Dove va l’Italia?
Non c’è una via d’uscita dalla "crisi italiana"
che vada bene sia per i padroni che per i lavoratori.
Salari dal potere d’acquisto ridimensionato. Contratti di lavoro all’insegna della precarietà. Ritmi ed orari di lavoro che colonizzano l’intera esistenza sociale. Da tempo la vita per gli operai e i lavoratori sta peggiorando, alla faccia del miracolo italiano che il "presidente-operaio" installato a palazzo Chigi ha messo a segno per sé e per i suoi affaristi.
Negli ultimi tempi una minaccia ancor più grave ha fatto la sua decisa apparizione. Il rischio di un tracollo dell’industria italiana. Esso viene vissuto in prima persona dagli operai della Fiat, della Thyssen, della De Longhi. Riguarda, però, tutti i lavoratori.
È ancora una volta sui sacrifici dei lavoratori che puntano le due ricette in campo per il rilancio dell’Italia: quella di Berlusconi e quella della Confindustria di Montezemolo. I dirigenti sindacali e del centro-sinistra simpatizzano, anzi fanno il tifo, per quest’ultimo, ma il suo appello alla rinascita dell’Italia non promette niente di buono per i lavoratori.
Un declino che viene da lontano
Il declino dell’Azienda Italia nella competizione internazionale è ormai un dato di fatto, che sta acutizzandosi negli ultimi anni, ad onta dell’ottimismo sparso a piene mani da Berlusconi. Lo mette in evidenza anche un recente studio della Confindustria, nel quale si nota come il capitalismo italiano stia arrivando indebolito alla dura "congiuntura" che si annuncia all’orizzonte. Vi arriva, infatti, senza aver risolto il gap di competitività rispetto ai paesi capitalistici più forti, con una produttività del lavoro stagnante, con una rete infrastrutturale antiquata, con un apparato industriale quasi completamente uscito dai settori di punta (l’informatica, la chimica, la farmaceutica, l’elettronica, l’aeronautica), con la Fiat sul punto di andare a tappeto, con un sistema bancario affetto da nanismo ed esposto, malgrado le barriere protettive mantenute da Fazio, a facili incorporazioni dall’estero dei suoi portafogli e della rete industriale da essi dipendente...
Ad essere penalizzate sono soprattutto le imprese industriali legate alle esportazioni sul mercato mondiale, a partire dalle due-trecento aziende medie che rappresentano l’ossatura industriale italiana e le banche con esse intrecciate (Capitalia, Unicredit, Banca Intesa, Banca Nazionale del Lavoro, la nuova Mediobanca post-cucciana). È proprio dai managers e dai grandi azionisti di queste aziende che è partito l’allarme più forte.
Nel 2001 i capitalisti italiani avevano ricatapultato Berlusconi al governo proprio per affrontare i problemi nodali del declino dell’Italia. Problemi che, una decina di anni fa, produssero il vortice di Tangentopoli, la transizione dalla "prima" alla "seconda" repubblica, la scesa in campo del Cavaliere e la formazione del primo governo Berlusconi-Bossi-Fini (1). Dieci anni fa, però, questi problemi non raggiunsero il punto critico per l’arrivo della boccata d’ossigeno che il capitalismo internazionale inalò con il decollo dell’essor asiatico. Ciò permise ai capitalisti di rimandare l’operazione che era al centro del passaggio dalla "prima" alla "seconda" repubblica: la rottura del compromesso sociale che la classe lavoratrice italiana fu in grado di imporre ai capitalisti e ai loro alleati-padrini statunitensi all’indomani della seconda guerra mondiale.
Il primo governo Berlusconi-Bossi-Fini provò ad attuare quello che il piccone di Cossiga e i proclami di Craxi avevano annunciato. Non ci riuscì per la pronta reazione difensiva che i lavoratori seppero mettere in campo sul piano immediato e che consigliò i re della finanza e dell’industria, congiuntura internazionale permettendo, a consegnare il testimone ai governi di centro-sinistra in modo da paralizzare e sfarinare dall’interno la capacità di resistenza dei proletari e nel contempo, dietro le quinte, preparare un più efficiente "polo delle libertà" per il secondo assalto a venire. Che puntualmente è arrivato, grazie all’opera compiuta dai governi Prodi e D’Alema, all’inizio del nuovo millennio, con il ritorno dello spettro della crisi economica internazionale.
