Queste brevi note sono rivolte ai tanti manifestanti contro la guerra che di solito "compaiono" nelle manifestazioni per poi "scomparire" nell’intermezzo, spesso lungo, tra l’una e l’altra mobilitazione.

Intendiamo discutere con loro di una questione, a cui, a nostro avviso, non possono più sottrarsi: quella delle prospettive del "movimento", ed in particolare della sua autonomia e della sua direzione.

 

Per incidere, il movimento "no war"

deve darsi una direzione

all’altezza dello scontro.

Fin dai suoi primi passi il movimento "no war" ha dimostrato in Europa, e in un modo tutto speciale in Italia, una riluttanza a darsi un’organizzazione, un programma ed una strategia d’azione definiti.

Il punto massimo, finora, di questa riluttanza lo si è raggiunto con la manifestazione di Roma del 20 marzo. In essa la sensazione più immediata e palpabile era quella del caos. Tanta gente, pure se ben lontani dai due milioni di cui si è parlato, nel più sparso "ordine" possibile. Una manifestazione che si è subito sfrangiata e sfilacciata in una varietà di microcortei. Una massa di manifestanti duttile e amorfa (vi era perfino chi marciava al contrario), spezzoni che ne superavano altri e, soprattutto, "individui" sparpagliati in mille direzioni. Questo moto confuso non è solo la negazione di qualcosa; è un’affermazione, e assai "fisica", di un rifiuto della "politica" e dell’organizzazione di "partito". Rifiuto che proviene da una sana insofferenza verso la politica e i partiti istituzionali e para-istituzionali della sinistra, che tanto per i loro programmi, quanto per le loro dinamiche di organizzazione interna ed esterna, hanno provocato infinite delusioni. Il guaio è che, per ora, con l’acqua sporca, e di acqua sporca il riformismo ne ha prodotta davvero in quantità, si sta buttando via anche il "bambino"; e che, lungi dall’acquistare maggiore forza, per questa strada il movimento rischia, invece, di depotenziarsi. Di essere in campo senza però riuscire ad incidere per davvero sugli avvenimenti, per un difetto di chiarezza sullo scontro in atto e sulle prospettive, di autonomia dal proprio antagonista, di organizzazione (in senso forte), per un difetto di direzione.

Le conseguenze di questo "difetto" sono gravi, e si possono riassumere nel fatto che il movimento "no war" finisce, nonostante tutto, per subìre l’iniziativa dei "signori della guerra" capitalisti a cui pure intende opporsi. Due esempi per spiegarci meglio.

Il primo è costituito dall’atteggiamento verso la resistenza del popolo iracheno. La coalizione degli stati aggressori e la coalizione degli stati presuntamente "pacifisti", in questo uniti come dei gemelli siamesi, stanno facendo il possibile per isolare la lotta del popolo iracheno, raffigurata (a questo scopo) alla stregua di una miserabile accozzaglia di "bande, banditi e terroristi" da schiacciare senza pietà. Da questa lotta, viceversa, si moltiplicano gli appelli ai "popoli dell’Europa e dell’Occidente" affinché ci si unisca, iracheni e "gente sana" dell’Occidente, nella battaglia ai comuni nemici. Tali appelli sono finora caduti nel vuoto, mentre non c’è leader dell’attuale movimento che non reciti le sue quotidiane giaculatorie "contro il terrorismo", cioé: contro l’unità con gli iracheni, arrivando spesso a muovere ai proprii governi l’accusa di avere loro incrementato il "terrorismo". A eccezione dell’OCI e di pochissimi altri, non esiste nel movimento "no war" alcuna vera solidarietà, alcun vero sostegno al popolo iracheno e agli altri popoli impegnati in strenue lotte di resistenza contro l’Occidente (chi parla più dei palestinesi? chi ha mai dato un briciolo di solidarietà agli afghani? e chi si occupa, ad esempio, degli sfruttati venezuelani o boliviani sempre sotto rito?). Il "massimo" che si sente dire è: gli iracheni hanno "il diritto" a decidere "da soli". Macché! Qui, o decidiamo insieme, noi e "loro", oppure... decidiamo insieme il nostro auto-affondamento. Sono gli stessi iracheni ed "islamici" più consapevoli a dircelo, ma qui si continua a fare orecchie da mercanti. Ed in questo modo la resistenza degli iracheni, come è nei voti e nei fini delle potenze imperialiste, continua a rimanere isolata dalle metropoli, dove sta, anzi, crescendo, se si eccettuano delle spinte positive (ma del tutto insufficienti) negli Usa e in Gran Bretagna, l’ostilità nei confronti dei lavoratori immigrati dai paesi arabi ed "islamici".

