Cronaca di una battaglia esemplare

I ventuno giorni di sciopero, raccontati anche attraverso la nostra partecipazione alle manifestazioni dei lavoratori della Sata a Melfi del 24 aprile e a Roma del 4 maggio.

All’inizio degli anni ’90 l’apertura dello stabilimento Fiat di Melfi (oltre 5000 dipendenti, più altri 3000 impiegati nell’indotto) è accompagnata da una massiccia campagna propagandistica. L’azienda e stuoli di "esperti" assicurarono che nella fabbrica che stava per aprire i battenti l’operaio non sarebbe più stato una semplice appendice della catena di montaggio, ma avrebbe potuto sviluppare ampiamente le sue "qualità lavorative". Spiegarono che non vi sarebbero state gerarchie rigide e che i lavoratori avrebbero potuto finanche contribuire alle decisioni circa l’organizzazione del lavoro. In realtà, e sin dall’inizio, si trattò di...

…un’autentica e modernissima fabbrica-caserma.

La Fiat in Basilicata si chiama Sata: si è assunti con contratto metalmeccanico, ma non si "gode" degli stessi diritti degli altri lavoratori della casa automobilistica. I ritmi lavorativi sono superiori del 18% rispetto a quelli del resto del gruppo. Il salario è invece inferiore di circa un 20%. I turni, poi, sono massacranti. Si è costretti anche a dodici notti consecutive (la ormai famosa "doppia battuta") e pure le donne ( tramite una deroga alla legge che lo vieterebbe) sono sottoposte al lavoro notturno e a queste turnazioni. Si aggiunga che, tra andata e ritorno, per recarsi al lavoro, spesso bisogna sobbarcarsi più di due ore di viaggio, e il quadro si fa completo.

L’obiettivo della Fiat è chiaro: servirsi della fame di lavoro che c’è nel meridione per imporre livelli di sfruttamento bestiali da esportare poi, un pezzo alla volta, in tutti gli altri stabilimenti. Le condizioni lavorative sono così oppressive che (nonostante le scarsissime alternative occupazionali presenti nell’area) nel primo triennio sono state circa settecento le dimissioni volontarie.

Per anni comunque la cosa funziona anche "grazie" alla valanga (circa novemila negli ultimi tre anni) di provvedimenti disciplinari e di "spostamenti" punitivi che costantemente vengono rovesciati sugli operai e sui delegati.

Nel ’96 il "Motor Business Europe" incorona la Sata (con le sue 64,3 vetture annue - diventate 77 nel 2002 - prodotte per singolo dipendente) come fabbrica a "ciclo integrale" più efficiente e con costi di produzione più bassi di tutto il continente. L’inferno per i proletari è il paradiso per i padroni.

La corda si spezza.

Metà aprile 2004. Gli operai di alcune aziende dell’indotto scioperano per ottenere un miglioramento delle condizioni salariali e lavorative che, se possibile, sono peggiori e più precarie che alla stessa Sata. A causa di ciò la Fiat si dice "costretta" a sospendere la produzione e mette ripetutamente in "libertà" i lavoratori (cioè li manda a casa senza pagare la giornata). È la goccia che fa traboccare il vaso. "Non possiamo venire spremuti come limoni e poi, quando non serviamo, gettati via come stracci: qui è in gioco la nostra dignità". Ci si guarda in faccia, ci si riunisce, "di colpo" scompaiono le paure e le incertezze. Quasi all’improvviso ci si rende conto di essere davvero in tanti e tutti con uno stesso forte desiderio: farla finita con quest’inferno.

Parte la lotta, parte lo sciopero. Si organizzano presìdi di massa davanti ai cancelli e si blocca l’uscita delle merci e dei "pezzi" destinati agli altri stabilimenti. La mobilitazione è contagiosa, è una gran bella "malattia": cresce. La fabbrica resta deserta. L’azienda chiama a raccolta capi e capetti, ne carica a più riprese una cinquantina su alcuni autobus e li spedisce a forzare i blocchi: ma ai cancelli, di fronte alla compattezza dei lavoratori, la provocazione fallisce miseramente. Il sindaco di Melfi – su mandato Fiat – prova ad organizzare una marcia cittadina contro i presidi e "per il diritto al lavoro" (alla faccia tosta non c’è mai limite!). Risultato: un fallimento completo.

Intanto tra gli operai aumenta la giusta convinzione di poter davvero, se uniti e decisi, affrontare la Fiat. Viene richiesto l’adeguamento salariale agli altri stabilimenti e la fine della "doppia battuta". Si vuole inoltre la certezza che nessun provvedimento disciplinare venga preso nei confronti degli scioperanti.

Le direzioni della Fim-Cisl, della Uilm e del sindacato aziendale Fismic, coerentemente con la loro politica filo-aziendalista di sempre, si dissociano dalla lotta e dai presidi. La Fiom-Cgil, lo Slai-Cobas ed altre sigle sindacali invece si schierano sin da subito coi lavoratori.

Si prova ad isolare Melfi.