L’operato del Berlusconi II
Anche al secondo giro il governo Berlusconi-Bossi-Fini si è scontrato, a partire dalla grande manifestazione di Genova del luglio 2001, con una vasta opposizione proletaria. Ma questa volta, complice la fallimentare politica della direzione Cgil, è riuscito a reggere all’urto e a far passare una serie di provvedimenti scardinanti i "diritti" dei lavoratori. Tutti i capitalisti, il Duca di Montezemolo in testa, gliene sono grati. Se la Confindustria, presunta amica dei lavoratori, avanza qualche critica verso questi provvedimenti è solo semmai perché essi non sono sufficientemente decisi nello spostamento della ricchezza dal lavoro salariato al profitto e agli investimenti (come ad esempio in materia di spesa sanitaria e previdenziale). Tanto per dire gli alleati!
Dal punto di vista del blocco capitalistico italiano legato alle esportazioni sul mercato mondiale, la debolezza del governo Berlusconi-Bossi-Fini sta nell’aver curato troppo i settori di ceto medio e imprenditoriali al riparo dalla concorrenza internazionale, nell’essere stato debole con le inefficienze e i privilegi degli apparati statali e di avere stabilito un rapporto, incarnato da Maroni, troppo semplicistico con i lavoratori dell’industria. Gli imprenditori che si muovono con i loro capitali e le loro merci sul mercato internazionale si sono resi conto che non basta liberarsi dai "lacci" costituti dal potere di condizionamento dell’organizzazione sindacale dei lavoratori. Ciò può essere sufficiente per chi prospera in un mercato protetto. Per chi si trova nella situazione delle imprese di Berlusconi o di quelle del suo alleato Tronchetti Provera. O nella situazione dei professionisti, dei commercialisti, dei palazzinari, degli intermediari immobiliari e di borsa, dei grossisti di frutta e verdura concentrati nel triangolo Verona-Bologna-Milano, dei vecchi e dei nuovi ricchi che nel nome del libero mercato (verso i lavoratori!) hanno prosperato all’ombra delle dogane italiane e reinvestito i propri guadagni nella speculazione borsistica internazionale oppure nel mattone.
"Fare squadra"
Gli altri capitalisti hanno bisogno di qualcosa in più. Hanno bisogno di un "gioco di squadra", di un apparato statale che curi la loro presenza sul mercato mondiale, di un sistema bancario che ne tuteli le esigenze di capitalizzazione e di centralizzazione (come faceva il "cervello" del capitalismo italiano di nome Cuccia), hanno bisogno di drenare e accentrare il "risparmio nazionale" negli investimenti "produttivi" e non in iniziative dispersive o legate alle sinecure dei ceti medi. Denunciano che senza queste ulteriori iniziative l’Italia rischia di essere schiacciata dalla concorrenza "dall’alto e dal basso" portata da paesi come gli Stati Uniti "inclini all’offerta di prodotti – beni e servizi, di consumo e strumentali – caratterizzati da economie di scala, ricerca e sviluppo, innovazione" e da quelli come la Cina e l’India "propensi ad esportare i beni di consumo che l’Italia produce e a importare i beni capitali che l’Italia non produce" (2). E lanciano una proposta di alleanza ai lavoratori dell’industria per un rilancio dell’Italia nell’interesse di tutte le classi produttive. Proposta che, con dosaggi in parte diversi, viene lanciata -insieme all’allarme per la situazione italiana- anche dalle pagine dell’Unità per mano di Reichlin.
Noi comunisti non ci distinguiamo dalla politica della Confindustria, e del centro-sinistra, per la negazione della gravità della situazione, che al contrario chiamiamo i lavoratori a guardare in faccia fino in fondo. Ce ne distinguiamo perché sosteniamo che le vie d’uscita che possono andare bene per l’azienda-Italia e per i capitalisti italiani non possono andare bene per i lavoratori e perché riteniamo che esse vadano combattute entrambe le politiche oggi derivanti dagli interessi capitalistici: sia quella di Berlusconi, sia quella della "nuova" Confindustria.