Il secondo esempio è il dibattito intorno al "come se ne esce". Se non ci inganniamo, tra i leaders del movimento (1) non ce n’è uno che non invochi, col ritiro delle truppe, la contestuale consegna dell’Iraq nelle mani dell’Onu o della "comunità internazionale" affinché non precipiti nella guerra civile. Il 20 marzo a Roma era largamente presente anche alla base, tra i manifestanti, un analogo senso comune di richiamo all’ennesimo intervento dell’Onu. Il duplice paradosso è che questo senso comune lo hanno sedimentato a livello di massa proprio quei partiti e gruppi istituzionali e para-istituzionali nei quali non ci si vuol più lasciare "intruppare"; e che esattamente su di esso fanno leva ora, per uscire dalle difficoltà in cui si trovano, anche i Blair ed i Berlusconi! A quest’ultimo, dopotutto, si imputa solo di aver "venduto" per concluso un processo che è appena avviato, ma sulla reale natura e sostanza di classe di questo processo (saremo sordi...) non udiamo parola. Nessuno che dica: è puro e semplice colonialismo. Nessuno che dica: se entra anche l’Onu, banchetteranno sulla pelle degli iracheni anche altre jene, oltre quelle di Wall Street, del Pentagono e del Polo delle libertà. Nessuno che dica: attenzione, la stessa provvisoria vittoria del movimento in Spagna è a rischio di essere rovesciata di segno, se Zapatero riuscirà coinvolgere l’opinione pubblica pacifista nel suo "rifiuto del vuoto di potere" in Iraq, cioé nel suo rifiuto a che l’Occidente sfruttatore e assassino lasci l’Iraq. In tal caso si sarà varata la continuazione della guerra all’Iraq sotto altre forme, altre, poi, per modo di dire, visti i 100-150.000 militari "alleati" destinati comunque a restare in loco. Cosa sta facendo il movimento "no war" per non subìre una simile sciagurata eventualità? Non molto ci sembra, anzi!

Tra voi che ci state leggendo c’è forse chi non si riconosce in questo "ritratto", e può dirci: "io ho simpatìa per la resistenza irachena, e non sbavo di sicuro per l’Onu e i suoi poco puliti maneggi; solo non sono in grado di dire come uscirne in altro modo". Vada! Siamo convinti che di giovani (e meno giovani) di questo tipo ce n’è in giro più di quanti non sembri, e ce n’è, forse, soprattutto tra quelli "carsici" che compaiono e poi scompaiono. Proprio a loro, però, poniamo un problema: come far valere questi sentimenti od orientamenti, dove vagliare approfonditamente i dubbi e le domande, dal momento che siamo di fronte, e dentro, ad un movimento che, quasi per principio, non si è dato vere e proprie sedi di discussione sul programma e sulla strategia da adottare, di partecipazione, di decisioni condivise, di organizzazione? Invece proprio di questo c’è estrema necessità, se vogliamo uscire dall’impasse in cui siamo finiti.

Non intendiamo affatto sminuire il valore, la spontaneità, le potenzialità del "movimento" (2). C’è bisogno di spontaneità, è evidente; come c’è bisogno delle mille e diverse spinte anti-sistema manifestatesi da Seattle in poi. Ma tanto queste che quella non possono maturare spontaneamente da sé.

Per darsi un indirizzo programmatico e di azione veramente adeguato all’oggettività dello scontro e all’antagonista ben organizzato ed esperto con cui si sta battendo (un indirizzo che allo stato non ha), il "movimento" deve sforzarsi di chiarire a sé stesso le cause profonde della guerra (delle guerre) in corso, la natura di classe degli schieramenti in campo, la reale funzione delle cosiddette "istituzioni internazionali" (Onu in testa), le ragioni per cui la battaglia delle masse medio-orientali non può darsi, contingentemente, se non sotto le insegne dell’islamismo radicale, e deve riuscire ad afferrare l’unità di destino tra gli sfruttati del Sud del mondo e i lavoratori del Nord del mondo.

