Dopo tre anni di governo Berlusconi-Bossi-Fini
Un governo
che ha mantenuto
le sue promesse.
Nel 2001 quasi il 50% dei lavoratori votò per il trio Berlusconi-Bossi-Fini. Non pochi tra loro, oggi, sono delusi. E alle prese con le paure, la fatica di tirare avanti e le difficoltà in cui si dibattono, in Italia, gli altri lavoratori... Come uscirne?
Per rispondere a questa domanda, non si può che partire da un rapido bilancio di ciò che ha fatto il governo Berlusconi-Bossi-Fini. Un luogo comune vuole che esso non abbia mantenuto le sue promesse elettorali. Noi non ci uniamo al coro di chi ridicolizza il governo del cavaliere. E affermiamo che, a differenza del primo Berlusconi, esso ha centrato in pieno l’obiettivo che aveva dichiarato: quello di affondare la lama contro i lavoratori.
Un massacro sociale
Il governo Berlusconi-Bossi-Fini, infatti, ha spinto in avanti la precarizzazione del mercato del lavoro (vedi le pagine 16-17). Ha reso permanente la condizione di ricattabilità dei lavoratori immigrati. Ha applicato le leggi democratiche "nel modo più fascista possibile", con gli arresti preventivi degli immigrati di fede islamica e con gli interventi di controllo e di repressione contro gli stessi lavoratori italiani non disposti a piegare la schiena nelle fabbriche. Raccogliendo l’eredità dei governi precedenti, il governo Berlusconi ha scaricato la spesa sanitaria ancor più direttamente sui salari dei lavoratori. Ha portato avanti una contro-riforma in campo psichiatrico. Ha allungato ulteriormente il numero d’anni lavorativi necessario per accedere alla pensione e "incoraggiato" la sottoscrizione di fondi-pensione individuali da parte dei lavoratori. Ha fatto la sua parte per continuare a ricacciare indietro la donna, con l’ulteriore taglio ai servizi sociali e la nuova legge sulla procreazione assistita. Ha operato per rendere la scuola un apparato di selezione e di inquadramento classista più di quanto non avvenisse nel passato. Ha quasi portato a termine una riforma costituzionale che, con la devolution, acuisce la frantumazione e la concorrenza tra lavoratori di regioni e territori diversi. Ha fatto partecipare l’Italia alle guerre d’aggressione contro i popoli dell’Afghanistan e dell’Iraq. Ha centralizzato come non mai l’informazione pubblica e privata agli interessi dei capitalisti e delle loro guerre. Ha intenzione di attuare una riforma fiscale che regalerà l’80% dello sconto promesso (25-30 miliardi di euro) al 20% dei contribuenti più ricchi e che, come è accaduto negli Stati Uniti dove un simile provvedimento è già stato attuato, darà un altro colpo di scure alle tutele per i lavoratori in campo sanitario e pensionistico...
Come si fa a dire che il governo Berlusconi-Bossi-Fini non ha mantenuto le promesse?
Venti anni fa al lavoro dipendente ritornava in mano il 56% della ricchezza nazionale. Oggi solo 40%, una quota al di sotto di quella intascata dal vertice della gerarchia sociale, cioè da quel 7% di italiani che detiene il 44% della ricchezza nazionale. |
Dopo tre anni, il potere di acquisto dei lavoratori è sensibilmente ridotto. La Federconsumatori stima che i redditi annui di 6.500 euro abbiano perso l’11% della loro capacità di acquisto, quelli di 15.000 euro si siano dimagriti del 7,5%. Salvi, al contrario, i redditi superiori a 60mila euro. Quando si dice la giustizia sociale... Da sola, la spesa per l’affitto (sostenuta da 4 milioni e mezzo di famiglie) è aumentata nel 2003 del 16% ed essa ormai pesa per il 30% in una famiglia con reddito medio (nel 1998 eravamo al 20%). È cresciuto poi l’indebitamento delle famiglie proletarie, sia per i mutui per la casa (i tre quarti dei quali sono a tassi variabili) che per i "piccoli" acquisti rateizzati. Per quanto riguarda i contratti e le condizioni di lavoro, cioè per il momento centrale della vita dei salariati, una frase è sufficiente per rappresentare la situazione reale: "il mercato del lavoro è soggiogato". Lo ha scritto Bankitalia, e c’è da crederle.
