Stati Uniti

 

California, il più grande conflitto sindacale

nel settore privato nel secondo dopoguerra

Quattro mesi senza spesa

Immaginiamo che una parte consistente dei lavoratori della Gs, dell’Esselunga e della Coop scendano in sciopero nell’Italia centrale e settentrionale. Che organizzino picchetti ai parcheggi per invitare la clientela a rifornirsi altrove. Che il 70% dei "consumatori" accetti questo invito. Che la solidarietà si estenda ai lavoratori del trasporto delle merci dai depositi ai supermercati. E che tutto duri oltre quattro mesi, 138 giorni per la precisione...

Bene, una cosa del genere è accaduta. In California. Dall’11 ottobre 2003 al 26 febbraio 2004. Il più grande conflitto sindacale nel settore privato statunitense dal dopoguerra.

All’origine di tutto, la proposta delle direzioni delle tre maggiori catene commerciali della California (la Safeway, la Albertson’s e la Ralphs) di ridurre del 15% i contributi versati dall’azienda per l’assistenza sanitaria dei dipendenti. Tabelle di mercato alla mano, i dirigenti aziendali hanno spiegato che non c’era scampo: "Nel 2004 la Wal-Mart aprirà in California 40 supercentri; o accettate di lavorare di più con meno salario, meno diritti, meno contributi sanitari, così da reggere il livello dei prezzi della Wal-Mart, oppure chiudiamo".

I lavoratori hanno risposto alla proposta con lo sciopero. In 850 punti vendita, 70mila commessi, cassieri e addetti alla manutenzione si sono ritrovati a picchettare i parcheggi dei supermercati da Los Angeles a San Diego. Sia per rivolgersi ai lavoratori "sostitutivi" ingaggiati dalle aziende tramite la Personnell Support Systems, società specializzata nel sabotaggio degli scioperi. Sia per cercare la solidarietà dei consumatori, che poi sono in gran parte altri lavoratori. Questa solidarietà non è mancata. Non solo perché il 70% dei consumatori ha cambiato le proprie abitudini di acquisto. Ma anche perché hanno sostenuto le collette e le food bank, organizzate dalle parrocchie e dagli altri sindacati, che hanno permesso agli scioperanti di tener duro per così tanto tempo.

Le donne e gli immigrati, ispanici e asiatici, sono stati i protagonisti di questo sciopero, che, all’inizio dell’anno, ha cominciato ad assumere rilevanza nazionale e si è imposto all’attenzione della campagna elettorale. Ciò è accaduto perché ogni lavoratore ha visto in quello che stava accadendo ai dipendenti dei supermercati californiani la propria sorte: ben 48 milioni di proletari sono privi di assistenza sanitaria e tanti altri hanno paura di seguirli per la diffusione del modello Wal-Mart entro e fuori il settore della distribuzione. Dallo sciopero di un giorno dei portuali della baia di Los Angeles e dal progressivo rifiuto dei teamsters di trasportare le merci dai depositi ai centri commerciali picchettati, si è passati in dicembre ad una colletta nazionale di mezzo milione di dollari versata dall’Afl-Cio e, da qui, alla decisione di estendere la mobilitazione ai lavoratori della catena Safeway di tutti gli Stati Uniti...

Il 26 febbario è però arrivato l’accordo. Ad una prima impressione, sembra che esso sia stato raggiunto perché l’azienda ha alla fine ceduto. L’accordo infatti conferma il regime vigente per i lavoratori già assunti. Ma solo apparentemente, perché prevede che i neo-assunti avranno una paga oraria inferiore del 10% e una riduzione del contributo aziendale per la sanità. In un settore in cui il turn-over è sostenuto, non è difficile immaginare cosa ciò voglia dire.

L’accordo è stato approvato dai lavoratori. Non però perché è loro piaciuto. Il fatto è che dopo quattro mesi di sciopero o si superava l’impostazione iniziale della lotta oppure ci si doveva accontentare di un parziale accoglimento delle richieste aziendali. Superare l’importazione iniziale della lotta voleva dire cercare il "contatto" con i lavoratori "concorrenti" già assunto o in procinto di essere assunti dalla Wal-Mart per "stimolarli" ad un processo di sindacalizzazione e ad una comune battaglia per un livellamento verso l’alto, non verso il basso, dei propri "diritti". Così non è stato. Così potrà non continuare ad essere, anche grazie a questa importante lotta californiana. Lo richiede l’avanzamento stesso del modello Wal-Mart.


Cos’è la Wal-Mart

La Wal-Mart è una catena di supermercati. Sono 3500 negli Usa, a cui va aggiunto un altro migliaio nel resto del mondo. I 138 milioni di consumatori che ogni settimana visitano i centri commerciali Wal-Mart vi possono comprare di tutto: cibo, elettrodomestici, gioielli, vestiti, persino pistole e fucili.

Da poco tempo la Wal-Mart ha sorpassato la General Motors, ed è diventata la più grande multinazionale del mondo. Un milione e 300mila dipendenti. Il suo fatturato (256 miliardi di dollari) è pari al 2.3% del pil degli Usa e supera il pil della Svezia.

Nei prossimi cinque anni si prevede l’apertura di nuovi mille punti vendita... Qual è il segreto del successo Wal-Mart?

"Everyday low prices", prezzi bassi tutti i giorni, recitano i cartelli esposti fra gli scaffali.