Quest’opera di auto-chiarificazione e di auto-organizzazione attraverso cui deve nascere una nuova direzione del movimento che sia all’altezza dei compiti, non può essere lasciata al caso o alla buona volontà dei singoli. L’avversario di classe ci studia; studia attentamente forza e debolezze, passato e presente del movimento di classe per riuscire a dividerci e batterci. Dobbiamo impegnarci in un lavoro eguale e contrario, perché sarebbe un’imperdonabile leggerezza affrontarlo nudi di teoria, di programma e di organizzazione, nell’illusione che ciò che oggi manca verrà da sé automaticamente domani. E in questo sforzo il movimento "no war", o almeno la sua parte che è meno imbrigliata nelle logiche parlamentaristiche, non può, non deve rinunciare all’apporto di quelle avanguardie "di partito" che lavorano, pur se in quattro gatti e tra le più grandi difficoltà, a distillare l’esperienza storica passata e discutere a fondo quella del presente. Ciò che vi è di malato nel "partitismo" riformista non è il principio-base dell’organizzazione, è il contenuto riformista, che porta con sé un contenitore (organizzazione) pieno di quel carrierismo, quell’individualismo, quel burocratismo, che in tanti a ragione respingono. Ma una lunga storia dice che la prospettiva realmente antagonista alle guerre dell’imperialismo e al sistema capitalistico da cui discendono richiede un ben altro e diverso genere di organizzazione di partito, e che senza una simile organizzazione è impossibile spuntarla.

Forse qui e lì, all’interno del movimento, lo si sta cominciando ad avvertire. Fateci dire che nella stessa manifestazione del 20 marzo, pur così caratterizzata da disorganizzazione e parcellizzazione, il nostro piccolo spezzone, guidato come sempre da uno striscione, veniva salutato con simpatia da pugni alzati e da applausi da manifestanti che raccoglievano e gridavano con noi i nostri slogan, proprio, crediamo, per la sua compattezza, per l’essere un’espressione fisica di organizzazione e di disciplina. E la medesima cosa accadeva anche ad altri spezzoni (piccoli più o meno come il nostro) con analoghe caratteristiche. Niente più che minuscoli segnali di un naturale bisogno o necessità delle "sparse membra" di ricomporsi in un unico organismo, non virtuale bensì reale, non intermittente bensì continuo, non disarticolato bensì coeso e consapevole del cammino che l’attende e dei compiti a cui sarà chiamato. Quelli che non vogliono tornare a casa, è bene si confrontino il prima possibile con questa necessità.

(1) Non paia contraddittorio parlare ad un tempo di mancanza di direzione e di leaders del movimento, poiché ad onta di tutte le auto-rappresentazioni più o meno celebrative di esso, il movimento "no war" è, insieme, privo di una direzione che sia all’altezza dello scontro e dotato di una direzione che da tanti "fili", o corde piuttosto, è legata all’Ulivo, italiano ed europeo, che è parte integrante (c’è qualcuno che ricordi l’aggressione alla Jugoslavia o la prima guerra all’Iraq? e come mai?) di quell’establishment capitalistico internazionale che sta dietro le guerre dichiarate e non dichiarate ai popoli del Sud del mondo e all’attacco ai lavoratori del mondo intero (o abbiamo dimenticato su quali assi l’"anti-berlusconismo" di Prodi e Fassino è incardinato?).

(2) Scriviamo la parola "movimento" tra virgolette poiché nella nostra visione il movimento "no war" non è il movimento in quanto tale, bensì "solo" una componente del movimento mondiale di classe del proletariato (degli sfruttati) che è, per noi (in quanto sia antagonismo in atto (e non solo in potenza)) "il movimento che abbatte lo stato di cose presenti". L’identificazione, invece, di questo movimento "no war" con il movimento tout-court pecca ad un tempo di "settorialismo" e di "eurocentrismo". Contro questa guerra, contro il progetto di "guerra infinita" di Bush e soci, ammettiamolo, ha fatto enormemente di più la resistenza degli iracheni che le nostre mega-dimostrazioni.