Ucraina: Jugoslavia, atto secondo
Gli ultimi due mesi dell’anno appena trascorso hanno visto maturare sui mezzi di comunicazione un singolare interesse per gli "eventi interni" avvenuti in Ucraina. I riflettori puntati su una nazione notoriamente lontana dalle cronache nostrane e percepita dai più come distante, sono il segno di come la "questione nazionale" ucraina non sia un argomento di carattere esclusivamente interno, per l’appunto nazionale, ma anzi si tratti di una "faccenda" pienamente inserita nei meccanismi del mondo globalizzato. La sua posizione strategica, tra l’Europa e la Russia, la ricchezza del territorio unitamente a considerazioni di carattere politico ed economico, ne fanno una questione che attira l’attenzione e l’intervento di tutte le maggiori potenze capitalistiche mondiali, a cominciare, ovviamente, dagli Usa e dai paesi dell’Unione Europea.
Se qualcuno avesse dubbi sulle reali motivazioni del tam tam mediatico attorno alle elezioni ucraine, basterebbe a fugarli dare un’occhiata al saggio di Zbigniew Brzezinski La grande scacchiera. Qui l’ex consigliere per la sicurezza nazionale statunitense avverte sull’importanza della posta in gioco: "L’Ucraina assume un’importanza decisiva. La crescente propensione degli Usa ad assegnare un’alta priorità ai rapporti con questo paese e ad aiutarlo a difendere la sua nuova indipendenza viene visto da molti a Mosca – filo-occidentali compresi – come una politica contraria all’interesse vitale della Russia. (...) Tra il 2005 e il 2010, l’Ucraina, specie se avrà fatto progressi significativi sulla via delle riforme, assumendo sempre più un carattere di stato centroeuropeo, dovrebbe essere pronta ad avviare seri negoziati sia con l’Ue sia con la Nato".
In effetti le elezioni ucraine sono state presentate come il momento che ha sancito la volontà di mollare la tradizionale "oppressiva dipendenza" da Mosca, per aprirsi integralmente e a "furor di popolo" all’Occidente.
Ma davvero di questo si è trattato? Proviamo a far chiarezza partendo proprio dalla semplice esposizione dei fatti.
O vince l’Occidente, o non vale.
Autunno 2004: si va al ballottaggio tra il candidato filo-russo Yanukovic (apertamente sostenuto da Putin) e quello pro-occidentale Yushenko. A vincere, con un ristretto margine, è il primo.
Apriti cielo. Si grida subito al broglio elettorale e alla "scandalosa ingerenza russa". Yushenko viene presentato come il perseguitato campione della libertà, mentre Stati Uniti ed Ue chiedono in coro unanime l’immediata ripetizione delle elezioni. Il rappresentante dell’Unione Europea Solana (promemoria: lo stesso che diresse i bombardamenti in Jugoslavia) parte subito per Kiev, seguito a ruota dal fido Walesa. In sostanza i "pro-russi", proclamati in anticipo da tutto l’Occidente come truffaldini e perdenti, sono chiamati a mettersi da parte, perché la "maggioranza pro-occidentale" è per definizione l’unica legittima.
Intanto le strade della capitale ucraina vengono occupate dei seguaci di Yushenko sostenuti da un’organizzazione tutt’altro che improvvisata e foraggiata anzitempo a suon di dollari.
Sotto tanta pressione la corte suprema ordina la ripetizione del ballottaggio. Si giunge così al voto del 26 dicembre che questa volta vede, con profonda soddisfazione sia delle cancellerie europee che di quella statunitense, la vittoria di Yushenko.
Un’affermazione molto meno netta del previsto
La ripetizione delle elezioni (questa volta sì "corrette", vista la vittoria del candidato filo occidentale!) non ha però segnalato ribaltamenti sociali clamorosi.