La Fiat, la Confindustria ed il governo capiscono subito che la faccenda è seria e che può diventare un "pericolosissimo" esempio non solo per gli altri siti del gruppo torinese ma per l’intero mondo del lavoro. Parte quindi l’ordine di scuderia: fare di tutto per isolare la mobilitazione. I grandi mezzi di comunicazione lo recepiscono al volo e si adoperano per far passare la lotta il più in sordina possibile.

Col passare dei giorni, intanto, le ripercussioni dello sciopero iniziano a farsi sentire sull’intera catena produttiva. Da Melfi non arrivano i pezzi e la casa torinese è costretta a rallentare la produzione anche negli altri stabilimenti dove vengono messi in "libertà" i lavoratori. Umberto Agnelli parla di decine di migliaia di automobili "regalate" alla concorrenza e di fatto "invita" gli "altri" operai del gruppo a prendere le distanze dalla mobilitazione in corso.

La sera del 23 aprile la Fiat prova la strada dell’accordo separato. Convoca a Roma i sindacati e detta le sue arroganti pre-condizioni: si può discutere di qualcosina solo se prima vengono rimossi blocchi e presidi. Fim-Cisl, Uilm e Fismic -che intanto si stanno impegnando con molto ardore (e scarsi risultati) in un’opera di denigrazione e di sabotaggio dello sciopero- accettano subito. I delegati di fabbrica, la Fiom e la massa compatta dei lavoratori rifiutano senza mezzi termini il ricatto. Nella notte l’azienda firma con Fim, Uilm e Fismic un accordo-farsa. Un accordo sul "nulla", ma che in qualche modo contribuisce anche a "legittimare" e a preparare il terreno ad eventuali iniziative "d’ordine pubblico" contro i presidi.

"Noi non molliamo!"

La migliore risposta all’accordo separato giunge la mattina successiva con la bella e riuscita manifestazione che attraversa il comprensorio industriale di Melfi e si conclude davanti alla Fiat. Vi partecipano migliaia e migliaia di operai della Sata e dell’indotto. Sono presenti delegazioni da Pomigliano e da Arese, ed anche tanti studenti e lavoratori provenienti da altre zone della regione.

Dalla manifestazione una sola voce: "Noi non molliamo. Questa è la nostra lotta e vogliamo decidere noi. In fabbrica alle condizioni di prima non rientriamo".

Il clima è sereno e, allo stesso tempo, determinato. Si ribadisce inoltre che solo l’assemblea potrà decidere se modificare le forme con cui proseguire la lotta. Per ora blocchi e presidi continuano.

Le cariche e lo sciopero dei metalmeccanici

Proprio in quei giorni la magistratura emana una serie di ingiunzioni contro i blocchi e la mattina di lunedì 26 aprile la polizia (presente da giorni in modo massiccio) in assetto anti-sommossa carica i presidi ferendo una decina di operai. Ma lo sgombero non riesce e, dopo un primo momento, i lavoratori tornano in massa davanti ai cancelli. Da parte sua, il governo rivendica e difende la giustezza e la legittimità delle cariche contro il "comportamento illegale degli scioperanti".

In solidarietà con la lotta di Melfi e contro l’aggressione poliziesca viene indetto dalla Fiom per il 28 aprile uno sciopero generale di quattro ore di tutto il settore metalmeccanico (in Basilicata l’astensione del lavoro riguarda tutte le categorie per l’intero giornata). L’andamento dello sciopero è -cosa tutt’altro che scontata- nel complesso positivo. Nella stessa giornata si tiene davanti alla Fiat di Melfi una nuova e riuscita manifestazione che vede partecipare anche delegazioni da Brescia e da Termini Imerese.

Intanto, sotto il peso di pressioni di tutti i tipi (non ultime quelle esercitate dai vertici Cgil sulla Fiom), si decide di togliere i blocchi, ma di proseguire lo sciopero. La Fiat può mandare i camion a prelevare i pezzi e le componenti, ma la fabbrica continua a restare vuota di operai.

Il 4 maggio con quattordici autobus i lavoratori Sata puntano su Roma e per le vie della capitale danno vita ad un combattivo e compatto corteo per imporre all’azienda di sedere al tavolo negoziale.

Lo sciopero vince.

La Fiat è costretta alla trattativa, e questa si tiene quasi integralmente (come chiedevano i lavoratori) a Melfi. Alla fine, nella notte tra il 9 e il 10 maggio, dopo tre settimane di sciopero, si firma. Le turnazioni vengono modificate in modo da abolire la "doppia battuta"; sul versante salariale si ottiene un avvicinamento ai livelli degli altri stabilimenti e si ottengono una serie di garanzie contro l’uso terroristico dei provvedimenti disciplinari da parte della direzione aziendale. Al momento in cui andiamo in stampa devono ancora svolgersi le assemblee e il referendum sull’accordo. "A caldo" tra i lavoratori si respira aria di soddisfazione non solo perché "qualcosa di realmente concreto" lo si è ottenuto, ma anche e soprattutto perché ci si è "svegliati", si è alzata la testa, si è riconquistata, come ha detto un operaio di Melfi, la "propria dignità".

Da oggi alla Sata nulla sarà più come prima.