Siemens, la "via alta allo sviluppo"

richiede di tornare

dalle 35 ore alle (per ora) 40 ore.

Ad aprile allo stabilimento Bocholt (Nord-Reno-Vestfalia) della Siemens è stato firmato tra la direzione aziendale e la rappresentanza sindacale un accordo che prevede che per 230 dipendenti l’orario di lavoro settimanale salirà da 35 a 40 ore. L’accordo stabilisce anche un peggioramento assoluto della retribuzione: i sindacati, spiegano alla Siemens, hanno accettato anche l’abolizione della tredicesima e della quattordicesima, che in futuro saranno legate ad una compartecipazione agli eventuali utili dell’azienda.

All’origine dell’intesa l’obiettivo del colosso tedesco di delocalizzare in Asia e nei paesi dell’Europa dell’Est per "sfuggire a quella che viene ritenuta un’eccessiva regolamentazione a favore dei lavoratori" e "far meglio fronte alla concorrenza" (l’Unità, 23 marzo 2004).

"In vista dell’allargamento [dell’Europa - n.n.] e in presenza di una più serrata concorrenza in diverse aree del mondo, il gruppo ha cominciato a fare le pulci in ogni singolo impianto tagliando costi ed impianti. Quando è toccato a Bocholt, la fabbrica renana ha dovuto fronteggiare la "sfida" con un progetto di chiusura e trasferimento degli impianti in Ungheria. Il management aveva già scelto, all’Est si sarebbe risparmiato il 30% dei costi. A quel punto la IG-Metall, guidata dall’oltranzista Juergen Peters, ha accettato l’accordo e il salvataggio dello stabilimento tedesco. Il sindacato non è compatto: ieri l’accordo è stato giudicato un ricatto dal presidente del Dgb, la confederazione sindacale tedesca, Michael Sommer, per il quale ora il contratto nazionale dei metalmeccanici rischia di diventare un "gruviera", con un’eccezione dietro l’altra, fabbrica per fabbrica. Ma intanto in altri colossi, da Daimler-Chrysler a Bosch e perfino nell’amministrazione pubblica sono all’esame piani per tornare alle vecchie 40 ore settimanali" (Corriere della Sera, 3 aprile 2004).