La ricetta di Berlusconi
Berlusconi prende atto che il capitalismo italiano è irreversibilmente retrocesso nella gerarchia del potere mondiale, che la classe dei capitalisti è scaduta ad un’accolita di singoli padroni e singoli possessori di denaro, e cerca di tutelare la loro possibilità di fare affari all’ombra del capobastone statunitense e del suo programma bellicista, con la solita furbizia italica tesa a ritagliarsi spazi di autonomia verso la Russia e la sponda meridionale del Mediterraneo o a strappare doni alla corte del grande re per i servizi resi come cavallo di troia di una possibile "autonomia europeista", da ultimo con le attenzioni ruffiane (forse non prive di qualche risultato, visti gli orientamenti del neo-capo dei gollisti Sarkozy) verso la gran dama francese affinché raccolga le lusinghe della nuova presidenza Bush, magari andandosi a riprendere Beirut...
Questa politica borghese offre, certo, una manciata di impieghi relativamente ben remunerati e sicuri in alcune imprese tutelate. Quelle del settore delle telecomunicazioni, ad esempio. O quelle dell’industria militare, come insegna la vicenda Agusta che ha ricevuto l’appalto per la flotta di elicotteri di Bush o la vicenda Beretta a cui sembra sia destinato l’appalto per la fornitura delle pistole e delle armi leggere dell’esercito e della polizia dell’Iraq "democratico". La gran parte degli sfruttati dovrà, però, vedersela con la flessibilità, la precarietà e il mercenariato tipici del mondo del lavoro delle economie dipendenti, con la generalizzazione delle pene che già oggi pesano sui lavoratori del mezzogiorno e ancor più sui lavoratori immigrati. Si guardi ai cantieri edili italiani e ci si può fare un’idea di quel che ci prepara il Cavaliere. Questo, nell’immediato. Perché nel futuro c’è per i lavoratori la partecipazione come carne da macello alla resa dei conti tra "il Bene e il Male" preparata dagli Stati Uniti, cioè all’aggressione contro i lavoratori del Sud e dell’Est del mondo per la quale il governo Berlusconi-Bossi-Fini fa la sua parte non solo partecipando all’occupazione dell’Iraq, ma anche inserendo nella finanziaria del 2005 l’acquisto di 46 aerei militari Eurofighter per 3,1 miliardi di euro (!!), il varo a dicembre del sommergibile Scirè (400 milioni di euro) per il controllo strategico del Mediterraneo (a cui verrà affiancata una coppia di sommergibili U212A come caldeggiato dal "pacifista"... Ciampi), lo stanziamento di 4,5 milioni di euro per lo studio della "geomorfologia del Mediterraneo"...
Berlusconi sa che il "suo" progetto potrà avanzare ad una condizione: che il proletariato industriale sia polverizzato, ridotto a plebe, a moltitudine di individui (quella moltitudine che in certe teorizzazioni di "sinistra" appare come un valore positivo!). A cui va fatto sentire il bastone non appena provi a far valere i propri interessi con la lotta collettiva, come è successo più volte nei mesi scorsi. Naturalmente Berlusconi promette, come Bush, che la guerra mondializzata ai lavoratori del Sud e dell’Est del mondo offrirà qualche vantaggio ai lavoratori italiani. Sì, quello che vediamo riservato ai proletari in divisa statunitensi spediti in Iraq o ai dipendenti dell’impresa che sta dettando legge negli States, la Wal Mart...
La ricetta di Montezemolo
La "nuova" razza padrona che fa riferimento al Duca, invece, non è
la dignità di chi produce "beni e servizi" con le proprie mani e non campa a sbafo sulle spalle altrui. Chiede che il governo riduca le sovvenzioni agli agricoltori concesse dalla politica agricola europea così da favorire la riduzione dei prezzi alimentari, metta a disposizione dei lavoratori i soldi "congelati" nel tfr per ridare spazio alla loro capacità di acquisto o per far decollare la previdenza integrativa, tagli la selva di parassitismi interni all’amministrazione pubblica, intervenga nel Mezzogiorno per farne una Cina interna anche con il ridimensionamento delle locali fameliche clientele.
