vero. Proprio perché la dirigenza repubblicana è massimamente responsabile verso la salvaguardia del capitalismo mondiale e del dominio su di esso da parte degli Stati Uniti, si sta battendo per portare avanti l’agenda apocalittica di Bush. Sa che non c’è altro modo per dare slancio al profitto. E che occorre anche affrettare i tempi, prima che le polarizzazioni tra le classi all’interno degli Stati Uniti e tra le nazioni nel mondo si approfondiscano.
Ecco qual è stata la contesa attorno a cui si è giocata la campagna elettorale ufficiale. Non lo scontro di due prospettive antitetiche. Ma due modi, neanche troppo diversi, di portare avanti la stessa "agenda". Stabilita non da Bush ma dal capitalismo. Come sorprendersi che 100 milioni di persone, di estrazione sociale "medio-bassa" e con larga percentuale tra gli immigrati, abbiano disertato le urne? E che ben 30 milioni di neo-iscritti ai registri dei votanti non si siano poi presentati alle urne?
Né è da pensare che il partito repubblicano non abbia saputo recepire gli allarmi inviati dai centri finanziari del paese. Sia sul piano internazionale dei rapporti con l’old Europa, come si è visto con l’iniziativa verso la Francia. Sia sul versante interno: qui a partire dall’estate il partito repubblicano ha accentuato l’azione militante delle sue propaggini di base, soprattutto di quelle legate alle chiese evangeliche. E lo ha fatto rivolgendosi proprio ai lavoratori, anche a quelli immigrati. Offrendo ben altro che "valori astratti".
Bush e i lavoratori
I neocons hanno offerto innanzitutto il quadro della situazione. Che i proletari hanno percepito (giustamente) essere più vicino alla realtà di quello ancora invischiato nelle reminescenze keynesiane del XX secolo dei democratici. "Si va alla resa dei conti tra il Bene e il Male", ha detto Bush. Ed è così. È quello che hanno cominciato a sentire i proletari, soprattutto dall’11 settembre, a partire dalla scoperta della vulnerabilità degli Stati Uniti ai contraccolpi dell’odio che la loro politica suscita nei popoli del Sud e dell’Est del mondo, a partire dai tratti barbarici (non è esagerazione) che sta assumendo il lavoro e la vita sociale negli Stati Uniti. È quello che diciamo anche noi. Aggiungendo, "piccolo" particolare, che la resa dei conti non è tra il cristianesimo e l’islamismo o tra la democrazia e la dittatura, ma tra due sistemi sociali, il capitalismo e il comunismo.
I neocons hanno poi offerto ai lavoratori una ricetta generale per affrontare la crisi storica che si sta aprendo. Essa viene rappresentata dai valori celesti del cristianesimo. Ma questi valori hanno un significato ben piantato in terra. Promettono che se verranno sterminati i "nemici della libertà", all’oggi gli "islamici" e i "confuciani", i lavoratori degli Stati Uniti non perderanno tutto. In questa "guerra infinita" dovranno sostenere grandi sacrifici, certo. Sacrifici economici e umani. Dovranno perdere qualcosa, forse anche tanto. Ma per fare il tentativo di non perdere tutto e di ricostruire il mondo che si sta sgretolando "più bello che prima".
Anche noi riconosciamo che, entro i limiti indicati dai dati riportati all’inizio, questa prospettiva ha attratto una parte dei lavoratori statunitensi. E che essa minaccia di attrarne ancor di più. Ma la domanda da porsi è perché sia avvenuto ciò. Forse perché i lavoratori degli Stati Uniti sono geneticamente tarati al patriottismo e all’abbraccio con i loro sfruttatori? Forse perché la promessa dei repubblicani ha qualche chance di realizzarsi? Né per l’uno né per l’altro motivo.
Ce lo "suggerisce" innanzitutto la storia (troppo poco conosciuta) del movimento proletario negli Stati Uniti. Che ci racconta ben altro, ci parla di una tradizione di lotta di un certo spessore. Sia per quanto riguarda la partecipazione alle lotte "risorgimentali" del popolo americano e sia per quanto riguarda la battaglia per l’emancipazione degli sfruttati. Basti ricordare le grandi lotte per la giornata lavorativa di otto ore con le quali per un periodo alla fine dell’ottocento gli operai statunitensi si posero all’avanguardia del movimento proletariato internazionale. La deriva è intervenuta più tardi. È stata l’effetto dell’incontro delle lotte rivendicative proletarie con la conquista da parte degli Stati Uniti della posizione di dominio sul mercato mondiale, con la possibilità da parte dei capitalisti statunitensi di poter concedere alti salari e impieghi sicuri grazie alla posizione di monopolio posseduta nel saccheggio dei continenti di colore. Deriva che (come ricordiamo nella scheda riportata sul nostro sito) i capitalisti e i politici statunitensi democratici e repubblicani hanno cercato di rafforzare mediante lo sviluppo di un meccanismo elettorale mirato a scoraggiare la partecipazione degli sfruttati alle elezioni se non come "singoli cittadini" accodati ad una delle due "alternative" politiche riconosciute come legittime. (Quello che i due poli "alternativi" italiani vorrebbero rifilarci come la panacea dei mali dei lavoratori in Italia!)