Nel 2001 non pochi lavoratori avevano votato per la Casa delle Libertà. Non pochi tra loro sono oggi delusi. Essi si chiedono, insieme ai proletari che non avevano votato o che avevano scelto l’Ulivo o Rifondazione: come venirne fuori?
Alcuni lavoratori guardano con speranza al nuovo presidente della Confindustria. Sembrerebbe che anche gli industriali siano scontenti del governo Berlusconi e decisi a tornare alla "concertazione".
Ora, che i padroni, i manager e i grandi azionisti non siano del tutto contenti del governo, è senz’altro vero. Ma perché non lo sono? Perché il governo della Casa delle Libertà non è riuscito a tradurre il massacro compiuto sui posti di lavoro in un accentramento politico e statale del dominio capitalistico in grado di garantire al sistema-Italia la competitività richiesta dalla situazione del capitalismo mondiale.
Questa situazione sta stringendo l’Italia con una morsa che minaccia di farle perdere bruscamente (più di quanto non sia accaduto finora) il ruolo che essa detiene nel mercato mondiale. È indicativa la perdita del 25% della quota detenuta dall’Italia nel commercio mondiale: era del 4,5% nel 1995, è diventata del 3% nel 2003. A spingere il capitalismo italiano verso il basso vi è, da un lato, l’invadenza delle potenze capitalistiche occidentali più forti, e innanzitutto degli Stati Uniti e della Germania. Dall’altro lato, quella dei paesi di recente industrializzazione dell’Asia.
Questa morsa sta mettendo in pericolo le "sicurezze" di tutte le classi sociali del paese. Dei manager e degli azionisti degli ultimi grandi gruppi capitalistici rimasti in Italia (Eni, Telecom-Pirelli, Enel, ecc.), dei proprietari delle 2-300 medie imprese che costituiscono l’ossatura dell’apparato industriale italiano, dei padroni delle banche del paese, dei piccoli imprenditori dei distretti industriali, del ceto medio dei tecnici e degli impiegati, degli operai...
La ricetta risolutiva, però, non può essere la stessa per le varie classi sociali.
Il declino dell’Italia: la ricetta dei padroni
Chi campa sullo sfruttamento del lavoro altrui può mantenere le proprie posizioni e, magari, riprendere quota nella competizione internazionale solo proseguendo sulla via tracciata da Berlusconi. Proseguendovi con maggiore decisione. Cosa ciò voglia dire in concreto lo ha fatto capire lo stesso presidente del consiglio, quando ha detto che occorre aumentare il numero di giorni lavorativi annuali...
A dettare questa strada è la realtà del mercato mondiale: per le imprese italiane la competizione su entrambi i lati della morsa si gioca sul terreno della più spinto sfruttamento del lavoro. Hai voglia a dire, da parte dei dirigenti del centro-sinistra, che si può competere sul mercato mondiale senza puntare sull’abbassamento dei costi del lavoro e facendo leva sulla "qualità" dello sviluppo. Dov’è mai questo sogno?
Uno degli ingredienti del successo degli Stati Uniti, il paese all’avanguardia mondiale, è il brutale abbassamento dei salari e il duro appesantimento dell’orario di lavoro che i lavoratori hanno subìto negli ultimi vent’anni. La stessa tendenza emerge anche dalla situazione tedesca, l’altro esempio di "via alta allo sviluppo", come testimonia il "caso" (v. riquadro) riguardante uno dei gioielli dell’industria europea: la Siemens. Per sostenerne la competitività, i dirigenti aziendali stanno sospingendo i lavoratori tedeschi verso i salari e gli orari dei lavoratori dell’Est...
Senza contare, poi, che non sarà facile per la classe capitalistica italiana compiere il colpo di reni che le è necessario per mantenersi nel gruppo di testa delle potenze mondiali. Pesano in senso opposto il rachitismo del capitalismo italiano e le debolezze storiche del suo apparato statale. Sono ormai in pericolo le stesse imprese che hanno trainato la crescita degli ultimi anni: quelle dei distretti industriali, alle prese con l’esaurimento delle condizioni che avevano dato loro il vento in poppa. Tra queste (oltre allo sfruttamento della manodopera, italiana e immigrata) il decentramento della produzione delle grandi industrie italiane, che però stanno colando a picco, stritolate dall’insufficiente disponibilità finanziaria del sistema bancario e borsistico nazionale (1).