"Everyday low wages", salari bassi tutti i giorni, ribattono quanti iniziano a prendere coscienza dell’"high cost of low prices", di quale sia il reale costo dei prezzi stracciati su cui si regge l’impero Wal-Mart: lo sfruttamento bestiale di centinaia di migliaia di lavoratori e il bastone anti-sindacale (v. riquadro a fianco) con cui viene mantenuto.

Wal-Mart,

anti-sindacalismo militante

I neoassunti vengono sottoposti a otto ore di "orientamento" (leggi: indottrinamento), durante le quali sono introdotti al credo aziendale: la Wal-Mart è una "grande famiglia", i dipendenti sono definiti "collaboratori", i superiori non sono capi o padroni, ma "guide nel servizio". Il primo comandamento da seguire è tuttavia un altro: nessun furto del tempo. Non "fare, cioè, qualsiasi cosa che non sia lavorare durante le ore pagate dall’azienda". Un altro video, intitolato "Hai scelto un gran bel posto di lavoro!", spiega che in un’azienda come la Wal-Mart i sindacati non servono. "Iscriversi al sindacato comporta solo svantaggi: si perde il denaro della quota d’iscrizione, si perde la propria voce, perché il sindacato pretende di parlare al posto dei lavoratori, si perdono salario e benefici1, che vengono giocati sul tavolo delle trattative."

Qualora, nonostante il lavaggio del cervello, qualche lavoratore si ostina ancora a parlare di sindacato, l’azienda ricorre alle intimidazioni, alle ritorsioni, agli "specialisti della contro-organizzazione" e infine al licenziamento. Secondo le stime dell’Afl-Cio (la più grande confederazione sindacale statunitense), ogni anno diecimila lavoratori vengono licenziati da Wal-Mart (con vari pretesti) per motivi sindacali.

I salari dei dipendenti della Wal-Mart (7-8 dollari l’ora) sono inferiori del 25% rispetto ai salari medi degli altri supermercati: nel 2001, il salario medio di un lavoratore Wal-Mart è stato di 13.861 dollari, 800 dollari al di sotto della soglia di povertà calcolata per una famiglia Usa di 3 persone. L’assicurazione sanitaria, che negli Usa viene pagata a livello aziendale, è interamente a carico del dipendente, con la conseguenza che solo un terzo dei lavoratori si iscrive alla cassa malattia. Pane quotidiano per i lavoratori della Wal-Mart sono gli straordinari forzati e non retribuiti, i licenziamenti per motivi sindacali ed altre vessazioni.

Il meccanismo dello sfruttamento made in Wal-Mart si estende ben oltre i confini aziendali, verso i lavoratori delle imprese a cui si appaltano i servizi di pulizia o verso quelli delle ditte fornitrici.

Nei mesi scorsi 250 dipendenti delle imprese che hanno in appalto i servizi di pulizia (tutti immigrati "clandestini", latinoamericani o dell’Europa dell’Est) hanno denunciato di aver lavorato 8 ore a notte per 8 mesi di seguito, al nero, senza mai una notte libera, senza pagamento di straordinari né cassa malattia, per 5,8 dollari l’ora.

Gli agenti Wal-Mart trattano direttamente con i produttori asiatici alla ricerca dei prezzi più bassi.

In Bangladesh, bambini fra i 9 e i 12 anni cuciono magliette destinate alla Wal-Mart a 5 centesimi di dollaro l’ora. Lavorano fin dopo mezzanotte e vengono picchiati se sbagliano. In Guatemala, ragazzi di 12 anni lavorano 13 ore al giorno 7 giorni su 7 e vengono picchiati se rallentano il ritmo di lavoro. Alle Hawaii è stato scoperto un campo di lavoro in cui vere e proprie schiave a contratto fabbricavano capi d’abbigliamento per la Wal-Mart: 230 lavoratrici vietnamite e cinesi hanno raccontato di essere state defraudate del loro magro salario, picchiate, affamate, sessualmente molestate, minacciate di ritorsioni se si fossero lamentate. Nella regione del Guandong (Cina), dove si producono giocattoli per Wal-Mart, l’orario di lavoro può arrivare a 20 ore e mezza al giorno 7 giorni su 7 e la paga è di 16.5 cent di dollaro l’ora (contro un minimo legale di 31). Il 10% delle importazioni statunitensi dalla Cina sono acquistate dalla Wal-Mart...

Questa politica e la grossa fetta di mercato controllata permettono alla Wal-Mart di imporre le proprie condizioni capestro anche ai proprietari delle altre multinazionali e di intascare una parte dei loro margini di profitto. I jeans "George" venduti in Gran Bretagna e Germania sono passati in due anni da 27 a 8 dollari. Questo ha permesso alla Wal-Mart di farsi valere anche su produttori come la Levi’s, costretti ad accettare per evitare che le proprie merci siano escluse dagli scaffali Wal-Mart. Persino la General Electrics, che vende soprattutto alla Wal-Mart gli elettrodomestici prodotti, si è trovata in una situazione analoga...

Va bene, si obietterà, ma la Wal-Mart è un caso estremo, un esempio di capitalismo selvaggio, al di fuori delle regole. No, nessuna "anomalia": la Wal-Mart è "il" capitalismo e basta. Sono le sue leggi di funzionamento, il suo scivolamento nella melma di una crisi storica generale che impongono l’abbassamento sistematico dei costi di produzione, pena la perdita insostenibile di profitti e competitività. I padroni lo sanno bene: o si fa così - o si spremono i limoni -, oppure si è fuori dal giro.