My rights non fa più rima con my country.
È rispetto a questo abisso che va valutata la situazione odierna e i suoi sviluppi.
Oggi le basi oggettive del patto social-sciovinista stabilito nel XX secolo stanno venendo meno. Nel secolo scorso era la Ford l’impresa che rappresentava negli Stati Uniti il rapporto tra gli sfruttatori e gli sfruttati. Oggi è la Wal Mart. La Ford si impose grazie all’intensificazione dello sfruttamento realizzato mediante l’introduzione della catena di montaggio: con esso però poté garantire alti salari. Ciò le permise di attrarre la migliore forza lavoro e di "fidelizzarla". La Wal Mart si sta imponendo sul mercato mondiale e sui lavoratori con altri mezzi: con i bassi salari, con i rapporti di lavoro precari, con un elevato turn over, con il taglio esteso dell’assistenza sanitaria, con le politiche anti-sindacali (diecimila lavoratori licenziati ogni anno nei centri Wal Mart Usa per motivi sindacali!).
Tempi di guerra si annunciano anche per le condizioni di lavoro nelle imprese degli Stati Uniti e per ciò che resta del welfare state (come mostriamo nelle schede sul sistema sanitario e previdenziale statunitense presentate sul nostro sito). Sì, è vero che una condizione di lavoro meno dura e un posto "sicuro" è riservata ai lavoratori delle ditte legate al complesso militar-industriale, come ad esempio a quelli della Boeing sul cui passaggio elettorale dal polo democratico a quello repubblicano ha così tanto insistito la stampa italiana. Ma quanti sono i lavoratori che possono trovare un impiego, e un buon impiego, in questo settore? Senza contare poi che il militarismo, che è stato un ingrediente essenziale per la nascita e lo sviluppo del capitalismo, sta diventando per esso un cancro economico che lo divora dall’interno, come previde cent’anni fa il marxismo rivoluzionario con Engels, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.
Il contenuto tutto terreno dei valori cristiani
In questa situazione i lavoratori hanno paura. Paura di perdere quello che hanno conquistato insieme all’affermazione mondiale del loro paese. Per loro my rights ha fatto rima con my country. In questo quadro e con la storia politica alle spalle che abbiamo visto, è inevitabile che la prospettiva dei neo-cons di difesa del loro country, e dei valori religiosi che simboleggiano il loro country, venga vissuta da molti lavoratori come difesa anche dei loro rights. L’adesione di molti lavoratori, anche non repubblicani, ai valori cristiani, quindi, non prescinde dai loro interessi materiali, così come non vi prescinde quella degli sfruttati mediorientali che cercano nell’islam la bandiera della loro resistenza all’imperialismo. Al contrario, essa vi cerca una rappresentanza di questi interessi. Certo, la prospettiva di Bush calpesta e schiaccerà questi interessi e l’ansia dei lavoratori Usa per un mondo nuovo. Questo è ovvio. Ma una sinistra degna di questo nome, invece di dileggiare i lavoratori per queste loro illusioni, dovrebbe sforzarsi di dare ad essi una vera alternativa rispetto al "bushismo" imperante anche nello schieramento anti-Bush.
Questa prospettiva al momento è assente. L’alternativa a Bush presente sul "mercato politico", quella di Kerry, ha avuto l’effetto di demoralizzare i lavoratori sulla loro capacità di opporsi alla clava delle imprese e di spingerli proprio tra le braccia di Bush, dove almeno si vuole portare fino in fondo il programma social-imperialista che Kerry si limita ad enunciare. Ha scritto bene Portelli: "Credo che molti votanti si concentrano sui valori immateriali sia perché nessuno gli propone niente di altrettanto significativo sul piano degli interessi materiali, tale da cambiare loro la vita; sia perché non credono più che qualcosa possa cambiare" (il manifesto, 6 novembre 2004). Ecco cosa c’è dietro il voto espresso dai lavoratori statunitensi: la paura di precipitare in un inferno di cui già si sentono i morsi, il desiderio di un mondo nuovo e la (provvisoria) impotenza a conquistarlo con i riferimenti politici ed ideologici riformisti che hanno funzionato finora; e nello stesso tempo il fatto che i lavoratori degli Usa non sono ancora riusciti a rimettere in campo la loro prospettiva, la prospettiva della rivoluzione comunista.