Se continuerà la "triste dissolvenza dell’economia italiana", i vari settori del padronato e dei finanzieri italiani non si limiteranno, come stanno già facendo le imprese tedesche e statunitensi, a delocalizzare all’Est o in Estremo Oriente. Oltre a ciò, davanti ai ristretti margini di manovra che la concorrenza lascerà loro e nel timore di affrontare un necessario e (per loro) pericoloso scontro sociale con i lavoratori del paese, i capitalisti italiani potrebbero essere tentati (come già avvenne durante la seconda guerra mondiale) di schiacciare i proletari dividendoli per regioni e di salvare il proprio portafoglio mettendosi al servizio di capitalisti più forti d’oltre confine, in cambio dell’assunzione del ruolo di "caporali" dei "propri" proletari: la messa in concorrenza con i lavoratori sudcoreani o cechi sarebbe ancor più brutale. I segnali in tal senso non mancano...
Nessuna cambiale in bianco alla "rivincita" elettorale dell’Ulivo
Che i lavoratori sentano l’urgenza di fare qualcosa, lo si è visto dalle lotte degli autoferrotranvieri e degli operai di Melfi, e dal consenso che esse hanno raccolto tra la popolazione lavoratrice. Un sondaggio della "Simulation Intelligence" di Milano del gennaio scorso ha rivelato che il 58% degli italiani si è dichiarato d’accordo, benché "utente", con la forma di lotta "estrema" scelta dagli auto-ferrotranvieri.
Una parte dei lavoratori spera che questo cambiamento si possa realizzare con le prossime elezioni, senza "scontro sociale". La vittoria di Zapatero incoraggia questa prospettiva. Ma quale sarebbe la politica del governo dell’Ulivo?
Le linee di fondo del suo programma non sono diverse (a parte i condimenti) da quelle dei partiti del centro-destra. Leggere per credere. Rutelli, da parte sua, è stato esplicito: ha dichiarato che c’è bisogno di due anni di lavoro in più prima di andare in pensione e della reintroduzione delle gabbie salariali. Dov’è la differenza sostanziale con ciò che dicono Berlusconi o Bossi? I dirigenti del centro-sinistra, inoltre, non intendono mettere in discussione gli elementi essenziali della liberalizzazione del mercato del lavoro introdotti dal governo Berlusconi.
La Cgil nazionale, da parte sua, come si è visto nell’assemblea di Chianciano, ha risentito del vento primaverile di Melfi, ma la direzione del maggiore sindacato è tornata a rilanciare la concertazione con il padronato e (in nome della "via alta allo sviluppo" e delle alleanze elettorali che dovrebbero favorirla) ha tentato di isolare le spinte più determinate della Fiom e criticato le forme di lotta radicali degli operai di Melfi; si è così messa di traverso a quelle azioni in grado davvero di contrastare la politica del governo sull’onda e con la forza della mobilitazione di massa dei lavoratori.
Per noi questi elementi dovrebbero essere già più che sufficienti per prevedere cosa porterà ai lavoratori un eventuale passaggio del testimone (via elezioni) al centro-sinistra. Ai lavoratori che, malgrado questi segnali e un proprio strisciante scetticismo nei confronti della democrazia parlamentare, vi fanno affidamento, diciamo francamente: evitate, almeno, di rilasciare una cambiale in bianco ai partiti per i quali voterete, datevi da fare per mettere alcuni paletti programmatici. Quali possano essere questi paletti, lo indicano i problemi pressanti che segnano la vita dei proletari. Ad esempio la riduzione della precarietà del posto di lavoro e della versione estrema di essa che pesa sui lavoratori immigrati (e, tramite loro, sugli stessi lavoratori italiani). Chiedete, quindi, un impegno esplicito al ritiro della legge 30 e della legge Bossi-Fini. Chiedete il ritiro incondizionato delle truppe italiane dal Medio Oriente. E, soprattutto, comunque ci si orienterà nella competizione elettorale, non aspettiamo passivamente la conta delle schede, ma riprendiamo a batterci da subito con la lotta contro i provvedimenti del governo Berlusconi.