Non dubitiamo che il rilancio del capitalismo italiano richiederebbe misure di questo tipo, ci poniamo, invece, un altro problema: cosa offrirebbe ai proletari un simile progetto? Il degrado, per altra via, ad una condizione sia materiale che politica non diversa da quella a cui lavora Berlusconi. Potrà venirne qualche euro in più in tasca? Può darsi, anche se non certo con i rinnovi contrattuali, come ha detto chiaro e tondo ai metalmeccanici Bombassei; semmai, forse, con misure di detassazione dei salari e soprattutto con lo scongelamento del tfr, misure – peraltro - verso cui inclina anche il governo Berlusconi. Potrà venirne, come sostiene Montezemolo, un posto di lavoro "creativo" nel settore del turismo e nella produzione dei beni di lusso destinati alla nuova classe borghese asiatica? Può darsi che all’immediato, in assenza di shock internazionali, le imprese di questi settori possano continuare a garantire una certa "tenuta" della condizione dei "loro" lavoratori. Ma attenzione: anche in questo ambito la concorrenza internazionale è feroce. La Francia e la Spagna per esempio non stanno con le mani in mano nel turismo. E non c’è bisogno di ricordare quale condizione lavorativa sta dietro i larghi sorrisi da "grand hotel" da loro offerti (su comando) ai paperoni o paperini stranieri. Né la situazione è più rosea per i lavoratori delle imprese che sfornano merci di lusso, poiché anche in questo settore le imprese dell’Estremo Oriente stanno imparando velocemente la "qualità" italiana, e comunque è il costo del lavoro dei paesi asiatici ed est-europei a dettar legge se non si vuol rimanere indietro nella competitività.
Il punto cruciale, tuttavia, è un altro. Queste misure sono solo transitorie, come preparazione del piatto forte del menu della "nuova razza padrona". Il vero segreto del rilancio dell’Italia produttiva, quello che deve dare un senso anche alla razionalizzazione della spesa pubblica e al rilancio degli investimenti nel campo della ricerca, è la torchiatura di tipo asiatico o est-europeo dei lavoratori. Non ci si faccia ingannare dai discorsoni sui paesi-modello del momento, Irlanda, Finlandia e quant’altro. Si tratta sempre, e solo, di chi più sta tagliando il costo del lavoro! Anche dietro il successo delle esportazioni tedesche degli ultimi anni non c’è altro se non l’allungamento degli orari di lavoro a parità di salario e la delocalizzazione "nei paesi a basso salario in particolare dell’Europa dell’Est". Lo è tanto più per i più attardati padroni di "casa nostra": occorre, insomma, che gli operai italiani accettino di mettersi in concorrenza spasmodica sui salari e sugli orari con i lavoratori irlandesi, finlandesi, ungheresi, tedeschi, cinesi.
È questo il futuro che ci viene prospettato dalla "nuova razza padrona", che per ora si guarda bene dall’esplicitarlo, perché, come confidano i suoi esponenti ai giornalisti amici, "si va verso momenti difficili e sarebbe sbagliato arrivarci in polemica con il sindacato" (2). Di più: anche in questo menu, come in quello di Berlusconi, non manca certo il complemento inevitabile della competizione tra aziende: la guerra. Vediamolo in un intervento che viene dalla coalizione di... centro-sinistra.
La ricetta dei Ds
Quanto al centro-sinistra iddio solo sa se e quando sfornerà un suo programma. Ma state certi che sarà difficile distinguerlo come programma riformista che ambisca non diciamo a contrapporsi ma a differenziarsi dai due programmi anti-operai in campo. E state certi che la sua parola-chiave extra-operaia per eccellenza sarà: Europa. Europa per che cosa? Alla questione risponde una delle teste d’uovo dei diesse, che fa il seguente ragionamento. Nelle nuove condizioni del capitalismo mondializzato, egli dice, il "patto sociale" tra i lavoratori e i capitalisti che ha segnato la storia d’Italia nel XX secolo si può rinnovare solo ed esclusivamente entro un orizzonte europeo. La "riscossa patriottica e nazionale" per cui i Ds lavorano deve assumere a punto di riferimento, perciò, il modello europeo in alternativa e opposizione allo strapotere statunitense. Una riscossa che richiede il supporto dei lavoratori e a tal fine la loro raccolta attorno e dentro "un partito riformista europeo che sappia fare politica mondiale".