Nonostante il fiume di dollari (circa 195 milioni) che da Occidente è fluito nelle tasche dello schieramento arancione di Yushenko, nonostante frotte di prezzolati professionisti siano state inviate in Ucraina a sostenere ed organizzare la protesta di piazza, e nonostante la diretta scesa in campo delle diplomazie statunitense ed europee e l’appoggio della maggioranza dei canali di comunicazione di massa, nonostante tutto ciò lo scarto tra i due contendenti è stato a conti fatti ben più contenuto di quanto la nostrana propaganda (e gli addomesticati exit-poll) prevedessero (circa il 7%). I risultati elettorali inoltre "non scalfiscono la frattura geografica di un paese che nelle regioni sud-orientali [quelle con le miniere e le maggiori industrie, n.n.] resta schierato plebiscitariamente con Yanukovic", riferisce l’agenzia Ansa, che fa anche notare come Yanukovic, seppure scaricato dal presidente uscente e suo ex grande sponsor Kuchma e in parte dallo stesso Putin, abbia raggiunto, in alcune zone strategiche, anche il 90% dei voti.
Una Russia più defilata?
Nell’intervallo tra il primo voto invalidato ed il secondo "corretto", la Russia è sembrata prendere un po’ le distanze dal "suo" candidato. Che Mosca abbia improvvisamente dimenticato che la partita ucraina la riguarda direttamente? Assolutamente no. Piuttosto la Russia sta iniziando a percepire come, dinanzi alla pressione occidentale, sia sempre meno pagante tentare di gestire il corso degli eventi nei paesi limitrofi attraverso "l’imposizione" di "propri" candidati. Putin e la sua squadra stanno comprendendo come sia necessario superare in avanti questo metodo "rozzo" e come invece sia più efficace (anche se sul breve ciò può comportare degli arretramenti) far pesare la propria influenza attraverso altri e meno "primitivi" strumenti politici ed economici (1).
Tale impostazione è ancor più valida per l’Ucraina, che ha da poco varato una riforma istituzionale limitante i poteri del capo dello Stato (riforma con cui anche il neo presidente Yushenko dovrà evidentemente fare i conti) e con la quale la Russia ha rapporti strutturali ed economici (2) difficilmente troncabili all’immediato. Non a caso Khri-shenko, ministro russo per l’energia, all’indomani del ballottaggio bis, ha tenuto a ricordare che "i nostri rapporti con l’Ucraina sono valutabili economicamente in circa 15 miliardi di dollari. Chiunque vinca a Kiev non potrà eludere questa realtà" (la Repubblica, 27 dicembre 2004).
L’avanzata verso Est prosegue.
La vittoria di Yushenko segna comunque un bel punto in favore dell’Occidente, che non ha risparmiato energie per conquistare, attraverso tutti i canali possibili, un altro tassello dell’Europa orientale. Imponenti finanziamenti e prestiti sono arrivati da tutte le maggiori potenze ed istituzioni internazionali. Un investimento di centinaia di milioni di dollari in vista di vantaggi decisamente più remunerativi: la mani su una zona particolarmente ricca di materie prime e, soprattutto, lo sganciamento dell’Ucraina dalla zona di influenza moscovita e un privilegiato avamposto per meglio controllare Russia e Cina.
È chiaro infatti che la partita ucraina non si gioca esclusivamente in ambito nazionale, tra due opposti schieramenti politici, ma che si tratta del tentativo dichiarato di strappare alla Russia un territorio geopolitico vitale (3).
L’Occidente, dopo essersi preso Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Lituania, Lettonia etc., mira a Kiev, in mancanza della presa diretta su Mosca, come provincia dipendente, che in altri tempi, non molto remoti, era pur sembrata possibile. È la stessa operazione effettuata sulla Jugoslavia.
In effetti l’accaparramento dell’Ucraina e il più ampio processo di allargamento della Nato ad Est hanno, tra gli altri, l’obiettivo di impedire che la Russia mantenga o recuperi qualche forma di controllo sulle sue antiche periferie, i paesi dell’ex Urss. L’accerchiamento anche militare è un deterrente al tentativo della Russia di "rialzare la testa". Russia che, in effetti, è tutt’altro che passiva. Per quanto costretta ancora a giocare sulla "difensiva", comincia a premere per riaffermare un proprio ruolo di potenza capitalistica a cominciare dalle confinanti repubbliche ex-sovietiche.
