Dove va l’Italia?
Sul congresso del Partito della Rifondazione Comunista
I giochi sono finiti... Tiriamo le somme.
Caro compagno, militante o semplice elettore, di Rifondazione, ci rivolgiamo ancora una volta a te -lo facciamo dalla nascita del partito!- e, questa volta, con un’ansia particolare, perché è veramente giunto il momento di tirare le somme se non vogliamo -e crediamo di volerlo con te- che la tua volontà e le tue energie rivolte al "cambiamento" vadano definitivamente disperse. È tempo di bilanci e di scelte decise e definitive. Non lo diciamo noi soli: lo dice lo stesso Bertinotti che, in effetti, preme per essi per chiudere tutta un’epoca di chiacchiere "comuniste" ed aprirne una di pratiche sottoriformiste all’insegna dell’aperta sconfessione di ciò che sin qui rimaneva, sia pure solo verbalmente, di richiamo al comunismo.
L’identica deriva del Pci
Quando nacque il PRC, noi non ci limitammo a segnalare le distanze, o piuttosto l’abisso, esistente tra la nostra impostazione teorica e politica e quella del neonato partito, ma valutammo comunque in modo positivo il segnale esistente in un settore della nostra classe di ripulsa della deriva verso cui era arrivato (per motivi niente affatto insondabili o casuali) il vecchio "glorioso" PCI con la svolta della Bolognina. Questa reazione alla bancarotta riformista, o peggio, costituiva per noi una leva da non lasciar cadere. Ma era altrettanto certo, e lo abbiamo subito e chiaramente detto, che non si sarebbe andati da nessuna parte, ovvero: si sarebbe andati nella stessissima direzione contro cui si insorgeva, se non si fossero fatti i conti fino in fondo coi presupposti di partenza. Il PCI, si diceva allora, "tradiva" la sua eredità storica. Non era così. Il PCI convertitosi in PDS altro non faceva che approdare al porto della conservazione borghese, sia pure sotto vesti popolari, cui l’aveva spinto tutto il corso degenerativo di stampo stalinista da cui aveva preso le mosse: "socialismo in un solo paese", policentrismo, "vie nazionali" autonome e sovrane, competizione pacifica, abbandono di ogni "chimera" rivoluzionaria, elettoralismo come alfa ed omega, politica delle "larghe intese democratiche" etc. etc. sino a… Sino, per l’appunto, all’approdo finale, quello verso cui oggi sta tranquillamente veleggiando il PRC.
Per sottrarsi al destino di secondi arrivati a questo stesso traguardo occorreva, né più né meno, rimettere in causa tutto l’impianto generale sottostante. E, invece, ci si è sempre accontentati di marcare con orgoglio la propria (provvisoria) vecchia identità di sinistra riformista. Non si voleva fare la fine del PDS, ma ci si è limitati a tallonarlo "da sinistra" con "spirito unitario", e pur sempre in nome delle "riforme possibili" entro il sistema ed attraverso l’immancabile via elettoralistica e parlamentare, di cui le famose lotte di massa dovrebbero, al massimo, costituire la spinta suppletiva.
Al tempo stesso, il "crollo del comunismo reale" seppelliva definitivamente ogni residua traccia di visione internazionalistica (che è quanto dire di visione realmente comunista). In un primo tempo si fece anche il tentativo di ancorarsi a Gorbacev (buono quello!), in quanto egli avrebbe dimostrato che il "comunismo" sarebbe stato capace di autorifondarsi diventando… democratico (cioè occidentale, capitalista, ma, a suo modo, "sociale"). Crollato rovinosamente l’equivoco, si fece qualche tentativo di collegamento coi "nuovi" PC dell’Est, cioè con le frattaglie dell’apparato di potere che aveva portato alla rovina il cosiddetto sistema comunista. Strada, anche questa, ben presto abbandonata, e non certo in nome di una (più) radicale rivendicazione dei fondamenti reali del comunismo autentico rispetto ai suddetti "colleghi", bensì per un’ancor più netta scelta di campo demo-occidentale, all’insegna dell’equazione, quanto mai falsa, stalinismo = antidemocrazia.