Cosa significa "fare politica mondiale"? Cosa comporta per i lavoratori? Reichlin non lo dice. Ma sulla rivista legata ai Ds, Gli argomenti umani, forse perché pubblicazione a limitata tiratura, un po’ di "arrosto" lo troviamo, ed è nel riferimento all’esercito di cui l’Europa deve dotarsi per far valere nel mondo il suo modello "sociale", che altro non è, poi, se non un welfare modificato in senso liberista... alla Berlusconi, dopotutto. Che originalità!
"L’Europa -si dice- deve elaborare una visione dei propri interessi strategici e difenderli, anche quando ciò significa prendere atto di una divergenza tra Europa e America. La soglia politica che ciò presuppone è l’elaborazione della nozione di interesse europeo, espressione di una soggettività istituzionale capace di interagire nelle dinamiche di potenza. (...) La finestra di opportunità per la costruzione di un polo politico europeo non è infinita, data la velocità della transizione: l’esempio tedesco e italiano nell’età di formazione degli stati nazionali ci ricordano che la storia è fatta anche di occasioni perdute"(3).
Insomma, quando le parole diventano meno oscure, ecco spuntare la testa rasata di Mussolini e i baffetti di Hitler. Ecco spuntare il fatto che in Italia, come in Germania o in Francia o in Svezia, il rilancio "autonomo" dell’economia capitalistica richiede di costituire un partito mussoliniano (non finiano!) che riprenda e aggiorni la politica "mondialista" di Mussolini e Hitler e offra ai proletari messi sotto torchio la sublimazione del loro schiacciamento e della loro impotenza nell’irregimentazione dietro una politica estera "anti-plutocratica", anti-statunitense, in alleanza con le altre "nazioni proletarie" dell’Eurasia. Reichlin si ritrae da questa conclusione. Forse perché sa che se un’Europa del genere prenderà il volo, sarà condotta da altre mani; nondimeno il filo del suo discorso porta diritto, e solo, in questa direzione.
Adesso tocca alla periferia della metropoli.
Comunque la si giri, non c’è nessuna via capitalistica di uscita dalla crisi italiana che non sia quella offerta da Bush o quella solo apparaentemente "alternativa" ad essa, in realtà sorella gemella, dell’Europa protesa a rilanciarsi come grande potenza mondiale. Comunque la si rigiri, non c’è nessuna via d’uscita capitalistica accettabile per gli interessi dei lavoratori. Non c’è, perché la crisi italiana non è la mela marcia in un sistema capitalistico mondiale vivo e pimpante. Non è solo l’Italia, è tutto il capitalismo che ha iniziato il suo declino. In Italia si prepara un salto micidiale dell’attacco dei padroni e delle loro istituzioni statali ai lavoratori perché esso è all’ordine del giorno in tutto l’Occidente, con il cannibalismo tra multinazionali e tra apparati statali arrivato dentro le stesse metropoli sulla pelle del lavoro salariato. In Italia il problema è solo più accentuato che nel resto dell’Occidente per le debolezze storiche intervenute nella formazione del suo stato nazionale. Sull’Italia, prima e più che su altre grandi potenze capitalistiche, si cominciano a sentire gli effetti dell’epoca di competizione esasperata, di riarmo generalizzato, di disgregazione sociale e territoriale in cui è entrata la traiettoria storica del capitalismo e che, per ora, ha fatto sentire la sua mano barbarica solo sui paesi del Sud e dell’Est del mondo e soprattutto sulla "ex"-Jugoslavia e sul Medio Oriente. Ora sta per arrivare il turno anche della "periferia" della metropoli, dell’Italia appunto, poi si vedrà. È tempo che un’avanguardia proletaria faccia i conti, fino in fondo, con la realtà che la tutela degli interessi dei lavoratori dell’Italia, dell’Europa e del mondo intero, gli interessi dell’intera specie umana non possono più coesistere con la sopravvivenza del capitalismo.