I capitalisti rafforzanoil loro partito. E noi?
Che le cose non siano destinate a rimanere ferme, lo mostra però il cammino in crescendo compiuto in questa direzione dal punto di maggiore arretramento politico. Dalla ripresa delle lotte aziendali locali della metà degli anni ottanta, il proletariato degli Usa è passato al risveglio di un sindacalismo militante preoccupato di organizzate i settori precari e immigrati, alla lotta pur ancora aziendale ma addirittura internazionale dell’Ups, alla riorganizzazione della mobilitazione degli afro-americani, alle prime iniziative di lotta degli immigrati latinoamericani (1) fino alla mobilitazione di Seattle nella quale si sono avvicinati temi sindacali e sociali-ambientali, al tentativo di fondare un partito del lavoro, allo sviluppo negli ultimi anni di iniziative contro la guerra intrecciate con tutto il precedente fermento.
Questo percorso è ancora acerbo ed è per questo che i lavoratori si sono divisi davanti alla scelta elettorale di novembre. Ma proprio il percorso fatto, stupefacente se si riflette sullo zero della ripartenza, e il trattamento poco cristiano che gli araldi neo-cons del cristianesimo devono riservare ai loro provvisori "fedeli" proletari, fa ben sperare. Fan ben sperare se nello stesso tempo in questa situazione comincia ad operare un nucleo organizzato di lavoratori per la ricostituzione del partito di classe, cioè di un organo che leghi le lotte per le necessità immediate dei lavoratori a quella per un cambiamento radicale ed internazionale dell’intero sistema sociale. Impariamo da quello che fa la classe capitalistica! Pur disponendo delle leve di comando sulla società rappresentate dal potere economico e statale, essa si sta dotando anche di un altro organo di direzione di sé stessa e della società irregimentata che tenta di costruire: il partito.
Sono anni che i dirigenti conservatori e tutti i capitalisti e i loro ideologi lanciano strali contro l’organizzazione sindacale e politica dei lavoratori. Che cercano di convincerli, dalla "caduta del comunismo", a gettare alle ortiche il "pensiero forte" di una propria coscienza teorica e politica in quanto classe sfruttata distinta nella società capitalistica dalle altre classi sociali. E nello stesso tempo, loro cosa hanno fatto? Su cosa hanno spinto l’acceleratore proprio dall’estate 2004 mirando ad un risultato non tanto e solo elettorale? Si sono dati e si danno da fare per la ricostituzione di un partito militante e di massa incardinato sulla difesa intransigente del sistema capitalistico. Con tutto quel che ne consegue. Anche come azione politica verso i lavoratori per organizzarli dentro il proprio partito contro i loro interessi.
Anche per i lavoratori più avanzati si tratta di puntare su questo terreno nient’affatto elettorale. Con Zizek (il manifesto, 7 ottobre 2004) diciamo che la nostra gente è anche tra i lavoratori che hanno votato Bush. Che o sono anche loro e le loro istanze a diventare protagonisti della lotta per un altro mondo, oppure non lo avremo. Ha ragione ancora Portelli (il manifesto, 12 ottobre 2004) a dire che questo richiede un lavoro di lunga lena e un cambiamento di ciò che è diventata la sinistra nel XX secolo. Lui dice che basti cambiare "linguaggio e atteggiamento" affinché i lavoratori statunitensi (ed europei) arrivino a dire che the fight for my right richiede non the fight for my country ma quella against my country. Noi diciamo che occorre di più. Occorre la radicale rottura con l’impianto riformista. Una lezione che vale anche per la situazione italiana e che è opposta a quella che D’Alema e soci hanno tratto dal voto statunitense.
Essi hanno colto la palla del "voto proletario a Bush" per ripetere il solito ritornello: un’opposizione troppo decisa sulla guerra (quale film hanno visto?) e un’opzione troppo marcata per la difesa sociale dei lavoratori (idem) avrebbero alienato a Kerry il consenso del paese. Dunque, oltre il centro, sempre più a destra, seguendo l’asse della politica del capitale, compenetrando sempre più i valori della "sinistra" dei valori dell’Occidente capitalista. A cominciare dalla rivendicazione del diritto delle potenze occidentali e dell’Italia di fare la guerra ai popoli che non si piegano ai loro diktat, come nelle recenti rivendicazioni di Fassino e Minniti dell’aggressione alla Jugoslavia. Avanti così, che andate bene!