Restava in piedi, ancora, il riferimento all’altro esteso campo delle lotte sociali e politiche a tinta rivoluzionaria di tutta una serie di altri paesi, con cui, fino a un certo punto, si è "solidarizzato" da lontano (v. Chiapas) ammettendo che là le armi della rivoluzione potevano avere una loro "legittimità" (mentre qui, in Occidente, dio ce ne scampi e liberi!, non è neppure il caso di parlarne). Caso mai si doveva chiamare i paesi di qui, a cominciare dalla civilissima Europa, a dare una mano ai reietti per portarli al nostro stesso livello di democrazia e libertà. Oggi, finalmente, il telone cala anche su questa farsa: come ha detto Bertinotti, e come hanno solennemente sancito tutti i maggiorenti del partito, la "violenza" va bandita dappertutto e senza condizioni e chi non ci sta è un "terrorista". Iracheni, palestinesi sordi ai moniti di Condoleeza Rice, afghani, guerriglieri latino-americani, rivoltosi africani ed asiatici… tutti nel mucchio degli appestati. Persino il buon Che Guevara va tolto dallo scaffale, con buona pace di quei giovanotti che indossano le magliette con la sua immagine nell’atto di andare a votare per Prodi. Bisogna essere coerenti. Sì, coerenti con le ragioni del sistema che ci regge "democraticamente" (con qualche "traccia" di violenza all’ennesimo grado, sospettiamo noi).
Il PRC e i fatti di "casa nostra"
Parliamo di "altro", di cose che non riguardano il "concreto" del "nostro paese" su cui, invece, "misurarci nei fatti"? Sappiamo che in molti compagni del PRC scatta una reazione di questo tipo quando si parla di internazionalismo. L’imbastardimento anticomunista generato dallo stalinismo porta proprio a questo, a non vedere, a non voler vedere, al di là del proprio immediato campicello nazionale. Ma, attenti!: procedendo per questa via non abbiamo solo una visuale spaziale ristretta dei problemi. Questa visuale "nazionale" è, per ciò stesso, totalmente sottomessa alle regole di un sistema che tanto più ci potrà agevolmente schiacciare qui in quanto può schiacciare "altrove" i fratelli della nostra classe internazionale. Il programma "riformista nazionale" cui oggi guarda il PRC ha questa duplice valenza conservatrice e reazionaria. (Usiamo parole forti, ma i fatti ne daranno conferma assai più dura anche a coloro che oggi possono scandalizzarsene.)
L’odio contro il governo Berlusconi, cari compagni!, è sacrosanto, e noi non facciamo che alimentarlo e cercare di tradurlo in coerenti atti di classe da sempre, ma se quest’odio si traduce poi nell’autorinuncia ad una prospettiva antagonista globale e nella sottomissione ad una squallida intesa di giochi parlamentari e di poteri (compresi quelli forti) per rimpiazzarlo conservando e sviluppando al meglio le energie del capitale, quest’ultimo vince contro di noi più e meglio che un qualsiasi Berlusconi. Non diteci che si va a giocare nella squadra Prodi conservando la propria "autonomia". Perché questa squadra è messa in campo proprio per infilare gol nella nostra porta. Potete portarci qualche esempio passato -visto che Prodi e soci non sono propriamente nuovi su queste scene- di nostre vittorie sotto tale bandiera? Qualcuno potrebbe farne anche l’elenco, dalla deregulation del mondo del lavoro a certe imprese di guerra (pardon: "operazioni di pace"!) oltreconfine. E per il futuro? Dubitiamo assai che Luca di Montezemolo si sia messo dalla nostra parte quando chiede una politica degli investimenti più incisiva di quella berlusconiana ed insorge contro la (ridicola) riduzione delle tasse del cavaliere perché sottrae risorse al capitale. E dubitiamo anche che da parte dell’Ulivo possa muoversi foglia contro la "nostra" presenza militare all’estero, che l’attuale governo Berlusconi, tra l’altro, ha in gran parte ereditato dai suoi predecessori di "sinistra". E se guardiamo ai sodali europei dell’Ulivo, ci coglie una qualche apprensione quando vediamo il governo socialdemocratico di Schroeder (per non parlare del laburista -!!- Blair) aver a che fare con una disoccupazione mai stata così alta dal ’33 e far fronte agli obblighi della competitività internazionale attraverso contratti che aumentano l’orario di lavoro a parità o persino con riduzione di salario. Tanto più che nemmeno in Germania o Gran Bretagna mancano, all’interno dello schieramento di governo "di sinistra", le "anime radicali" di tipo Rifondazione.
Prodi è stato schietto nei suoi ringraziamenti a PRC e cossuttiani: vi va dato atto di aver capitalizzato l’insoddisfazione sociale nei confronti di Berlusconi per travasarla a favore dell’Ulivo e di aver posto le condizioni perché essa resti muta e compressa di fronte alle misure di "razionalizzazione capitalista" che dovremo mettere in atto noi una volta al governo. Esattamente di questo si tratta. E non vale la considerazione che se l’Ulivo non terrà fede ai patti (a quali?) si potrà poi sempre ripassare all’opposizione. L’opposizione, l’antagonismo sociale non sono opzioni cui si può ricorrere a piacimento ripescandole all’occorrenza dopo averle precedentemente e in modo pianificato imbrigliate. Nella logica della lotta di classe non si può impunemente portare il proprio esercito alla disfatta e poi pretendere (se mai…) di chiamarlo di punto in bianco alla riscossa. Già il precedente esempio della scissione pro-ulivista dei Comunisti Italiani nel PRC l’ha dimostrato. Oggi, e in conseguenza di tutti i passaggi precedenti, registriamo il fatto che gli scissionisti di allora hanno conquistato il PRC nella sostanza. Che ne sarà dopo?