E i lavoratori?
"Sganciarsi da Mosca": questo, a sentire i nostri mezzi d’informazione, sembrava essere l’unico e grande desiderio dei lavoratori ucraini, descritti qua da noi come talmente disperati da non veder l’ora di aprire le porte all’Occidente. Le cose stanno diversamente.
È certamente vero che (soprattutto nelle regioni nord-occidentali) una quota di lavoratori, evidentemente delusi dalle politiche fallimentari dei vari Kuchma e dal reale e pesante peggioramento delle condizioni di vita, abbia preso parte alle pubblicizzatissime manifestazioni "arancioni". Ma è altrettanto sicuro che l’anima (si fa per dire) dell’ex-opposizione sia da ricercarsi nella partecipazione attiva di elementi della piccola e media borghesia. In quegli strati sociali insomma che (spesso illusoriamente) vedono nell’ancoraggio all’Occidente una possibilità di proprio arricchimento e promozione sociale e che su questo altare sono ben pronti a sacrificare la pelle dei proletari e le ricchezze "nazionali".
Dall’altra parte le manifestazioni operaie (praticamente oscurate dalla nostrana informazione pluralista e democratica) a favore di Yanukovic organizzate nelle regioni orientali del paese, se da un lato hanno dimostrato il grande potenziale di lotta dei lavoratori ucraini, hanno altresì evidenziato come questo stesso potenziale, se non supportato da un orientamento realmente comunista, finisce per essere smobilitato e destrutturato.
È necessario un argine di classe.
Noi non siamo, naturalmente, di quelli che sostengono i "diritti" russi sull’Ucraina o su altri paesi dell’area ex sovietica, né per il presente né per il passato. Ma in questo quadro non c’è dubbio che una differenza esista tra la linea ultraliberista pro-occidentale che, in nome del riscatto ucraino, chiama le masse lavoratrici a staccarsi da Mosca con la promessa del "sol dell’avvenire" euro-americano (e, in attesa, spremendo fin l’ultima goccia di sangue da esse) e quella pro-russa, che tenderebbe a preservare qualche vestigia di "stato sociale", peraltro costantemente in diminuzione in nome delle "oggettive leggi del mercato", per meglio legare queste masse stesse ad un progetto di sviluppo capitalista non subordinato all’Occidente. È un po’ la storia di Milosevic e dei suoi antagonisti "democratici". Chi è destinato a vincere (se gli sfruttati non riescono ad organizzarsi autonomamente contro entrambe le suddette prospettive ed ad imporre i propri interessi antagonisti)? Di regola il capitalismo più forte, che preme dall’esterno. L’attuale Ucraina è, di fatto, accerchiata dalla pressione occidentale, cui, d’altra parte, lo stesso "post-comunismo" ex-sovietico ha aperto le porte.
La linea "pro-russa", quella cioè che mira allo sviluppo in proprio di uno spazio borghese indipendente e forte, pur segnando dei punti di ripresa dopo il collasso del ’91 e le disastrose esperienze successive, è ancora troppo debole per far fronte a questa pressione.
L’unica possibile forza di reazione alla deriva pro-occidentale (che significherebbe, come successo in tutto l’Est, il trionfo di un ultra-liberismo spietato e dipendente) starebbe nelle mani delle masse sfruttate chiamate a farvi fronte. Ma ciò non potrebbe in alcun caso limitarsi ad una chiamata passiva alle urne, come sin qui fatto ed anche con un certo successo (in calando), bensì nell’attivizzazione in proprio di tali masse, nella loro scesa in piazza con un proprio programma.