Da Melfi, e oltre Melfi, la ricetta dei lavoratori
Fanno bene quei delegati Fiom (spesso in sintonia con delegati di base di altre organizzazioni sindacali) che ribadiscono la propria diffidenza nelle assemblee congressuali di queste settimane verso il rilancio della "concertazione" con la Confindustria proposto da Epifani e sostengono che il messaggio da raccogliere è quello che viene dai lavoratori di Melfi e dell’Alitalia. A questi lavoratori diciamo: queste giuste intuizioni, se non vogliono rimanere tali, hanno bisogno di essere sviluppate in un impegno sul piano politico. La lotta sindacale, anche quando riesce a spuntare dei risultati in alcune aziende, risulta vanificata quasi del tutto se non si estende a ciò che il governo (anche un eventuale governo "amico") ha fatto e fa sulla normativa sul lavoro e sugli immigrati, sul bilancio statale, sulla sanità, sulle politiche di ristrutturazione dell’apparato statale, sulla politica estera, ecc.
L’iniziativa su questo più ampio terreno politico non può essere delegata né ai partiti del centro-sinistra, né ai vertici sindacali. Anche qui va assunta in prima persona, come hanno fatto sul terreno sindacale i lavoratori di Melfi nella conduzione della loro lotta. A chi continua a ripetere che i lavoratori devono lasciare la politica agli specialisti della politica, che essi devono limitarsi ad avvitare bulloni, a costoro va ribattuto che, proprio perché la politica è un qualcosa di importante, che riguarda le nostre vite ed il nostro futuro, proprio per questo ce ne dobbiamo occupare direttamente noi, noi operai che avvitiamo bulloni, che costruiamo le case, noi che produciamo tutto ciò che la società usa e consuma. L’impegno a costruire un’organizzazione politica autonoma dei lavoratori, incardinata sulla difesa intransigente dei loro interessi, non è un di più o un a "sé stante" rispetto alle lotte per l’eliminazione della doppia battuta o per il recupero salariale o per il contenimento della precarizzazione.
È vero, come ha ripetuto Epifani all’assemblea della Cgil di Chianciano, che al momento (anche se per lui questo momento dovrebbe essere eterno) gli obiettivi che i lavoratori si pongono sono riformisti. Ma per strapparli ai capitalisti e al governo, occorre far leva su metodi di lotta non vincolati alle compatibilità della politica riformista. Non è solo il capitalismo italiano a declinare. Sta declinando il capitalismo come sistema sociale. Ed è da qui, da questa crisi storica del sistema sociale capitalistico, e non dalla sua gestione "selvaggia", che nasce l’attacco che in così pochi anni ha fatto arretrare così sensibilmente la condizione di tutti i settori del proletariato e anche degli impiegati e dei tecnici. In questa situazione, la salute dei lavoratori anche in un solo paese dipende solo dalla salute della loro organizzazione di lotta, non da quella delle aziende, e dal collegamento di questa organizzazione con quella dei lavoratori degli altri paesi.
Diamoci da fare per tradurre in mobilitazione la rabbia che cova in tanti lavoratori, allarghiamo le mobilitazioni contrattuali e le lotte contro i licenziamenti in corso, facciamo convergere le une e le altre in un fronte di lotta unitario che sappia parlare e assumere le esigenze di tutti i settori della classe lavoratrice, a partire dai più ricattati e disorganizzati. Il tentativo che fu organizzato in tal senso nel marzo di due anni fa con la manifestazione di Roma e quello precedente del 1994 (contro il primo governo Berlusconi) non sono riusciti non perché mancassero le energie tra la classe lavoratrice. Ciò che è mancata è una politica adeguata, in grado di rifiutare le basi di una concertazione usata a proprio vantaggio dalla Confindustria e da lei fatta saltare quando aveva svolto la sua funzione smobilitante tra l’organizzazione sindacale dei lavoratori. Oggi, dopo il massacro sociale compiuto dal governo, l’esigenza di questa politica è più stringente. Ed essa è la sola in grado di dare una risposta al malessere che si accumula tra i lavoratori e impedire che essi si abbandonino alla rassegnazione o alla ricerca di una (impossibile) tutela alla coda del progressivo e stanco sfarinarsi della classe capitalistica italiana.