Tante opposizioni, nessuna vera battaglia
Quest’ultimo quesito lo poniamo anche alle opposizioni interne di "estrema", che vanno dal neostalinismo al "trotzkismo", del PRC. Voi tutti avete vagheggiato per questi lunghissimi anni una "rifondazione di Rifondazione" da spostare a… sinistra (luogo fisico non bene identificato). Come? Inseguendo "criticamente" la strada che, da Garavini a Cossutta a Bertinotti, il partito stava facendo sui suoi binari prefissati. Il PRC andava tranquillamente a capofitto lungo un burrone costellato di continue "svolte" e voi, ligi al centralismo democratico, lo avete sempre disciplinatamente inseguito rivendicando le vostre contrarie "idealità". Non stiamo "astrattamente" a discutere se sia da escludersi a priori un lavoro di frazione entro un partito riformista. Ciò dipende in parte dalle condizioni oggettive di incandescenza sociale e in altra parte da quelle soggettive dell’esistenza, per l’appunto, di una reale frazione comunista in grado di lavorare per l’unificazione di forze indirizzate alla formazione di un vero partito comunista separato dai riformisti (e con ciò non "diminuito", bensì proiettato verso la massa da conquistare). All’atto della formazione del PRC il primo elemento evidentemente mancava pressoché del tutto. Non è che mancassero completamente delle energie liberate dalla crisi catastrofica del vecchio PCI su cui far leva in prospettiva. Ma come si poteva farlo? Solo dando una battaglia complessiva, teorica, politica ed organizzativa in vista della formazione di un nucleo comunista strappato alla deriva tanto occhettiana che garaviniana, e poi bertinottiana. Una battaglia mancata. E di questa mancanza oggi anche voi siete costretti a tirare le somme in perdita nel momento in cui il PRC precipita al fondo della corsa imboccata sin dall’inizio trascinandovi al seguito come "incidente di percorso" da cui liberarsi al più presto (fatta salva la garanzia riconosciuta anche da Blair che possono "coesistere" nel partito "riformista" varie "voci" purché di fatto… mute).
In un articolo di Falce e Martello, una delle tre correnti in cui si è scomposta l’opposizione "trotzkista" entro il PRC, è stato scritto (citiamo a memoria) che il programma comunista portato avanti "nel" partito, deve avere quale punto di riferimento la sostanza dell’antagonismo sociale destinato a scuotere la società attuale e non giochetti interni di contrattazione e potere. Ben detto. Dispiace che da queste sacrosante parole non si derivino le conseguenze del caso. Se effettivamente crediamo che questo antagonismo abbia a scoppiare, dobbiamo ricavarne l’assoluta consegna che per e su di esso si possa e si debba costruire un tessuto di partito incompatibile da cima a fondo con i presupposti bertinottiani. E questo significa non ritagliarsi uno spazio critico entro il PRC ma precostituire uno spazio alternativo ad esso. Teoria, programma, organizzazione. Non potrà essere una soluzione, quindi, la semplice separazione formale (volontaria o forzata) dal PRC. Specie se la rifondazione di Rifondazione avrà tra le sue basi, come ci sembra di percepire, l’ostilità verso gli sfruttati islamici, cioè verso chi è in prima fila nella battaglia contro l’imperialismo e contro il nostro imperialismo in particolare.
In questi anni, in Italia, non sono mancati né episodi di rilievo di lotta di classe né manifestazioni di "movimenti" in grado di indicare le linee antagoniste di frattura. Ma essi sono stati giocati in direzione del rafforzamento del fronte "antiberlusconiano" del "riformismo" centro-sinistro (od anche centro-destro-sinistro) e non in quello della costituzione di un polo di classe. C’è, in questo, qualche responsabilità da parte delle "opposizioni rivoluzionarie" del PRC? Giriamo l’interrogativo agli interessati.
Noi non abbiamo voce in capitolo. Siamo i soliti quattro gatti. Crediamo nel comunismo, quello integrale, che non ha bisogno, da Marx a Lenin alla Luxemburg a Bordiga, di essere "rifondato". Se questo, in cui crediamo, segna i destini dello scontro a venire, possiamo essere certi che, al di là di tutte le forme in cui si manifesterà la ripresa, il contenuto che rivendichiamo dovrà affermarsi. Perciò: non abbiamo voce, la voce ci sarà data. Ci sarà data dall’insopprimibile antagonismo di classe, cui "tutto dedichiamo, meno una bolsa impazienza". E "impazienza" vuol dire acquiescenza.