Nessun retaggio passatista
Berlusconi, così tanto criticato dal punto di vista borghese dalla "nuova razza padrona", è tra i pochi capitalisti che in Italia ha intuito tutto questo. La sua ossessione contro i comunisti, la sua accusa contro di essi per la loro opposizione irriducibile "alla borghesia, alla nazione e alla patria" non è un retaggio passatista. Così come non è una vuota recriminazione sul passato la canea sulle foibe. Da "dilettante" intuitivo quale è, egli si lancia in una sorta di guerra preventiva di propaganda (per ora) contro "lo spettro del comunismo" che sta per riaffacciarsi dal futuro, contro il movimento antagonista che miliardi di sfruttati sono chiamati dal capitale stesso a formare contro i capitalisti, i loro governi, il loro sistema sociale. Ed i suoi più zelanti scagnozzi in televisione subito si precipitano ad allestire trasmissioni filo-squadriste postume contro i manifestanti di Genova. In questo Berlusconi ed i suoi dimostrano un istinto di classe più forte dei signori della Confindustria, i quali si illudono di potersela cavare con manovre di piccolo cabotaggio attuate in collaborazione con il proletariato. Essi rimandano il tema cruciale della formazione dell’organo fondamentale di cui i capitalisti hanno bisogno (insieme ad un ancor più totalitario apparato statale) per irregimentare i lavoratori e la società alle esigenze della competizione globalizzata: l’organo-partito. Si limitano, su questo piano, a premere sul centro-destra e sul centro-sinistra per far maturare i due pol(l)i nella direzione richiesta dai loro interessi senza intervenire sul terreno fondamentale: la raccolta di quella base militante di massa, anche tra i lavoratori, senza la quale un partito capace di rilanciare la nazione è incapace di agire.
Anch’essi, intendiamoci, percepiscono il problema. Solo che, per arrivare ad un "quadro politico" adeguato alle sue esigenze, la "nuova razza padrona" sembra puntare sull’"effetto-centrifuga" (come lo chiama Turani nel suo libretto) innescato da un "grosso shock" interno e internazionale. Il fatto che, almeno per ora, i capitalisti italiani sembrino affidarsi più che altro al miracolo per trovarsi tra le mani "l’uomo della provvidenza", non è per niente tranquillizzante per i lavoratori. È bene, invece, prendere sul serio le implicazioni delle "fantasie" che circolano nei "salotti buoni" e il fatto che esse trovano una prova di trasmissione popolare con gli appelli plebiscitari e "anti-partitocratici" di Berlusconi e con gli appelli per le primarie del centro-sinistra di Prodi altrettanto plebiscitari e altrettanto "anti-partitocratici". Ed è bene tener presente che da questa "grossa crisi" potrebbe uscir fuori anche quello paventato da Reichlin: la jugoslavizzazione del paese.
È possibile. La forza dei meccanismi accentratori del mercato capitalistico internazionale e la demuscolarizzazione della classe capitalistica italiana potrebbero "improvvisamente" farla scivolare dall’attesa del grande salto preparato da Mussolini e rincorso da Craxi-Andreotti allo stadio della borghesia dei borghi. Quella che fa già capolino nella scena politica con lo scalpitante "partito" trasversale ai due poli politici dei governatori regionali, capaci perfino di rivalutare, vedi il duo Borghini-Formigoni, la "centralità" delle "capitali degli stati italiani pre-risorgimentali"... E che trova i suoi appigli istituzionali nei microbi immessi nella nuova costituzione con l’introduzione della camera delle regioni al posto del senato e con la delega alle regioni della "sovranità" su alcune materie di non poco conto come quella sanitaria, quella della polizia locale e della scuola (5).
Rilancio dell’Italia alla Montezemolo; rilancio dell’Italia alla Berlusconi; rilancio dell’Italia-Europa alla Prodi; jugoslavizzazione dell’Italia: che cosa è meglio per i lavoratori? Queste vie d’uscita dalla "crisi italiana" sono per i lavoratori l’una peggio dell’altra.
Note
(1) Nei numeri precedenti del nostro giornale abbiamo svolto più volte un’analisi teorica e storica del "declino del capitalismo italiano". Ricordiamo in particolare il dossier "Dove va l’Italia" del n. 29 del che fare.
(2) G. Turani, La nuova razza padrona, Sperling&Kupfer, Milano, 2004, p. 175
(3)Gli argomenti umani, anno 2004, n. 4, p. 21