Questa politica, portata avanti inizialmente anche solo da un’avanguardia dei lavoratori, permetterebbe di superare l’individualismo e la sfiducia nelle proprie forze che segnano la gioventù proletaria, anche quella ancora stordita sui banchi di scuola. Darebbe la possibilità alla classe proletaria di offrire uno sbocco e capitalizzare a favore della lotta contro i padroni, i banchieri e i loro governi il crescente scontento dei tecnici e degli impiegati, e le iniziative di quanti fra loro (come è iniziato ad accadere con i medici del servizio sanitario nazionale) percepiscono l’antagonismo tra i bisogni degli esseri umani e la razionalità del mercato, e così riuscire a spezzare il tentativo (che, come accaduto in passato, diventerà bruciante) dei grandi poteri capitalistici (italiani e occidentali) di irregimentare a proprio favore (contro la massa degli sfruttati italiani e "terzo-mondiali") la rabbia del ceto medio da loro stessi originata.
Un nuovo... vecchio problema
Questa politica, infine, è la base per vedere come rispondere senza cedimenti ai ricatti connessi con la minaccia padronale della delocalizzazione: ci vuole l’impegno a collegare la propria iniziativa di lotta e il proprio rifiuto dei ricatti padronali all’organizzazione di un’analoga battaglia tra i lavoratori dei paesi dell’Est europeo, dell’Africa del Nord e degli altri continenti di colore. Altre volte nella storia, la classe lavoratrice è stata in grado di accettare questa sfida internazionalista. Accadde ad esempio nel 1864, quando le organizzazioni degli operai francesi e inglesi, insieme ai rappresentanti dei movimenti anti-colonialisti rivoluzionari dell’epoca, s’incontrarono a Londra e fondarono l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, quella che avrebbe visto la partecipazione di Karl Marx. Avevano bisogno di stoppare la tattica dei padroni inglesi di utilizzare i lavoratori del continente europeo per spezzare gli scioperi degli operai di Liverpool, Manchester e Londra.
Oggi l’Inghilterra è diventata il mondo intero.
Lasciamo ai capitalisti e ai loro cantori l’idea che quell’obiettivo di unire tutti i proletari del mondo, di sostituire alla concorrenza tra sfruttati quella tra sfruttati e capitalisti, sia naufragata perché esso fosse sbagliato o irrealizzabile. Esso non andò in porto perché i lavoratori che lo organizzarono erano ai loro primi passi, e non seppero né poterono far valere l’interesse unitario dei lavoratori e dei popoli delle "periferie" contro la divisione e la gerarchizzazione del mondo del lavoro realizzata e impulsata dal capitalismo mondiale. Non andò in porto perché i lavoratori occidentali, man mano che procedeva l’industrializzazione dei loro paesi, sperarono di poter trovare un futuro "per sé e per i propri figli" attraverso l’ascesa delle "proprie aziende" e del "proprio" stato. Perché il loro iniziale slancio di lotta fu travasato nella delega ai partiti parlamentaristi, nell’affidamento dei propri bisogni all’intervento passivizzante delle istituzioni della democrazia borghese.
Dopo un secolo e mezzo, comincia ad emergere che è questa via, e non quella tracciata dall’Internazionale di Marx, ad aver fatto cilecca.
(1) Le imprese che superano i cinquecento dipendenti in Italia occupano solo il 15% degli addetti, contro il 56% e il 43% di quanto accade in Francia e in Germania. Nello stesso tempo continua l’incursione delle multinazionali straniere nei settori di mercato più proficui. Persino nel campo della produzione agro-alimentare e della grande distribuzione, che è passata per il 60% in mano a catene francesi o tedesche. Con la conseguenza, tra l’altro, di un più agevole afflusso di merci alimentari nordeuropee. Il 45% del latte consumato in Italia proviene da Francia e Germania, come il 50% della carne dei supermercati, il 60% del grano per pasta, pane e biscotti...