Orbene, i "pro-russi", vale a dire la parte nazional-borghese ucraina legata a Mosca, temono come la peste che questo avvenga. In linea teorica astratta, nulla impediva ed impedisce che contro la mobilitazione pro-occidentale scendano in piazza masse antagoniste, che pure si erano dichiarate pronte a ciò, ovvero masse di sfruttati scarsamente inclini alla svendita alle leggi occidentali del libero mercato… dipendente. Sennonché per borghesi del tipo Kuchma o Yanukovic, in opposizione a Yushenko, ma sulla stessa linea di classe, ciò costituisce molto più un rischio che un’opportunità.
Il motivo è semplice. Chiamando alla lotta il proletariato, finirebbero per essere spazzati via essi stessi. La perdurante corruzione, i furti indiscriminati, la caduta verticale delle condizioni di vita reali dei lavoratori sono elementi che difficilmente verrebbero ignorati da un reale movimento di massa in lotta.
È quello che s’è visto in Jugoslavia con Milosevic, garante del (relativo) welfare operaio sin che si vuole, assertore dell’"indipendenza" jugoslava sin che si vuole, pronto ad "appoggiarsi" sulle masse sfruttate (sul piano elettorale) sin che si vuole, ma giammai disposto a scatenare uno scontro di classe contro la propria classe borghese.
Anche il partito "comunista" ucraino ha visto ridursi pesantemente quel seguito ottenuto nelle precedenti consultazioni elettorali, finendo per caratterizzarsi ancor di più come fattore aggiuntivo della destrutturazione della vita politica delle massa proletarie. D’altronde la prospettiva (perdente) di questi partiti cosiddetti "comunisti" non è quella di spingere per un reale protagonismo e un’autoattivizzazione del proletariato, ma al contrario nel tentare di legarlo "alla coda" di una frazione (quello filo-russa) della borghesia, nello scegliere il meno peggio, nell’accontentarsi di un ruolo passivo circoscritto alle sole tornate elettorali. Anziché attrezzarsi per una possibile e sempre più necessaria ripresa di classe, tale orientamento finisce così per inibire e, alla lunga, bloccare la lotta.
Noi, al contrario, diciamo chiaramente quel che c’è da scegliere: non tra due candidati, ma tra l’assenza e la presenza della classe proletaria, contro l’una e l’altra "soluzione". C’è da scegliere tra la destrutturazione e la ricostruzione del partito e del programma di classe del proletariato.
A tal fine non disponiamo di ricette taumaturgiche, ma indichiamo una diagnosi ed una prognosi obbligate. Come ci possiamo lavorare? Innanzitutto uscendo dal tunnel della "scelta difficile" che ci è imposta dal nemico di classe. E, quindi, facendo qui il nostro dovere di comunisti che anche in relazione alla "questione ucraina" ci chiama, tra le altre cose, a denunciare senza mezzi termini tra i lavoratori di casa nostra l’azione vampiresca dell’insaziabile imperialismo occidentale.
Note
1) A tal proposito la rivista Limes (n.6-2004) riporta: "Mosca ha ad esempio ancorato energeticamente la Bielorussia, trattando forniture di gas per i consumi interni a prezzi di favore".
Inoltre recentemente la Russia ha deciso di eliminare l’Iva sulle esportazioni di gas e di petrolio verso i paesi della Csi (Ucraina inclusa). A tal proposito sempre Limes commenta: "In base alla nuova legislazione spetta al paese di destinazione delle forniture energetiche il compito di prelevare l’Iva. Per la Russia si tratta quindi di una perdita netta di circa 1 miliardo di dollari all’anno, che naturalmente serviranno a rinvigorire i bilanci spossati dei paesi clienti di Mosca, per i quali invece la modesta riforma della normativa sull’Iva rappresenta un regalo inatteso ed un atto di generosità, tipicamente russo".
(2) L’Ucraina è di gran lunga il primo paese per investimenti diretti russi ed è il secondo (dopo la Germania) tra gli esportatori verso Mosca.
(3) Si pensi solo al fatto che in Crimea (regione meridionale dell’Ucraina) vi è una delle più importanti basi navali russe e che, appunto, la Crimea costituisce l’unico sbocco nei "mari caldi" per la flotta del Cremlino.